Articoli

Il Counseling: Conclusioni

Il Counseling: Conclusioni

Il lavorare assiduamente e il districarmi nel mondo del Counseling ha apportato alla mia persona una consistente crescita sia personale che professionale. Dopo mille letture e svariati confronti tra i più disparati testi letterari di questo approccio, solo avventurandomi a trecentosessanta gradi tra le discipline e le esperienze maturate nel mio corso di studi, sono riuscito a costruire quello che per me fosse il Counseling, ovvero “un modo di essere”. Molto intriganti sono stati i percorsi disciplinari che ho attraversato, a partire dalla psicologia, passando per la pedagogia e proseguendo poi per la sociologia, filosofia, e così via. Tutte le discipline, singolarmente e nell’insieme, mi hanno aperto la strada verso nuovi orizzonti che hanno permesso al mio ragionare cognitivo ed al mio sentire emotivo di comprendere che in fondo la pratica del Counseling rientra in una visione sistemica che abbraccia tutti gli aspetti della vita.

Per prima cosa, nella stesura di questo elaborato, si è voluto fare chiarezza su due aspetti fondamentali senza i quali non sarebbe stato possibile descrivere l’approccio al Counseling nella sua interezza. Il primo riguarda la volontà di voler differenziare in maniera generale ma esaustiva, tre figure professionali (Psicoterapeuta, Psicologo e Counselor) che operano nell’ambito della relazione d’aiuto; il secondo è relativo alla classificazione di tale attività all’interno delle professioni non regolamentate e disciplinate dalla legge n. 4 del 14 gennaio 2013, pubblicata nella GU n. 22 del 26/01/2013.

Dopo aver descritto, invece, la storia e la nascita del Counseling delineandone i vari tratti peculiari, non è stato difficile inciampare nella bellezza e nella particolarità dei diversi approcci teorici e metodologici. Ognuno di essi muove dagli stessi principi base espressi dal carismatico psicologo umanista Carl Rogers e si evolve poi a seconda della teoria di riferimento per poi ritornare nuovamente a quello che è comune a tutti: “aiutare l’altro ad aiutarsi”. Aiutare dunque l’individuo ad acquisire quella tendenza intrinseca che spinge all’autorealizzazione e ad utilizzare le proprie risorse in modo costruttivo, in presenza di condizioni facilitanti. Da questo ne deriva dunque il ruolo del Counselor: facilitare il “cliente” attraverso la relazione d’aiuto affinché entri in pieno contatto con se stesso e con il mondo circostante, per vivere a pieno la propria vita consapevolmente e in sintonia con gli altri, attraverso relazioni sane ed efficaci.

Essenziale, per comprendere al meglio l’applicabilità del Counseling nelle varie aree d’intervento, è stato descrivere in maniera pragmatica tutti gli elementi che caratterizzano la relazione di aiuto come l’empatia, l’ascolto attivo, il colloquio con le sue fasi ed il setting, l’apertura al cambiamento, l’osservazione fenomenologica e tutto quanto già esplicitato in questo elaborato.

È proprio dall’attività pratica, infatti, che nei diversi contesti di vita ha luogo “la relazione”, quell’ “­­incontro-non incontro” che determina l’esperienza del contatto o meno, a seconda delle proprie resistenze personali ed in base alla qualità della comunicazione. D’altronde funzionale o disfunzionale che sia una comunicazione ci deve essere: “Comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro” (Watzlawick et al., 1997).

La persona per natura “comunica”, così come connaturato è il bisogno che ha di essere riconosciuta; attraverso la relazione con l’altro si rispecchia e trova la propria identità, stabilisce la propria forma all’interno di ordine sociale. Qualora questo non avviene si vive nella solitudine, si rischia di cadere in quel circolo vizioso che porta ad attuare sempre le stesse modalità relazionali disfunzionali, condannando l’essere all’infelicità, all’alienazione, alla perdita di senso della stessa vita. In tal senso è stato significativo incorrere nell’approccio strategico, il quale propone una tipologia di Counseling a rottura di tale “circolo vizioso”, per restituire all’altro secondo i principi della relazione d’aiuto, quelle strategie utili e funzionali a ristabilire un equilibrio personale proprio e sociale. Tra le varie tecniche dell’approccio strategico, così come anche per quelle derivanti da altre metodologie di Counseling, il  problem solving strategico elaborato da Giorgio Nardone testimonia una certa efficacia, ma allo stesso tempo restituisce all’attività del Counselingquella apertura all’innovazione, all’evoluzione teorica, metodologica e pragmatica.

Il Counseling è una pratica che può essere applicata a qualsiasi circostanza della vita. Infatti, come abbiamo già visto, la relazione d’aiuto può apportare un sano equilibrio anche all’interno delle difficili dinamiche familiari che si originano all’interno della relazione tra genitori e figli (in particolare quelli adolescenti), oppure tra i manager aziendali e i dipendenti.

Tale attività può assumere un ruolo fondamentale anche all’interno di progetti rivolti alla responsabilità verso la comunità, e un esempio lo troviamo proprio all’interno di questa tesi di laurea, nell’ipotesi progettuale presentata come “C.A.O.S”. Abbiamo visto, infatti, che il Counseling, all’interno di questo progetto, assume una duplice importanza: sia per quanto riguarda l’applicabilità della professione d’aiuto svolta dalla figura del Counselor all’interno delle varie attività di C.A.O.S; sia per quanto concerne il coordinamento dell’intero servizio e delle risorse di rete e di volontariato, le quali rappresentano l’asse portante che sostiene il Centro d’Ascolto, Orientamento e Servizi Per il cittadino.

 


L’importanza del Counseling nel centro di ascolto e nella rete

L’importanza del Counseling nel centro di ascolto

L’attività di Counseling all’interno di C.A.O.S assume una duplice importanza sia per quanto riguarda l’accoglienza, l’ascolto attivo e l’instaurazione di una relazione di aiuto con il singolo individuo, sia per quanto riguarda la comunicazione, la relazione e la gestione delle risorse umane che costituiscono la rete di volontariato. Infatti il cuore pulsante che muove l’intera equipe di volontari è l’interazione che si viene a creare tra le parti ed il campo che prende forma a seconda dell’ambiente e delle interazioni stesse.

Emerge dunque che di fondamentale importanza è la qualità delle relazioni che si riesce ad intessere con l’altro, una qualità che viene determinata da una relazione autentica e da obiettivi comuni condivisi. Attraverso l’attività di counseling ci si prefigge dunque di adottare una continua supervisione per tutte le professionalità coinvolte nel progetto, di formare costantemente tutti i volontari (che sono parte attiva in C.A.O.S) e di tenere costantemente salda la rete di rapporti costituitasi tra il centro, i volontari (tutti), le istituzioni e le autorità territoriali.

Il ruolo del Counselor nella gestione e nel coordinamento delle risorse di rete

Il ruolo del Counselor nel centro d’ascolto è di vitale importanza perché consente di tracciare continuamente quel “Filo Di Arianna”, che guida l’intera organizzazione verso obiettivi condivisi e ben definiti. Per ottenere un servizio chiaro ed efficace vi è costante bisogno di gestire al meglio le risorse impiegate, nonché di coordinare le varie attività affinché queste possano essere realmente funzionali e riescano a rispecchiare l’etica del progetto in essere. Il counselor, nella fattispecie, funge da mediatore e facilitatore della comunicazione tra le parti coinvolte in una determinata attività. La maggior parte delle problematiche inerenti l’attualizzazione o meno di una determinata azione derivano infatti, dall’interruzione del contatto o dalle interferenze che invadono un canale di comunicazione.

Proprio per questo, qualora possibile, bisogna svolgere un lavoro costante volto alla promozione della sinergia di gruppo, mentre quando questo non è possibile, come nel caso delle relazioni con le istituzioni, bisogna saper ben interagire e rappresentare quanto si muove dietro l’intero progetto.  Ogni singola parte del contesto ha bisogno dunque di un punto di riferimento che lo connetta continuamente con l’intero campo d’azione, e allo stesso tempo ha bisogno della giusta attenzione in modo da entrare in relazione anche con se stesso, con quella parte interiore da cui emergono risorse e capacità proprie. Prima di entrare in contatto con gli altri e sinergicamente lavorare d’insieme, il counselor va a creare quel giusto spazio in cui entrando in contatto con se stessi ci si apre alla relazione autentica anche con l’altro diverso da sé.

In sostanza il ruolo del facilitatore è quello di riuscire a far viaggiare di pari passo l’esigenze del gruppo con quelle della singola persona in modo da rafforzare quel campo dove, secondo Lewin, “il tutto è più della somma delle parti” (Rheinberg, 2012), e dove la relazione con l’altro apre alla solidarietà creativa protesa al benessere della comunità.

 


Centro d’Ascolto e Counseling

Centro d’Ascolto e Counseling

Ascoltare le esigenze personali di chi vive una particolare condizione di vita e orientare, verso la giusta direzione e nel rispetto delle proprie scelte personali, chiunque voglia rendere la propria vita ed i propri rapporti relazionali, qualitativamente migliori. Accade talvolta che una persona, seppur voglia uscire da una situazione di disagio e di disadattamento sociale, venga dominata dalle resistenze al contatto, da una difficoltà relazionale che lo porta a vivere in maniera insana il suo essere “uomo tra gli uomini”.

È allora che il semplice ascolto attivo e non giudicante può restituire all’altro quell’occasione di apertura al mondo relazionale, dal quale costruire insieme attraverso la relazione di aiuto, un percorso, un orientamento costernato da valide ed efficaci strategie d’intervento. Attraverso la relazione autentica il Counselor consente al cliente di diventare protagonista, parte attiva di un progetto in cui è la persona stessa a tracciare le linee di una nuova situazione di vita, scelta consapevolmente ed orientata alla crescita personale e protesa al raggiungimento di un maggior benessere.

Famiglie in C.A.O.S.

Tra le risorse da utilizzare sinergicamente attraverso la costruzione ed il coordinamento di una rete di volontari, vi sono tutte quelle famiglie che nel loro piccolo già prestano un servizio di volontariato o che hanno intenzione di farlo ma che non sanno come rendersi utili. Qualsiasi famiglia che aderisce ai principi di C.A.O.S., diviene una risorsa inesauribile nonché punto di riferimento e sostegno per il prossimo. Quante volte ad esempio potremmo donare qualcosa di cui non facciamo più uso, qualsiasi cosa che per altri potrebbe assumere un valore diverso. Eppure spesso per paura di fare un’offesa all’altro o per mancanza di fiducia o presenza di forti pregiudizi verso i “finti bisognosi”, preferiamo cestinare oggetti riutilizzabili e di estrema necessità per altri. Quante famiglie si scambiano favori improvvisandosi baby sitter, baby parking o nidi in famiglia, provvedendo temporaneamente all’assistenza e all’accudimento di quei bambini i cui genitori hanno esigenza di “lasciare” per lavoro o per altre situazioni importanti, e che non possono permettersi di rivolgersi a privati. Si potrebbe creare una squadra di genitori che organizzati in una funzionale turnazione potrebbero sia fornire che ricevere questa tipologia di servizio. Alcune famiglie più fortunate potrebbero inoltre fornire assistenza accogliendo i bambini di quelle famiglie con problematiche di salute o temporaneamente immerse in una situazione di non serenità, (che ovviamente non rientrano nelle pratiche di gestione dei servizi sociali territoriali), evitando inutili traumi e disagi ai minori e sostenendo allo stesso tempo gli stessi genitori in un ruolo difficile, fondamentale e non del tutto scontato. Proprio dalla famiglia emergono i primi valori fondamentali dell’essere ed emerge quel bisogno di riconoscimento, quell’occasione di potersi specchiare nell’altro, nasce dunque la relazione, l’incontro con l’alterità. È questo incontro che consente di sperimentare la propria esistenza e che apre la via che conduce alla strutturazione della propria identità. Se non vi è accudimento, riconoscimento e spinta verso l’esplorazione del mondo, non è facile intraprendere un sano cammino di crescita personale e di adattamento al mondo, si rischia di vivere nella solitudine. Per questi e per i più disparati motivi la famiglia assume un valore inestimabile. Proprio partendo da questa consapevolezza, dalla condivisione di valori ed ideali propri e dalla supervisione di esperti in educazione, comunicazione e relazione, si può trasformare una qualsiasi famiglia in un potente mezzo di volontariato e di utilità sociale, e restituire alla comunità stessa una risorsa inestimabile e una testimonianza concreta di vita.

Mediatore linguistico e culturale

Nell’era della multiculturalità il nostro paese ancora non sembra adeguarsi all’elevato numero di stranieri che convivono all’interno delle nostre città e della nostra cultura. Vi sono sempre più persone straniere emarginate per il solo non conoscere della lingua, tanti sono i casi in cui non si riesce ad usufruire degli ammortizzatori sociali solo per la mancata conoscenza delle leggi o per la difficoltà incontrata a causa della burocrazia. Per questi e per tanti altri motivi, tutti i cittadini sia italiani che stranieri, possono dedicare un piccolo spazio del proprio tempo per sostenere coloro che incontrano le difficoltà suindicate. Fondamentale sarebbe la presenza di un mediatore linguistico e culturale anche per la sola assistenza nella compilazione di documenti, o per agevolare le difficoltà derivanti da una comunicazione che incontra gli ostacoli della sola differenza linguistica e culturale.

Esperti della professione di aiuto

In una semplice relazione di ascolto talvolta emergono difficoltà, problematiche e disagi di natura patologica. L’operazione più semplice ed in linea con l’etica di C.A.O.S, è quella di demandare la persona assistita alle ASL territoriali o alle istituzioni di competenza. Sappiamo tutti le liste chilometriche da sfogliare prima di avere un primo contatto con le istituzioni preposte ad una determinata problematica, così come è facile immaginare come sia facile abbandonare l’idea di farsi aiutare da parte della persona che si rivolge al centro d’ascolto. Siccome molti sono gli esperti della professione di aiuto, e molti sono disponibili a dedicare un piccolo spazio alla solidarietà (soprattutto i professionisti in erba), opera reale e fattibile sarebbe quella di organizzare e coordinare una rete di professionisti e sostenitori di tale progetto (Psicologi, educatori, infermieri, medici, etc.) che con il loro intervento possano fornire un valido supporto nell’assistenza fisica e psicologica in tutte quelle particolari situazioni dove l’urgenza non attende i termini della burocrazia e dove la salute viene prima del compenso economico.

Aziende ed attività commerciali

Molte sono le persone che effettuano una richiesta di lavoro e molte sono le energie investite dalle aziende e dalle attività commerciali nella ricerca e nella selezione del personale relativamente alle posizioni aperte. Molto utile e funzionale sarebbe rendere C.A.O.S una sorta di agenzia interinale dove raccogliere i vari curriculum da far pervenire alle aziende che ricercano figure professionali da inserire. In questo modo si realizzerebbe un proficuo incontro tra domanda e offerta dove il servizio verrebbe quantificato ad un costo pari a zero. Questo in quanto l’obiettivo del centro è quello di aiutare le persone, partendo da una concreta ed effettiva analisi dei bisogni della persona che ovviamente deve essere in linea con il profilo richiesto. Questa analisi risulta ancor più valida se si considera l’attuale crisi che negli ultimi anni ha messo in ginocchio validi ed onesti lavoratori che tentano ad ogni modo di reagire cercando di acquisire, attraverso il lavoro, una certa dignità ed una propria autonomia economica ed integrazione sociale.

Comuni, Asl, comunità e società cooperative del terzo settore

 Attraverso il coordinamento di un equipe professionale si potrebbe creare un lavoro sinergico e di rete per entrare in contatto con le istituzioni territoriali e società del terzo settore, con lo scopo di aiutare a snellire le procedure burocratiche ed ampliare la possibilità di collocazione in “strutture idonee” di tutte quelle persone prese in carico per il recupero ed il reinserimento, che presentano problematiche quali tossicodipendenze, ludopatia, maltrattamenti,emarginazione sociale, etc. Infatti la problematica principale relativa ai tempi assurdi per il collocamento dei soggetti svantaggiati in idonee strutture deriva dalla mancanza di tempo e di personale da parte delle istituzioni che si perdono nel ricercare strutture adatte e nell’effettuare sopralluoghi per verificarne effettivamente i requisiti legislativi. L’aiuto dei professionisti volontari consiste nel gestire una rete che possa far conoscere tutte le strutture e le risorse del luogo e del territorio circostante, ed organizzare visite e sopralluoghi in tempi sicuramente più contenuti di quelli richiesti nella prassi istituzionale.

Giovani volontari, animatori, artisti di strada, musicisti

In una società sempre più tecnologica e carente di relazioni umane, caratterizzata e bombardata da un’infinità di messaggi dal valore educativo del tutto discutibile, sicuramente una risposta sana, in contrapposizione al sistema, sarebbe quella di creare una realtà aggregativa e ludico ricreativa basata sui principi del volontariato. Attraverso tale realtà è possibile interagire in un territorio di riferimento apportando un alto valore sociale aggiunto: sia come concreta testimonianza di contatto e di sana vita relazionale, sia come promozione di attività volte al sostenimento e sostentamento del volontariato (nella fattispecie del centro C.A.O.S). in pratica si tratta di formare un gruppo di volontariato che opera nell’organizzazione e nella realizzazione di eventi territoriali e non, con lo scopo di animare il territorio apportando un originale contributo sostenuto da una nobile causa.


Counseling: Un progetto socio-educativo al servizio del cittadino

Un progetto socio-educativo al servizio del cittadino

Foto di Serena Wong da Pixabay

Il Centro d’Ascolto, Orientamento e Servizi Per il cittadino, di seguito denominato C.A.O.S, nasce con lo scopo di intervenire in un dato territorio per fornire un primo approccio relazionale a tutti coloro che vivono una situazione problematica, di disagio, di “caos”.

Attraverso gli esperti della salute e della relazione d’aiuto e guidati da un’ottica prettamente solidale, si tenta di intervenire a sostegno dell’uomo post moderno, il quale vive uno dei più gravi deficit di questa società liquida (Bauman, 2002), ovvero la difficoltà relativa al comunicare e al relazionarsi con l’altro.

Talvolta, dietro ai grandi ed apparentemente irrisolvibili problemi, si celano modalità stagnanti ormai tipiche della persona in oggetto che la costringono in maniera involontaria ad attivare blocchi e resistenze disfunzionali verso l’ambiente di riferimento. Proprio per questo l’intervento di un facilitatore potrebbe, attraverso una relazione empatica, far aprire l’altro alla relazione autentica dove insieme diviene possibile comprendere le relative problematiche e soprattutto superare il momento o la situazione disfunzionale attivando nuove strategie efficaci estirpandole da quella tendenza attualizzante intrinseca alla persona stessa (Rogers, 1961).

La riflessione di operare attraverso un primo ascolto del fruitore del servizio, nasce dalla consapevolezza che non può esservi comunità e solidarietà reciproca se prima non vi è accoglienza e quindi ascolto. Difatti C.A.O.S a partire dall’accoglienza e dall’ascolto attivo promuove un servizio polifunzionale dove ad essere coinvolta e l’intera comunità. La comunità infatti viene invitata ad acquisire consapevolezza di una fase storica problematica per l’intero sistema sociale e non esclusivamente per il singolo caso di disagio e per questo bisogna intervenire ad ampio raggio partendo ognuno dal proprio piccolo e dalle proprie possibilità. A tal proposito altro fondamentale obiettivo di C.A.O.S è quello di coordinare attraverso un sistema di rete, tutte le risorse professionali, associative e di volontariato aderenti al progetto, in modo che possano fornire una risposta concreta a qualsiasi richiesta di aiuto, tutto nell’ottica del bene comune.

In definitiva il centro di ascolto “C.A.O.S” si avvale dell’aiuto di un’équipe tecnico-scientifica, costituita professionisti dei vari settori delle scienze mediche ed umane e fa affidamento su una fitta rete di volontari.

 


Counseling: Vertici aziendali vs dipendenti

Counseling: Vertici aziendali vs dipendenti

Foto di Jae Rue da Pixabay

Partendo dalla consapevolezza di quanto importante sia da un punto di vista psicologico e sociale l’affermazione dell’individuo nel contesto lavorativo, analizziamo di seguito le principali strutture organizzative ed i relativi rapporti che all’interno delle stesse ne derivano. Prima di tutto occorre delineare cos’è un’organizzazione, quali sono i principali aspetti che la caratterizzano e comprendere in via generale il funzionamento delle diverse tipologie organizzative.

Vengono definite organizzazioni quelle “entità sociali guidate da obiettivi, progettate come sistemi di attività deliberatamente strutturati e coordinati che interagiscono con l’ambiente esterno” (Daft, 2010).

Un’organizzazione non è rappresentata da un edificio di per sé o da un insieme di politiche e procedure, ma dalle persone e dalle loro relazioni reciproche. L’identità di un’organizzazione prende forma dal momento in cui l’interazione tra le persone avviene nell’esercizio di funzioni che aiutano a conseguire degli obiettivi. Proprio in veste di questo fondamentale rapporto di interazione dinamica tra le persone protese al raggiungimento di un obiettivo condiviso, negli ultimi anni viene maggiormente riconosciuto nel management il valore delle risorse umane e dell’empowering.

Nella definizione di una struttura organizzativa vi sono tre elementi chiave:

  • Indicare i rapporti di dipendenza formale, compresi il numero di livelli gerarchici e l’arco di controllo di manager e supervisori.
  • Identificare il raggruppamento di individui in unità organizzative e di unità organizzative nella totalità dell’organizzazione.
  • Comprendere all’interno dell’organizzazione la progettazione di sistemi che garantiscano una comunicazione e un coordinamento efficaci e l’integrazione degli sforzi tra le unità organizzative.

Tali elementi strutturali dell’organizzazione riguardano sia gli aspetti verticali che quelli orizzontali. Le prime due componenti costituiscono e caratterizzano la gerarchia verticale, mentre il terzo elemento riguarda gli schemi di interazione tra i dipendenti. La rappresentazione visiva che determina la struttura di un’organizzazione è l’organigramma che consente di comprendere il modo in cui una azienda funziona. Le aziende possono essere orientate verso un’organizzazione tradizionale, proiettata sull’efficienza e su un tipo di comunicazione basato sul controllo verticale; oppure orientarsi verso una moderna Learning Organizzation che enfatizza la comunicazione e il coordinamento orizzontale.

Una condivisione verticale delle informazioni consente di coordinare le attività tra il vertice e la base di un’organizzazione ed in genere predilige il controllo sull’intera organizzazione. Per ottenere collegamenti verticali le organizzazioni si avvalgono di meccanismi strutturali quali la gerarchia, le regole, i piani e i sistemi informativi formali.

Una condivisione orizzontale delle informazioni consente di superare le barriere tra le unità organizzative e fornisce opportunità di coordinamento tra i dipendenti per raggiungere una unità di intenti e di obiettivi organizzativi. I collegamenti orizzontali consentono, dunque, una comunicazione ed un coordinamento orizzontale all’interno delle stesse unità organizzative.

 

Nel prossimo articolo vedremo  diverse tipologie di strutture organizzative.

 


Counseling: Adolescenza vs genitorialità

Counseling: Adolescenza vs genitorialità

Foto di Pexels da Pixabay

Il rapporto tra genitori e figli nel periodo adolescenziale sembra essere, oggi più che mai, di natura molto complessa. In questa delicata fase, emergono forti contrasti e inevitabili incomprensioni tra due diversi universi generazionali. Tali difficoltà derivano da varie interferenze e blocchi della comunicazione e da fattori di natura psicobiologica legati al cambiamento e alle trasformazioni cui l’adolescente va incontro. Risulta opportuno, dunque, analizzare distintamente le due parti coinvolte nella relazione e comprendere, da un punto di vista scientifico, quali siano i fattori e le cause scatenanti la rottura o la modifica di determinati equilibri relazionali.

L’adolescenza è quella fase dello sviluppo umano generalmente compresa tra gli 11 e i 18 anni, nel corso della quale l’individuo acquisisce sia le caratteristiche fisiche e bio-fisiologiche sia le competenze cognitive e sociali per inserirsi a pieno titolo nel mondo degli adulti. L’adolescenza ha inizio con la pubertà e quindi con i primi mutamenti fisici e biologici a cui si associano esperienze emozionali molto intense che implicano la ricerca di nuovi equilibri nei rapporti con il mondo e con se stessi.

La consapevolezza dell’adolescente rispetto a questi cambiamenti lo porta a non accettare più di essere dipendente dalla propria famiglia e dal sostegno sociale e affettivo che gli hanno dato fino a quel momento (Messuri, 2010). L’adolescenza si presenta come uno stadio complesso caratterizzato da grandi trasformazioni fisiche, psicologiche e sociali; colui che si ritrova immerso in questo frangente di età, già a partire dalla pre-pubertà, inizia a percepire i primi segnali inerenti al processo di trasformazione e di cambiamento. Con la pubertà (fenomeno di cambiamento fisico che proteso alla maturazione sessuale) il corpo subisce importanti processi di trasformazione per entrambi i sessi, ma con differenti modalità.

Nel maschio si ha un aumento del volume dei testicoli, la comparsa di peluria su tutto il corpo e sul viso, un cambiamento cutaneo e sudoriparo e relativi cambiamenti dell’umore, un aumento della statura e della struttura muscolare, cambiamento del tono e del timbro della voce; in via generale attorno al quattordicesimo anno avviene la prima eiaculazione, un cambiamento che viene letto come segno di potenza e virilità, e che determina la fine della fase puberale.

Nella femmina tale stadio comporta l’aumento volumetrico del seno, la comparsa della peluria nelle zone ascellari, inguinali e sulle gambe, allargamento dei fianchi, acne maggiormente concentrata sul viso. La femmina conclude la sua fase puberale in associazione con la comparsa del menarca, che in genere avviene intorno al tredicesimo anno di età. È facilmente riscontrabile che tale cambiamento possa avvenire anche in maniera precoce e che, talvolta, possa essere vissuto negativamente e con disagio.

Oltre alla crescita corporea l’adolescenza apre la porta alla strutturazione della propria identità che prevede, nella persona coinvolta, l’abbandono di quel concetto di sé costruito nella relazione con i genitori a favore di una nuova considerazione personale che tiene conto dei valori derivanti dal contesto amicale dei pari. Proprio da questi ultimi si teme il giudizio ed il confronto e qualora ci si sente valutati negativamente si può andare in contro a un forte senso di frustrazione, e possono generarsi quegli atteggiamenti creativi compensativi che danno la sensazione di acquisire un certo primato proprio in ciò in cui si è considerati meno abili. A questo punto dal confronto con i pari la sfera sociale si allarga e si tende a focalizzare maggiormente l’attenzione verso un nuovo modello relazionale in continua evoluzione, che sommato ad altri fattori, apporta significative trasformazioni dal punto di vista psicologico, comunicativo e relazionale. L’individuo in crescita si muove contemporaneamente lungo due direzioni: da un lato, cerca di trovare un gruppo in cui riconoscersi ed essere riconosciuto; dall’altro, cerca di conquistare il proprio spazio e far valere la propria identità e il proprio pensiero all’interno della relazione con gli adulti (Bressa et al., 2012).

Per ciò che concerne la relazione con gli adulti, il riconoscimento, risulta un’impresa alquanto ardua, dato che difficilmente la comunità sociale adulta accetta ed è disposta a comprendere le regole che l’adolescente emula per essere parte attiva di quel sistema rappresentato dal gruppo dei pari; anzi, va per la maggiore che l’adulto tende a ridicolizzare l’espressione di determinati valori ed atteggiamenti tipici adolescenziali, e facilmente sminuisce uno o più membri del gruppo dei pari, con la classica frase: “So’ ragazzi”.

Sempre in merito al gruppo dei pari rappresentative nella fase adolescenziale sono le discussioni ed il dialogo su argomentazioni politiche, filosofiche, religiose ed esistenziali, le quali hanno più un valore di espressione intellettiva che di significazione tesa alla risoluzione di un determinato problema (Bressa et al., 2012). Un altro aspetto da considerare sempre in relazione al gruppo dei pari è il forte senso di appartenenza che porta un singolo membro ad accettare, in maniera fortemente ed emotivamente condivisa, lo stile e le varie attività dello stesso, indipendentemente dal proprio modo di essere. Non di rado, infatti, accade che dei ragazzi si identificano con attività inconsuete nonostante provano una forte resistenza derivante dagli introietti ricevuti dal modello educativo genitoriale; talvolta, questo accade per il solo effetto arousal scatenato dalla massa o per la paura di essere escluso da un gruppo che in questa delicata fase della vita può rivestire molta più importanza di quanto possa rappresentare la diade genitoriale.

Non è scontato pensare che proprio una tale situazione potrebbe essere causa di un primo approccio con le sostanze psicoattive o con altre forme di dipendenza, dato che nei giovani rappresentano anche una sorta di occasione per evadere dalla noia, dall’ansia e per il semplice trasgredire di quei canoni educativi ritenuti oramai tipici dell’infante. Un importante riflessione in merito alle dipendenze perviene dallo psichiatra e psicoterapeuta Riccardo C. Gatti (2004), il quale ci fa riflettere sul fatto che la società attuale non è più pervasa dalla sola addiction (dipendenza fisica e psicologica da sostanze psicoattive), ma soprattutto dalla cultura dell’additività, caratterizzata da quei comportamenti compulsivi che esprimono dipendenza psicologica anche da gioco d’azzardo, cibo, sesso, pornografia, computer, internet, shopping e tutti quei fenomeni spesso legati al consumismo” (C. Gatti, 2004).

Da questo generale e sintetico quadro relativo al complesso mondo adolescenziale emerge fin da subito quanto importante sia la famiglia e quanto altrettanto complesso possa essere il ruolo genitoriale.

A prescindere dalle difficoltà derivanti dal processo trasformativo e di cambiamento di natura psicobiologica, il difficile rapporto tra figli adolescenti e genitori viene quasi sempre determinato da un’interruzione della comunicazione. Siamo di fronte, dunque, a problematiche di tipo relazionale dove due diverse generazioni si confrontano incontrando notevoli resistenze. Da un lato, come abbiamo già visto, troviamo un individuo che tenta a tutti i costi di affermarsi, di farsi riconoscere e che vuole imporre una propria ed autonoma identità; dall’altro, invece, abbiamo dei genitori apprensivi che trovano enormi resistenze nell’accettare il cambiamento in atto nell’adolescente. Sembrerebbe riduttivo affermare che la chiave dell’enigma sia nello stabilire un punto d’incontro tra le parti in causa, eppure proprio quest’ultima pare che sia la soluzione più efficace. Tale processo può sembrare semplice e scontato ma non lo è affatto, in quanto comporta nei genitori una vera e propria ristrutturazione psicologica.

Uno dei principali fattori di resistenza del genitore verso la prole è la non accettazione della nuova situazione di cambiamento. Questo comporta una errata percezione nella relazione, dove in genere il figlio viene visto come il ribelle da ridimensionare e da tenere premurosamente sotto il proprio controllo perché ritenuto di non essere ancora in grado di effettuare, liberamente ed autonomamente, determinate scelte. Il considerare un tale atteggiamento trasformativo, di ricerca e di costruzione identitaria, come atteggiamento “deviante”, porta all’inibizione di quel naturale desiderio di affermazione e di riconoscimento, essenziale nel percorso di sviluppo e di crescita personale. Tale inibizione viene vissuta negativamente dall’adolescente e può comportare una mancanza di fiducia nelle figure genitoriali e dare vita a continui atteggiamenti ostili e trasgressivi.

Sentendosi incompreso l’adolescente tende a sostituire il riferimento derivante dal modello educativo genitoriale con i valori che emergono nella relazione col gruppo dei pari, confondendo quello che dovrebbe essere un importante percorso esperienziale con un modello di guida non sempre valido e funzionale.

Emerge dunque che l’unica arma fondamentale per i genitori è quella di stare accanto ai propri figli riconoscendogli un ruolo attivo in quel complesso stadio che è l’adolescenza; l’unica arma efficace per sostenere la propria prole è quella di stabilire continuamente un sano modello comunicativo circolare dal quale costruire una relazione empatica che restituisce ad entrambi la libertà di essere individualità che si confrontano, che si comprendono e che intraprendono consapevolmente un cammino d’insieme. Ovviamente questo non vuol dire che i genitori debbano stare nel gioco anche quando questo diventa pericoloso o insano per il proprio figlio, anzi devono continuamente trattare e ridefinire, con la giusta autorevolezza, un positivo percorso comprensibile e condiviso da entrambi.

Ovviamente gestire una relazione del genere non è di facile dimestichezza; possono presentarsi una serie di problematiche per le quali non sempre si hanno le capacità e gli strumenti idonei a fronteggiare le situazioni che ne derivano. È fondamentale dunque che i genitori umilmente riconoscano i propri limiti e all’occorrenza si rivolgano a specifiche figure professionali. In quest’ultima parte, e sulla base di quanto finora esposto sulla relazione di aiuto, può collocarsi l’attività del Counseling.

 


Counseling Strategico: ancora tecniche

Counseling Strategico: ancora tecniche

Foto di Arek Socha da Pixabay

Tecnica dell’ordalia

Il terapeuta impone un compito esasperante adeguato al problema della persona, compito che deve risultare maggiormente noioso rispetto al problema stesso.

L’ordalia deve essere congeniata in modo da risultare positivo ed attuabile per il soggetto, che non può legittimamente opporsi.

L’ordalia può essere strutturata in modo diretto, paradossale (prescrizione del sintomo) oppure in modo tale da coinvolgere altre persone o il terapeuta stesso (per esempio, aumentando l’onorario ogni qual volta si verifica il sintomo) (Haley, 1984).

Prescrizione di comportamenti in atto

Nel caso in cui il soggetto si mostri resistente all’attuazione di un qualsiasi agire, il terapeuta può prescrivergli ciò che già sta mettendo in atto, in modo tale da restituirgli una dimensione attiva (Haley, 1985).

Tecnica dell’illusione di alternative

Quando il terapeuta deve impartire una prescrizione ritenuta troppo impegnativa per il paziente, gli si assegna la possibilità di scelta tra due compiti di cui il secondo deve risultare meno ansiogeno e maggiormente attuabile del primo (Nardone, 1991).

Uso del paradosso

Vengono impiegate azioni e comunicazioni paradossali illogiche ed impreviste che producono il salto del livello logico indispensabile al cambiamento, modificando una rigida e compulsiva situazione percettivo-reattiva.

Si possono amplificare ed esasperare le lamentele e le fissazioni del paziente fino a condurre egli stesso alla rassicurazione del terapeuta (Nardone, Watzlawick, 1990; Nardone, 1991).

Ristrutturazione

Consiste nell’indurre il paziente ad una ricodificazione di immagini e percezioni della realtà mediante spostamento del punto di osservazione.

Secondo Gulotta (1997), la ristrutturazione consiste nel modificare la struttura concettuale ed emozionale di una situazione, ottenendo una alterazione del significato che le viene attribuito.

Se il problema può essere visto e vissuto in maniera alternativa, allora può essere ridotto o eliminato, dal momento che la sua esistenza è intimamente associata con la prospettiva di chi è coinvolto.

Ad esempio, viene operata una ristrutturazione all’interno di una struttura familiare definendo una lite come espressione d’amore.

Se la lite viene ripercepita dai suoi membri come un tentativo di unione, allora i comportamenti messi in atto per alimentarla possono essere trasformati in una serie di condotte tese alla vicinanza.

Vissuta in modo diverso, la situazione non ha più bisogno di essere problematica.

Allo scopo di realizzare una ristrutturazione, possono essere utilizzati paradossi, dubbi ipotetici, storie e metafore, punti di vista alternativi, manovre che sorprendono e conducono un cambiamento nel sistema percettivo-reattiva del paziente (Nardone, Watzlawick, 1990; Nardone, 1991).

La ristrutturazione può essere realizzata anche attraverso analogie terapeutiche e sillogismi informali (Erickson, Rossi, 1989).

Uso dell’ironia

L’ironia possiede uno straordinario potere nel ristrutturare, attraverso il senso dell’humor o il ridicolo, situazioni che viste nella loro serietà o tragicità vengono vissute come inaccettabili ed immutabili.

Una ristrutturazione ironica del tema in discussione è in grado di cambiare la cornice percettiva e le conseguenti reazioni del paziente nei confronti di tale realtà (Nardone, 1991).

L’umorismo può essere utilizzato in terapia considerandone gli effetti a breve e lungo termine.

Nell’immediato del contesto terapeutico, può servire ad alleviare la tensione, a sdrammatizzare una situazione, ad esorcizzare la paura, a creare un clima di collaborazione, ed evitare la mitizzazione del terapeuta, a far accettare ciò che è proibito, a trasferire concetti altrimenti ostici.

A lungo termine, insegnare a vedere e ad affrontare la vita puntando sull’umorismo significa far apprendere un’abilità che può diventare decisiva.

L’umorismo va usato per consentire al paziente di riflettere sui suoi problemi in maniera diversa e creativa, e per aumentare la capacità stessa di risolvere i problemi.

Con pazienti poco portati all’umorismo, per disposizione personale o per situazioni particolarmente difficili, si può far ricorso all’immaginazione di situazioni divertenti.

Anche comportamenti non verbali possono essere usati umoristicamente (Gulotta, 1997).

Dichiarazione d’impotenza  

È una tecnica particolarmente indicata con quei pazienti che, invece di pensare a migliorare il proprio comportamento, sono più interessati a sconfiggere il lavoro del loro terapeuta.

In questo caso, poiché ogni tentativo da parte del terapeuta di cambiare viene sabotato, l’unica soluzione diventa ammettere umilmente la propria incapacità nel riuscire a facilitare il cambiamento.

La reazione del paziente a questa confessione è di stupore, accompagnata spesso da un forte timore di sentirsi improvvisamente abbandonati.

L’ammissione di incapacità da parte del terapeuta porta il paziente a fare un esame di coscienza e a riconoscere la propria parte di responsabilità nel mancato cambiamento.

In questo modo il terapeuta acquista parte del controllo sulla relazione sfidando il cliente ad impegnarsi affinché lo convinca che egli, in fondo, è capace di fare un vantaggioso uso del trattamento (Gulotta, 1997).

Tecnica della concretizzazione

Dinanzi a problematiche formulate in maniera generica, lo scopo della tecnica risulta nell’accumulazione di un numero sufficiente di esempi concreti che permettono di incominciare a scorgere i contorni del problema, la maniera in cui il cliente lo percepisce, i ruoli assunti, le diagnosi inespresse (Schein, 1987).

Accento sul processo

Dal momento che i problemi vengono per lo più descritti in termini di contenuto, risulta utile riuscire a far riformulare il problema in termini di processo, allo scopo di identificare in quale fase si è verificato il problema.

Inducendo la ricostruzione del processo, non solo vengono reperiti dettagli utili, ma viene anche insegnata al cliente l’importanza di ragionare per ricavare la propria diagnosi del problema (Schein, 1987).

Feedback

Il feedback viene inteso come un’informazione sul progresso compiuto da una persona in relazione ai suoi obiettivi.

Non appena il consulente o il terapeuta ha un’idea rispetto a ciò che il cliente sta tentando di ottenere, gli può fornire un feedback su come sta avanzando verso il conseguimento di tali obiettivi (Schein, 1987)”.

L’esposizione in via generale di alcuni dei tratti salienti della terapia breve strategica e delle principali tecniche strategiche, caratterizza lo stesso approccio in riferimento all’area del Counseling. Nella fattispecie il Counseling Strategico può essere definito come “l’arte di risolvere problemi complicati, mediante soluzioni semplici”. Tale modello muove dall’idea che un disagio, emotivo o relazionale che sia, viene generato in funzione del come si percepisce la realtà circostante, e dai comportamenti disfunzionali attivati in relazione alla stessa. “Obiettivo dell’approccio breve strategico è l’interruzione di quel circolo vizioso che porta ad adottare un comportamento disfunzionale che, come tentata risposta al disagio, invece di porre fine alla sofferenza la acuisce” (www.ierf.it, 2014).

Il Counselor strategico, in linea con i principi generali della relazione d’aiuto, deve essere in grado di fornire una risposta efficace ed idonea ad ogni singolo caso; deve saper elaborare tecniche specifiche “strategiche”, da ricucire addosso al cliente che ha preso in carico. L’approccio strategico si rivolge sia alla singola persona che ai gruppi (coppia, famiglia o organizzazioni) e muove nell’ambito dell’asse comunicazionale-relazionale. Attraverso l’instaurarsi di una relazione autentica risulta possibile mediare e facilitare processi adattivi a sfavore di processi disfunzionali, nonché acquisire l’arte dell’imparare ad “aiutarsi da sé”, per gestire le situazioni nel “qui ed ora e allora”.

Oltre alle varie tecniche dell’approccio breve strategico, già sopraccitate, un ulteriore modello efficace del Counseling strategico è il Problem Solving Strategico elaborato da Nardone presso lo “Strategic Therapy Center” (STC) Change Strategies, centro fondato dallo stesso Nardone e da Watzlawick. Tale modello affonda le sue radici nelle teorie del costruttivismo di von Glasersfeld e von Foerster, nelle scoperte della comunicazione di Bateson e Erickson e nelle ricerche sui principi della comunicazione del Mental Research Institute (MRI), noto come “Scuola di Palo Alto” (Watzlawick, Weakland, Fisch, Jackson), approfonditi in seguito da Paul Watzlawick nella sua “Pragmatica della Comunicazione Umana” (1967). Tale modello è adatto alla risoluzione di problematiche relazionali per il singolo, per la coppia e la famiglia; consente l’applicazione di interventi mirati sui singoli o a livello sistemico. Il Counseling Strategico così inteso è finalizzato a produrre un cambiamento concreto, partendo da un’indagine del “come funziona” il problema piuttosto che delle cause che lo hanno originato, le quali vengono spesso svelate indirettamente dalla sua soluzione.

Tra il problema e la soluzione il Problem Solving Strategico si articola nelle seguenti fasi:

  1. Definire il problema: Per definire concretamente il problema occorre partire dall’analisi del cosa sia realmente il problema, comprendere chi viene coinvolto, in quale contesto si verifica, in quale situazione e con quale modalità si manifesta. Per guardare il problema con diverse prospettive ci si può avvalere del livello immaginativo, ipotizzando come le altre persone che conosciamo possano percepire lo stesso problema. Se come obiettivo, invece, ci si prefigge solo il miglioramento di una data situazione, allora può essere utile partire dal raggiungimento dell’obiettivo per poi procedere a ritroso analizzando le difficoltà, le carenze e le resistenze che bloccano la strada volta al cambiamento.
  2. Accordare l’obiettivo: Il passo successivo alla definizione del problema è stabilire i cambiamenti utili alla risoluzione del problema stesso. Bisogna tener ben presente quale realtà concreta potrebbe realmente farci ritenere che l’obiettivo sia stato raggiunto. Nel caso il lavoro riguarda un team, risulta fondamentale consolidare il gruppo allineandosi sinergicamente sino al pervenire alla stessa percezione degli obiettivi da raggiungere e della strada; bisogna stabilire un clima di compartecipazione attiva tra i membri.
  3. Analisi e valutazione delle tentate soluzioni: Bisogna sempre soffermarsi sulle tentate soluzioni e relativi fallimenti dato che, talvolta, sono proprio queste ad alimentare il problema che si cerca di risolvere. Concentrare l’attenzione sui tentativi fallimentari messi in atto per raggiungere l’obiettivo prefissato libera dalla tendenza a sforzarsi attivamente di trovare soluzioni senza prima aver indagato su tutto ciò che non funziona. Questo passaggio serve ad escludere cosa non ha funzionato e nello stesso tempo ad identificare cosa abbia invece funzionato e se può essere applicabile nella nuova situazione.
  4. Tecnica del come peggiorare: Consiste nel simulare delle azioni peggiorative al fine di far emergere cosa abbia reso stagnante il processo di tentata risoluzione del problema. In sostanza l’emergere e descrivere delle azioni peggiorative accende un meccanismo tale da provocare un’avversione verso tutte le possibili azioni fallimentari sperimentate in precedenza.
  5. Tecnica dello scenario oltre il problema: Un’altra strategia utilizzabile per la risoluzione di un problema è quella di ipotizzare lo scenario “al di là del problema”, ovvero immaginare cosa troviamo di fronte dopo il cambiamento. Tale strategia consente di individuare attraverso il livello di esperienza immaginativo, quali possono essere gli aspetti realizzabili per il raggiungimento dell’obiettivo prefissato e quali possano rivelarsi effetti collaterali nonostante la risoluzione del problema per il quale ci siamo attivati.
  6. Tecnica dello scalatore: Questa tecnica consente di individuare la sequenza di piccoli passi da fare per poter raggiungere la vetta. Siccome il primo passo è sempre quello più complesso e difficile da individuare si fa ricorso alla tecnica dello scalatore: si parte dalla vetta invece che dalla base e si procede a ritroso sino al punto di partenza. Questo processo consente di individuare il percorso concretamente necessario alla risoluzione del problema, nonché di frazionare una serie di micro – obiettivi che ci risparmiano inutili dispersioni di energie o spropositati e inutili passi.
  7. Aggiustare il tiro progressivamente: Una volta stabilita la visione globale del problema e delle strategie da intraprendere è necessario affrontare piccoli problemi in sequenza fino al giungere alla soluzione definitiva. In pratica si tratta di aggiustare progressivamente il tiro avendo ben chiaro e definito l’obiettivo da raggiungere, in modo da gestire nello stesso tempo i vari cambiamenti determinati da ogni singola azione (Nardone, 2009).

 


Counseling Strategico: tecniche ulteriori

Counseling Strategico: tecniche ulteriori

Modificazione del sintomo 

Il terapeuta può modificare il comportamento disturbato sostituendo il sintomo con un altro atto che rivesta una funzione positiva e non implichi le conseguenze spiacevoli del comportamento sintomatico (Madanes, 1982).

Prescrizione della ricaduta

Qualora il terapeuta teme il verificarsi di della ricaduta, la prescrive al paziente così da renderla parte del comportamento collaborativo (Haley, 1963).

Si crea così un doppio legame terapeutico poiché, se il cliente fa effettivamente esperienza di una ricaduta, capirà che il comportamento sintomatico è ora sotto il suo controllo.

Se il cliente fallisce in questa esperienza, ciò vorrà indicare che il cliente possiede veramente il controllo necessario per gestire il suo problema (Gulotta, 1997).

Predizione della ricaduta

Il terapeuta informa il paziente che il sintomo si può ripresentare, generando un doppio legame terapeutico.

Se il sintomo si ripresenta, è sotto il controllo del terapeuta, se non si ripresenta è sotto il controllo del paziente.

In entrambi i casi il sintomo viene sconfitto e perde molta della sua autonomia e della sua forza nel generare ansia e preoccupazione al paziente, portato a trattare con maggior sicurezza la situazione che sta alla base del sintomo stesso (Gulotta, 1997).

Prescrizione dell’aggravamento del sintomo

Inducendo il sintomo ad un’intensificazione, il paziente si rende inconsciamente conto che ha controllato eccessivamente il suo disturbo, e a quel punto il sintomo comincia a decrescere (Haley, 1985).

Il paziente, esagerando volontariamente il sintomo, apprende volontariamente a controllarlo e a diminuirlo (Gulotta, 1997).

Prescrizione dell’autopunizione

Occorre persuadere il paziente a punirsi quando si presenta il sintomo incoraggiandone così la rinuncia.

L’autopunizione deve essere selezionata in base all’efficacia nel soddisfare i bisogni psicodinamici del paziente, in modo da ottenere la scomparsa di alcuni aspetti cattivi del sintomo e l’attribuzione di qualche significato positivo per l’individuo.

Allo scopo di eliminare il sintomo, è necessario creare una situazione tale da renderlo un elemento di svantaggio relazionale (Haley, 1963; 1985).


Counseling Strategico: tecniche

Counseling Strategico: tecniche

Tecnica del ricalco (Bandler, Grinder, 1975)

Consiste essenzialmente nell’utilizzare il linguaggio e le modalità rappresentazionali del paziente (Nardone, 1990).

Occorre sempre adoperare il linguaggio del paziente anche ricorrendo a finzioni o a metafore nel caso in cui il soggetto non riesca a sopportare altro tipo di espressione.

Dinanzi ad un paziente che non riesce ad affrontare direttamente un suo problema si può imbastire una comunicazione indiretta e continuare a parlare per via traversa (Haley, 1985).

Con una coppia, ad esempio, segnata da problemi sessuali ma incapace di raffrontarsi sul piano della comunicazione sessuale esplicitata, il terapeuta può indagare sulle loro abitudini alimentari e discorre circa i preparativi e la consumazione di una cenetta curata e romantica.

Uso del linguaggio e della suggestione

Occorre conoscere ed utilizzare correttamente i significati multipli delle parole nonché l’accentuazione di voce e la sequenza in cui sono pronunciate, per fare della suggestione un’arte.

A tal fine risulta anche utile impiegare parole con associazioni, connotazioni e significati dalle molteplici applicazioni agli interessi e all’individualità della persona; sintonizzare la propria terminologia all’individualità di ciascun ascoltatore mediante un uso appropriato delle pause; impiegare la forma negativa che contiene l’implicazione del proprio contrario stimolando la mente inconscia all’esplorazione e all’elaborazione dl contrario di ciascuna negazione (Erickson, Rossi, 1981).

Uso di aneddoti, metafore e aforismi

Si comunica il messaggio in forma indiretta, aiutati dal potere evocativo suggestivo del linguaggio analogico.

Si comunica sfruttando la forma indiretta della proiezione ed identificazione che di solito una persona attua nei confronti di personaggi e situazioni di un racconto.

Questa modalità di comunicazione terapeutica minimizza la resistenza, in quanto la persona non è sottoposta a richieste o a opinioni dirette sul suo modo di pensare e di comportarsi (Haley, 1973; Nardone, 1991; Nardone, Watzlawick, 1990).

L’uso dell’analogia risulta utile in quanto il paziente non attua un atteggiamento di rifiuto e riesce a riconoscere il parallelo laddove può rifiutarsi, invece, di riconoscere il problema diretto (Haley, 1963; 1985).

L’uso di enigmi, indovinelli e misteriosi giochi associativi può essere sfruttato per produrre uno stato di attivazione interiore conseguente alla confusione dei processi mentali del soggetto (Erickson, Rossi, 1989).

Utilizzo della comunicazione non verbale

Si realizza nel ricalcare posture e movimenti del paziente per condurlo ad uno stato di maggiore rilassamento o verso l’esecuzione di azioni terapeutiche, e nel guardare in maniera diretta e costante il soggetto, fissandolo negli occhi senza distogliere lo sguardo, attuando una sorta di cattura ipnotica (Nardone, 1991).

Uso dello spazio e delle posizioni

Va tenuto nel dovuto conto il valore dell’orientamento spaziale, considerando che le persone si orientano in termini di sensazioni visive e uditive e che queste sensazioni possono modificare l’orientamento (Haley, 1973).

Raccolta di informazioni in prima seduta

Il terapeuta sottolinea che il paziente deve parlare seguendo le sue direttive ma, in considerazione del fatto che il soggetto sarà reticente circa determinate questioni, il terapeuta deve far rientrare nelle sue direttive questa reticenza, suggerendo al paziente di tacere qualcosa.

In questo modo, l’atto del tacere perde la sua funzione, non fornendo più al soggetto un certo grado di controllo nella relazione (Haley, 1963; 1985).

Ruolo del terapeuta onnipotente

Il terapeuta conquista e mantiene questa posizione lasciando che il soggetto lo inganni su aspetti minimi per accettare la sua onnipotenza su tutti gli altri fronti.

Il terapeuta può anche ricorrere ad un comportamento incoerente considerando che, secondo le normali aspettative dei pazienti, prima o poi il terapeuta deve essere incoerente (Haley, 1985).

Tecnica della sorpresa

Implica l’inserimento di un elemento inaspettato attraverso il quale si riesce a superare una forte resistenza da parte del soggetto (Erickson, Rossi, 1981).

Assunzione del controllo delle inibizioni del paziente

Il terapeuta deve muoversi con cautela nei confronti di un paziente inibito, cosicché egli possa sentir protette le sue inibizioni e possa poi lavorare per diminuirle.

Evitamento di forme negative e riorientamento in positivo

Il paziente non va mai criticato o colpevolizzato ma va gratificato.

Il terapeuta deve evitare ogni forma di negativizzazione nei confronti delle realtà presentate dal soggetto, riorientando in chiave positiva le esperienze esposte in terapia (Haley, 1963, Erickson; Rossi, 1981).

Tecnica dell’utilizzazione

Implica lo sfruttamento di qualsiasi comportamento messo in atto dal soggetto al fine di accompagnarlo nell’induzione ipnotica (Haley, 1963, Erickson; Rossi, 1981).

Questa tecnica, nata specificamente in un contesto ipnotico, è chiaramente estensibile ad un contesto terapeutico senza formale induzione della trance.

Questa tecnica rispecchia il radicale rispetto dl paziente da parte del terapeuta strategico.

Tutti i comportamenti del cliente, inclusi la resistenza e il sintomo, sono considerati come la miglior scelta possibile per il paziente, data la sua percezione della realtà necessariamente distorta ed il ristretto raggio d’azione delle sue scelte.

Utilizzo della resistenza

Consiste nel prescrivere paradossalmente la resistenza per farne decadere la funzione.

La resistenza prescritta, infatti, diventa adempimento mentre la sua funzione prioritaria viene annullata (Haley, 1973; Erickson, Rossi, 1985; Nardone; Watzlawick, 1990; Nardone, 1991).

La resistenza deve comunque essere ascoltata, nel rispetto della particolare concezione che di essa assume l’approccio strategico in aperto contrasto con le ideologie tradizionali.

Il terapeuta strategico, infatti, utilizzando qualsiasi cosa portata dal cliente, tende ad interpretare tutti i comportamenti del paziente come messaggi che offrono un’importante informazione retroattiva a correzione dell’intervento.

In questa ottica, tende ad annullarsi la distinzione tra resistenza e cooperazione.

Se un cliente torna in terapia senza aver svolto un compito assegnatogli, ciò non è interpretato come resistenza ma come metodo di comunicare al terapeuta, che può aver assegnato un compito troppo impegnativo o non aver ben compreso la visione del mondo del cliente o non essersi sincronizzato con gli obiettivi del cliente.

Utilizzazione del silenzio

Viene mostrata una completa accettazione del silenzio sottolineandone il significato di attivazione del processo inconscio, pur senza la consapevolezza della mente conscia (Erickson, Rossi, 1981).

Anticipazione delle reazioni-espressioni del paziente

Il terapeuta previene le azioni del paziente in maniera tale da metterlo in una situazione di obbligata accettazione di ciò che si sta affermando.

Inoltre, anticipa ciò che il paziente prova durante la descrizione dei suoi problemi, in modo da creare in lui l’impressione quasi magica di leggere nella sua mente, con l’effetto di acquisire grande potere d’intervento (Nardone, 1991).

Incoraggiamento di una risposta frustrandola

Il terapeuta chiede al paziente di comportarsi in una certa maniera e, quando questi inizia a farlo, blocca la risposta per passare ad un altro argomento.

Nel momento in cui la richiesta verrà ripetuta, la risposta sarà migliore perche il soggetto, nel frattempo, ha sviluppato la capacità di rispondere ma è stato frustrato nel farlo.

Questa tecnica viene utilizzata in maniera specifica per affrontare le resistenze e per incoraggiare un contributo spontaneo (Haley, 1973).

Tecnica della confusione

Consiste nell’eseguire una serie rapida di domande assurde e non pertinenti al contesto di discussione, mostrando un atteggiamento serio, per poi mandare un messaggio attinente a cui il paziente si aggrappa.

In questo modo è possibile veicolare l’assunzione, da parte del paziente, di contenuti presumibilmente di problematica acquisizione (Nardone, Watzlawick, 1990; Nardone, 1991).

Offerta di alternative peggiori

Il terapeuta inoltra al paziente un tipo di richiesta tanto indesiderabile da indurlo a scegliere un’alternativa che lo soddisfi maggiormente.

Questa tecnica viene utilizzata per far eseguire al soggetto i suggerimenti del terapeuta lasciandogli un margine di autonomia nel prendere decisioni e nel trovare nuovi modelli di comportamento (Haley, 1973).

Seminare i concetti

Il terapeuta pone le fondamenta per determinati concetti sui quali potrà lavorare nel momento ritenuto più opportuno (Haley, 1973).

Amplificazione delle risposte

Il terapeuta lavora per ottenere una piccola risposta su cui costruire, amplificandola, risposte superiori fino al raggiungimento dell’obiettivo prefissato.

Viene accettato e sviluppato ciò che il paziente porta e nel rispetto dei suoi tempi anziché tentare di ottenere troppi risultati e troppo in fretta (Haley, 1973).

Prescrizioni di comportamento

Rivestono un ruolo di rilievo all’interno del modello strategico in quanto permettono di far sperimentare al paziente azioni concrete di vita che rompono il meccanismo di azioni, retroazioni e tentate soluzioni che mantiene il problema.

Il terapeuta deve impartire una prescrizione immettendola in un contesto comunicativo fortemente suggestivo.

Si distinguono: prescrizioni dirette, con cui si assegna al paziente un compito specifico; prescrizioni indirette, che utilizzano lo spostamento del sintomo attirando l’attenzione del paziente su una diversa problematica allo scopo di ridurre l’intensità del disturbo presentato; prescrizioni paradossali, che utilizzano la prescrizione del sintomo creando la situazione paradossale di dover eseguire volontariamente ciò che è involontario (Erickson, Rossi, 1989; Nardone, Watzlawick, 1990; Nardone, 1991).

Il terapeuta persegue il controllo del comportamento sintomatico, che viene incoraggiato, per modificare successivamente le istruzioni (Haley, 1963).

Prescrizione di simulare il sintomo

L’individuo viene istruito e aiutato, con sollecitudine, affinché simuli nel modo migliore il sintomo.

In tal modo il paziente, da un lato prende in considerazione l’ipotesi che il terapeuta pensi che qualcosa sia simulato, dall’altro, simulando volontariamente, mette in dubbio la propria sincerità (Gulotta, 1997).

Inoltre, quando una sequenza di interazioni viene classificata in termini di simulazione, è difficile per le persone coinvolte retrocedere in un ambito considerato realtà.

Questa difficoltà può essere sfruttata dal terapeuta al fine di confondere ed eliminare la realtà di un sintomo e modificare il sistema di interazioni su cui questa realtà si basa (Madanes, 1981).

 


La relazione d’aiuto secondo l’approccio strategico

La relazione d’aiuto secondo l’approccio strategico

 

 La relazione d’aiuto, come accennato nei precedenti capitoli, si avvale di una serie di metodologie e strumenti derivanti dalle varie scuole di pensiero psicologiche e psicoterapeutiche. Una delle più recenti metodologie che sembra riscuotere un certo grado di efficacia e che ha trovato una consistente applicazione anche nell’area del Counseling è quello della terapia breve strategica, elaborata dal gruppo di ricercatori del MRI (Mental Research Institute) di Palo Alto (Watzlawick et al., 1974); questi autori hanno sintetizzato l’approccio sistemico con i contributi tecnici dell’ipnoterapia di Milton Erickson, nella prospettiva di formulare modelli sistematici in grado di far evolvere l’approccio strategico di Erickson alla terapia da pura arte, o magia, a procedura clinica ripetibile (Watzlawick, Nardone, 1997).

Tale modello, sia per l’area della psicoterapia che per quella relativa al counseling, è stato poi messo a punto anche in Italia dallo stesso Watzlawick e Giorgio Nardone, presso il Centro di Terapia Breve Strategica di Arezzo. La tradizione pragmatica e la filosofia dello stratagemma come chiave di soluzione di problemi, tipica della terapia breve strategica, ha radici ben più antiche; tra i contributi strategici di enorme rilevanza anche nella modernità, ricordiamo infatti l’arte persuasiva dei sofisti, l’antica pratica dello Zen ed il libro dei 36 stratagemmi dell’antica Cina. La terapia breve strategica ha rivoluzionato l’area delle psicoterapie orientandola verso la risoluzione rapida ed effettiva delle varie problematiche presentate dai pazienti, anche quelle più complesse e persistenti.

L’approccio strategico si delinea lungo un asse relazionale, ovvero si pone come punto di riferimento lo strutturarsi delle dinamiche relazionali che gli esseri umani attuano nel rapportarsi con sé stessi, con gli altri e con il mondo circostante. Secondo tale approccio, infatti, è attraverso le relazioni che l’esperienza umana perviene alla strutturazione della mente, a partire fin dalla prima infanzia dal rapporto con la figura materna e con quella paterna, fino ad allargarsi ad un contesto familiare allargato e poi a quello sociale che accompagnerà l’essere nel corso di tutta la sua esistenza. Questa centralità data alla relazione va a destrutturare quelli che sono i canoni classici della psicologia classica, che ha sempre rivolto, invece, una certa attenzione al mondo intrapsichico del soggetto.

Nell’ottica strategica, infatti, l’individuo non è più dominato da impulsi, istinti e pulsioni energetiche, ma è parte attiva nella costruzione della propria realtà, in quanto costruisce una personale rappresentazione interna della stessa e continuamente la rielabora pervenendo ad una sempre e maggiore conoscenza personale e situata.

Sulla scorta di una personale percezione e costruzione della realtà dell’essere, la terapia breve strategica nell’approccio con i pazienti, differentemente dalla concezione classica freudiana, aderisce ad una definizione della “normalità – come – ­adattamento alla realtà”. A tal proposito utile è il riferimento di Heisenberg (1958), sullo stesso argomento:

“La realtà di cui noi parliamo non è mai una realtà “a priori”, ma una realtà conosciuta e creata da noi. Se, in riferimento a quest’ultima formulazione, si obietta che, dopo tutto, esiste un mondo oggettivo, indipendentemente da noi e dal nostro pensiero, che funziona o può funzionare indipendentemente dal nostro agire , e che è quello che noi effettivamente intendiamo quando facciamo ricerca, a questa obiezione, così convincente a prima vista, si deve ribattere sottolineando che anche l’espressione “esiste” ha origine nel linguaggio umano e non può quindi  avere un significato non legato alla nostra comprensione. Per noi “esiste” solo il mondo in cui l’espressione “esiste” ha un significato” (Watzlawick, Nardone, 1997).

Si evince chiaramente, nella terapia breve strategica, la forte influenza apportata dal “Costruttivismo” (secondo il quale l’individuo che apprende costruisce modelli mentali per comprendere il mondo intorno a lui) e dal “Costruzionismo” (il quale sostiene che l’apprendimento avviene in modo più efficiente se chi apprende è coinvolto nella produzione di oggetti tangibili, come accade per esempio con l’apprendimento esperienziale). Fondandosi quindi sui principi del costruttivismo e del costruzionismo, la terapia strategica pone attenzione sulle interazioni della persona verso il gruppo e sull’interazione che avviene tra gli stessi membri. Espressione di questa interazione è senza dubbio il linguaggio che consente l’apertura a quel complesso processo che è la comunicazione tra gli esseri umani. Senza comunicazione non vi è interazione, non può delinearsi ciò che sembra essere figlia della comunicazione, ovvero “la relazione”. La relazione, in ambito terapeutico, si delinea come quel ponte che consente di collegare due isolotti, il terapeuta ed il paziente. Solo se avviene questo contatto pieno, entrambe le figure posso dirigersi verso la strada che porta al cambiamento, ovvero modificare ed interpretare la realtà in maniera efficace e adattiva. Fu lo psicologo Watzlawick che nel 1967, insieme ad altri suoi collaboratori della “Scuola di Palo Alto”, segnò una vera e propria rivoluzione copernicana in tema di comunicazione, pubblicando il volume “Pragmatica della comunicazione umana” (Spurio, 2015).

Gli studiosi del M.R.I affermano che: “è comunicazione qualsiasi evento, cosa, comportamento che modifica il valore di probabilità del comportamento di un organismo” (Watzlawick et al., 1971). Ad ogni modo non vi è nella persona la possibilità di non comunicare: l’attività o meno, le parole o il silenzio, emanano comunque dei messaggi che influenzano gli altri, che a loro volta, non possono sottrarsi dal partecipare, al processo comunicativo in atto. In ambito terapeutico, strategico o meno, il ruolo della comunicazione appare di vitale importanza in quanto consente di stabilire, con il proprio interlocutore, un terreno comune in cui risulta possibile comprendere l’esperienza attraverso un linguaggio comune e condiviso. In definitiva il contributo di Watzlawick può essere sintetizzato nella capacità di costruire un proprio modello basato sulla ricerca delle strategie utili a determinare un cambiamento nella vita dell’individuo, avvalendosi degli assunti costruttivisti e costruzionisti. Con Watzlawick la psicoterapia diventa un percorso che ha come scopo quello di ristrutturare la visione del mondo del paziente, attraverso le “esperienze emozionali correttive” (Alexander, 1956).

Vi sono diversi contributi da cui la terapia breve strategica oggi può attingere, come ad esempio quelli derivanti dal M.R.I., dalla Cibernetica, da Milton Erickson, da Gregory Bateson e Margaret Mead, da Alfred Kroeber e John Weakland e Jay Haley e William Fry, da Jay Haley, da Giorgio Nardone, etc. Per questi ultimi si rimanda alla bibliografia di riferimento.

Infine, come riportato nell’articolo di Petruccelli F. e Parziale M. (1999) “di seguito vengono relazionate alcune delle tecniche maggiormente formalizzate e utilizzate tra quelle reperibili in letteratura.