Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Sviluppi recenti

SVILUPPI RECENTI

CONFLITTO: REGOLAZIONE EPISTEMOLOGICA E REGOLAZIONE RELAZIONALE

I ricercatori hanno chiamato conflitto (Buchs, Butera, Mugny & Darnon, 2004; Doise & Mugny, 1984) una situazione dove il non essere d’accordo su un compito da realizzare comporta una componente sia cognitiva sia sociale. Da una parte questo conflitto è cognitivo perché introduce il dubbio in merito al contenuto o alla soluzione del compito, uno squilibrio nella conoscenza come descritto dalla nozione di Piaget (1985) di conflitto cognitivo (si veda anche Limon, 2001). D’altra parte questo conflitto è anche sociale, poiché rappresenta un confronto tra due (o più) persone; a questo proposito, il disaccordo introduce il dubbio riguardo alla competenza relativa (per es. “Chi è più competente?” cfr. Butera & Mugny, 2001; Quiamzade & Mugny, 2001). È importante notare che nella letteratura in generale il termine conflitto differisce da come è usato nella letteratura sulla risoluzione del conflitto (Deutsch, 1973) perché:

    • non è sempre un conflitto di interessi (infatti la parola è per lo più usata per riferirsi al conflitto di conoscenza);
    • implica necessariamente che le due parti in conflitto debbano raggiungere un accordo (poiché il conflitto socio-cognitivo può essere regolato da un cambiamento nella conoscenza a livello individuale).

 

I compiti scolastici sono di solito caratterizzati dal fatto che c’è una risposta che è migliore delle altre. Se si è in un conflitto socio-cognitivo con qualcuno, significa che l’altra persona può avere ragione e che, di conseguenza, può essere più competente. Così, anche se il conflitto socio-cognitivo può far dubitare gli individui della validità della propria conoscenza, il che può rappresentare un interessante potenziale per l’impegno nel compito, la curiosità epistemica, insieme alla ricostruzione cognitiva (Belane, 1960; Ohlsson, 1996; Piaget, 1985), ha anch’essa il potenziale di minacciare l’auto-competenza.

Come possono i singoli far fronte a questo conflitto socio-cognitivo? In primo luogo, il conflitto socio-cognitivo introduce un dubbio riguardo la validità o l’accuratezza di ogni proposta. Per affrontare questo conflitto socio-cognitivo allora si può cercare di rielaborare il problema ed esaminare la validità di ciascuna proposta. Ciò è stato chiamato regolazione epistemica del conflitto (Doise & Mugny, 1984; Mugny, De Polis & Carugati, 1984). Tuttavia, dal punto di vista di A, il conflitto socio-cognitivo può anche significare che lui è meno competente di B. In un compito in cui la competenza è valutata così tanto (Mugny, Butera, Quiamzade, Dragulescu & Tomei, 2003; Nicholls, 1984) il sentirsi incompetenti può intaccare la propria percezione dell’auto-valore (Covington, 1984, 1992; Steele, 1988; Tesser, 1988). In questo caso può semplicemente reagire difendendo e proteggendo la propria competenza – per es. dimostrando di aver ragione e che B ha torto. Questo è ciò a cui Doise e Mugny (1984) fanno riferimento come regolazione relazionale del conflitto. Nuovamente andrebbe notato che la regolazione del conflitto non è la soluzione del conflitto (Deutsch, 1973), poiché regolare in un modo o nell’altro il conflitto socio-cognitivo non implica necessariamente che questo conflitto sia terminato.

Mugny et al. (1984, 2003; Butera & Mugny, 2001; Quiamzade & Mugny, 2001) hanno prodotto un’importante serie di ricerche che dimostra che i modi della regolazione del conflitto corrispondono a percezioni diverse del compito e dell’altra persona. Questa ricerca dimostra che se gli individui sono portati a credere nella complementarietà dei loro punti di vista (Butera, Gardair, Maggi & Mugny, 2001; Butera et al. 2000; Johnson, Johnson & Smith, 2000), allora viene favorita la regolazione epistemica. Al contrario, se l’altra persona viene presentata come un concorrente (per es. Butera & Mugny, 1995; Butera et al., 1998, 2000; Johnson & Johnson, 1985) o come una persona in grado di valutare la competenza (Butera et al., 2000; Quiamzade, Tomei & Butera, 2000; Tjosvold, Johnson & Fabrey, 1980), allora è probabile che il conflitto socio-cognitivo sarà regolato in maniera relazionale.

Per questi ricercatori (per es. Butera & Mugny, 2001; Mugny et al. 2003) l’impossibilità per gli individui di riconoscere la competenza dell’altro è uno dei principali processi responsabili del fatto che, in una situazione competitiva, il conflitto socio-cognitivo è regolato in maniera relazionale: se la situazione è competitiva, la competenza dell’altro minaccia l’autocompetenza. Non è così in una situazione non competitiva, in cui la competenza dell’altro non è correlata alla propria e può quindi essere accettata (Butera & Mugny, 1995). Inoltre, più la situazione è competitiva, maggiore è la differenza tra autocompetenza riferita (più alta) e la competenza dell’altro (più bassa), (Butera & Mugny, 1995; Butera et al., 2000).

Questa idea è coerente con il punto di vista che gli individui di solito valutano gli altri in modo molto positivo (Sears, 1983), ma che anche questa tendenza può a volte essere ridotta. Drodza, Senkowska e Personnaz (1988) dimostrarono, per esempio, che non appena i partecipanti si aspettavano di essere in competizione con la persona che stavano valutando, questa valutazione era meno positiva. Nella stessa linea alcuni autori hanno dimostrato che la minaccia (nei loro studi, il fallimento) poteva diminuire la valutazione che alcuni partecipanti facevano di uno scopo (Beauregard & Dunning, 1988) e aumentare l’inclinazione a servirsene a proprio favore (Dunning, Leuenberger & Sherman, 1995).

Presi insieme questi risultati dimostrano che la regolazione del conflitto corrisponde alle diverse rappresentazioni della propria competenza e di quella dell’altro. Quando regolano il conflitto in un modo relazionale, gli individui cercano di dimostrare che hanno ragione e che l’altro ha torto. Al contrario, quando regolano il conflitto in un modo epistemico, riconoscono la competenza dell’altra persona e cercano di capire come il suo punto di vista può essere complementare alla propria comprensione. Questa ricerca sottolinea anche che i due modi di regolazione del conflitto riflettono due fulcri diversi. La regolazione epistemica corrisponde a una focalizzazione sul compito, mentre la regolazione relazionale corrisponde a una focalizzazione sulla valutazione della competenza e sul confronto sociale.

RISULTATI DI PADRONANZA E RISULTATI DI PRESTAZIONE

Allo stesso modo, nel settore degli scopi di prestazione, molta ricerca ha studiato come i risultati che gli studenti perseguono quando realizzano un compito possono portarli a focalizzare la propria attenzione sui diversi elementi della situazione (Butler, 1992; Vury, Sarrazin & Famose, 1997). In particolare la letteratura sugli scopi del risultato ha sostenuto che esistono due tipi di risultati (vd. Dweck, 1986; Harackiewicz, Barron & Elliot, 1998; Maehr, 1984; Nicholls, 1984; Pintrich & Schunk, 2002; Urdan, 1977). I risultati di padronanza – etichettati anche risultati di apprendimento (Dweck, 1986, 1992) o risultati focalizzati sul compito (Nicholls, 1984) – corrispondono alla volontà di acquisire conoscenza e sviluppare competenza. I risultati di prestazione – a cui ci si riferisce anche come scopi focalizzati sull’io (Nicholls, 1984) o scopi di abilità relativa (Urdan, 1997) – corrispondono alla volontà di dimostrare competenze in relazione agli altri. La ricerca recente suggerisce che ognuno di questi due tipi di risultati può essere ulteriormente diviso in scopi di approccio e di evitamento (Elliot & Harackiewicz, 1996; Elliot & McGregor, 2001). Qui tuttavia, l’interesse è sulla forma di approccio dei risultati di prestazione e di padronanza, i due risultati che sono stati più esaminatinella letteratura e, paradossalmente, i cui effetti sono ancora l’oggetto di molti dibattiti (cfr. Harackiewicz, Barron, Pintrich, Elliot & Thrash, 2001; Midgley, Kaplan & Middleton, 2001).

La letteratura sui risultati di prestazione ha dimostrato che i risultati influenzano fortemente il modo in cui gli individui si confrontano con un compito di risultato. La ricerca dimostra, per es. che i risultati di padronanza favoriscono un profondo processamento del compito, laddove i risultati di prestazione favoriscono un processamento superficiale (Darnon & Butera, 2005; Elliot, McGregor & Gable, 1999; Nolen, 1988). Inoltre, si è dimostrato che gli studenti orientati alla padronanza spiegano il fallimento in termini di mancanza di sforzo e, di conseguenza, reagiscono al fallimento facendo più sforzi (Ames & Archer, 1988; Ames, Russel & Felker, 1977). Al contrario, gli studenti orientati alla prestazione tendono ad attribuire il fallimento a una mancanza di capacità e, di conseguenza, possono essere vulnerabili all’essere indifesi (Diener & Dweck, 1980; Dweck & Leggett, 1988). Ecco perché Dweck (1986) qualifica il modello di risposte risultanti dall’adesione ai risultati di prestazione come adeguato (vd. Anche Dweck, 1992).

Più interessante è che questa ricerca indica che i diversi scopi portano a diversi tipi di focalizzazione. Gli scopi di padronanza favoriscono una focalizzazione sul compito, mentre quelli di prestazione favoriscono una focalizzazione sul confronto sociale. Molti studi hanno trovato un legame positivo tra gli scopi di padronanza e l’interesse intrinseco al compito (per revisioni, vd. Barron & Harackiewicz, 2000; Heyman & Dweck, 1992; Rawsthorne & Elliot, 1999). Questo effetto é stato osservato sia nelle misurazioni auto-referenziali (per es. Harackiewicz, Barron, Carter, Lehto & Elliot, 1997; Harackiewicz, Barron, Tauer, Carter & Elliot, 2000; Harackiewicz, Barron, Tauer & Elliot, 2002), sia in quelle comportamentali, come il tempo trascorso sul compito in un periodo di tempo libero (per es. Barron & Harackiewicz, 2001; Koestner, Zuckerman & Koestner, 1987; R.M.Ryan, 1982). Sebbene l’interesse per le informazioni valutative (piuttosto che l’interesse per il compito stesso) sia  stato esaminato in misura minore in questo campo, alcuni risultati indicano che esso può anche variare a seconda degli scopi. Parte della ricerca ha dimostrato per es. che nel contesto degli scopi di padronanza gli studenti non erano sensibili alle informazioni valutative di confronto sociale (Jagacinski & Nicholls, 1987; Sansone 1986). Al contrario, queste informazioni erano importanti e influenzavano il risultato nel contesto degli scopi di prestazione. In modo più diretto, Butler (1992) ha esaminato il tempo che i partecipanti hanno trascorso su diversi tipi di informazioni: informazioni sul compito (la soluzione suggerita da un altro partecipante) o l’informazione sul modo di calcolare il proprio punteggio di capacità. I risultati indicavano che i partecipanti alla condizione dello scopo di padronanza trascorrevano più tempo sul compito rispetto ai partecipanti alla condizione dello scopo di prestazione. Inoltre questi ultimi trascorrevano più tempo sulle informazioni di valutazione rispetto ai primi. In altri due esperimenti Butler (1993) ha dimostrato che i partecipanti a una condizione che coinvolgeva l’io richiedevano più informazioni normative (la loro sfera messa a confronto con quella di altri studenti), mentre i partecipanti alla condizione che coinvolgeva il compito richiedevano più informazioni sul compito (vd. Cury et al., 1997, per risultati simili sul compito principale).

La percezione delle altre persone non è stata uno dei principali interessi nel contesto dei risultati di prestazione. Come hanno recentemente notato Levy, Kaplan e Patrick (2004) “la gran maggioranza di questa ricerca si è rivolta a come i risultati della prestazione sono associati a credenze o comportamenti relativi a sé stessi e ai compiti scolastici, ma è stata prestata scarsa attenzione agli atteggiamenti e comportamenti verso gli altri” (vd. Anche Kaplan, 2004). Anche se questa questione non è stata trattata direttamente, alcuni elementi possono essere tuttavia trovati in questa letteratura, che suggerisce che le altre persone possono essere percepite o come supporti informali o come minacce, a seconda degli scopi perseguiti. Per es. si è dimostrato che i risultati di padronanza favoriscono la ricerca di informazioni dagli altri (Cheung, Ma & Shek, 1998), la volontà di collaborare con loro (Kaplan, 2004; Levy et al., 2004) e la volontà di richiedere aiuto (Butler & Neuman, 1995; Karabenick, 2003; Middleton & Midgley, 1997; A.M.Ryan & Pintrich, 1997). Al contrario, i risultati di prestazione sembrano portare i partecipanti a percepire gli altri come una minaccia (A.M.Ryan & Pintrich, 1997) e sono legati all’evitamento della ricerca di aiuto (Karabenick, 2003; A.M.Ryan & Pintrich, 1997). Recentemente la ricerca di Kaplan (2004) ha mostrato che i risultati di prestazione potrebbero portare a una valutazione meno positiva dei membri del gruppo estraneo al proprio rispetto ai risultati di padronanza. Così i risultati di padronanza sembrano portare gli studenti a riconoscere l’altro come competente, il che non sembra avvenire per i risultati di prestazione.

 

© Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: sviluppi recenti  – Fabrizio Manini

 

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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Capitolo 2 – Un esempio di studio

Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Capitolo 2 – Un esempio di studio

 

UN ESEMPIO DI STUDIO

Il primo scopo di questa ricerca è di provocare un conflitto epistemologico o relazionale nelle interazioni e di mettere a confronto le conseguenze reciproche di questi due tipi di conflitto, e in una condizione in cui non viene introdotto alcun conflitto; questo verrà studiato per l’apprendimento e anche per la percezione dell’interazione. Inoltre, si analizzerà come il modo di distribuire informazioni (interdipendenza contro dipendenza della fonte) influenzi la percezione dell’interazione e l’effetto del tipo di conflitto nell’apprendimento.

Un conflitto, nella sua forma epistemologica, può favorire il rapporto e focalizza i partecipanti sul compito, portandoli così a un migliore apprendimento rispetto a quando non sono di fronte a un conflitto. Parimenti, un conflitto relazionale può essere negativo per il rapporto e mettere in risalto le attività relazionali di valutazione e confronto, e portare così a un peggiore apprendimento rispetto all’assenza di conflitto.

Inoltre, gli effetti di questo tipo di conflitto possono essere modulati dalla situazione in cui hanno avuto luogo. L’interdipendenza delle fonti dovrebbe rendere più pertinente l’interazione e quindi favorire interazioni e rapporto. Dovrebbe anche ridurre le attività di confronto sociale. In questa si-tuazione l’apprendimento dipenderebbe dalla forma del conflitto. Un conflitto epistemologico dovrebbe portare a un apprendimento forte e durevole. Un conflitto relazionale dovrebbe al contrario deteriorare la prestazione. Quando i partecipanti hanno informazioni identiche (fonte indipendente) possono esserci due opzioni:

 

 

    • il rapporto con il partner può essere percepito come meno rilevante (indipendenza), il che può portare i partecipanti a prestare minore attenzione a ciò che il loro partner dice e alla norma in cui lo dice;

 

    • la situazione può rendere saliente il confronto sociale. Se ciò accade, l’indipendenza delle fonti può dare una forma relazionale a tutte le interazioni. Non si dovrebbero quindi trovare differenze tra le condizioni.

 

 

Il conflitto relazionale, opposto a quello epistemologico, è stato introdotto nell’interazione grazie a un complice; è stata realizzata anche un’interazione senza conflitto (gruppo di controllo). Alle coppie, composte da un partecipante e da un complice (elemento di controllo), si è chiesto di lavora-re in cooperazione su due testi. Nella condizione di indipendenza delle fonti (informazioni identiche), il partecipante e il complice leggono i due testi. Nella condizione di interdipendenza delle fonti (informazioni complementari), un partecipante legge un testo, l’altro partecipante legge l’altro testo.

Il tipo di conflitto riguarda la percezione dell’interazione con il partner. La quantità di scambi e di divergenze percepiti è maggiore nelle condizioni conflittuali (epistemologiche e relazionali) che nel gruppo di controllo. Al contrario, solo il conflitto relazionale porta ad attività relazionali più percepite (valutando le competenze del partner, cercando di imporre il proprio punto di vista, ecc.). Quindi, la differenza tra conflitto epistemologico e relazionale non consiste né nella quantità di interazioni, né nel grado di conflittualità che ogni conflitto comporta, ma nella sua forma, con il conflitto relazionale che focalizza l’attenzione dei partecipanti sulla valutazione delle competenze.

Per quanto riguarda la qualità del rapporto con il partner (il complice), i partecipanti che dovevano affrontare un conflitto relazionale percepivano il rapporto come meno positivo rispetto a coloro che erano nel gruppo di controllo. È stato dimostrato, su periodi più lunghi, che i metodi di ap-prendimento basati sulla controversia favorivano l’attrazione interpersonale e il rapporto, rispetto a metodi di apprendimento basati sulla concorrenza che cercavano il dibattito (Johnson & Johnson, 1994; Johnson, Johnson e Tjosvold, 2000). Gli attuali risultati mostrano che solamente un’interazione basata sul conflitto epistemologico è sufficiente ad aumentare una rappresentazione positiva del rapporto, mentre un’interazione basata sul conflitto relazionale porta a una rappresentazione negativa del rapporto.

Inoltre, come previsto dalla letteratura sulla risoluzione del conflitto, il conflitto non portava allo stesso livello di apprendimento nella forma epistemologica o relazionale. D’altra parte, la ricerca ha mostrato che una regolazione epistemologica del conflitto può portare a un più profondo processo di informazione rispetto alla regolazione relazionale; ciò è stato osservato attraverso diversi metodi, come l’osservazione a posteriori (Mugny et al., 1978-79; Carugati et al. 1980), e focalizzandosi (o meno) sul confronto o la competizione sociale (Quiamzade & Butera, 2001; Tjosvold & Johnson, 1980, Tjosvold et al., 1981; Monteil & Chambres, 1990; Johnson & Johnson, 1994). Gli at-tuali risultati, ottenuti provocando direttamente un conflitto relazionale o epistemologico, hanno supportato la stessa idea e l’hanno ampliata; si è dimostrato che un conflitto nella sua forma epistemologica è più favorevole per l’apprendimento rispetto che nella sua forma relazionale. Dall’altra parte, non c’era consenso in letteratura sulle conseguenze del conflitto relazionale messo a confronto con situazioni di non conflitto. Infatti, gli studi esistenti non permettevano di concludere che un conflitto relazionale avrebbe portato a più (Johnson & Johnson, 1993), uguale (Mugny et al., 1978-79, Carugati et al. 1980), o meno (Butera et al. 2000; Monteil & Chambres, 1990) apprendimento rispetto all’assenza di conflitto. I risultati di questo studio supportano la terza opzione. Infatti, dopo un periodo di quattro settimane, il conflitto relazionale porta a un peggiore apprendimento rispetto al gruppo di controllo. Questo tipo di conflitto è non solo sfavorevole per l’apprendimento, ma anche nocivo. Questo sottolinea un’importante differenza tra studi realizzati nella tradizione della psicologia dello sviluppo sociale (Mugny et al., 1978-79; Carugati et al. 1980-81) e questo studio, per quanto riguarda la regolazione relazionale del conflitto. In questo esperimento il conflitto relazionale deteriora la prestazione ritardata, laddove nei suddetti studi, la regolazione relazionale cancella il beneficio del conflitto (rendendolo equivalente all’assenza di conflitto). In questi studi la regolazione relazionale del conflitto corrisponde alla condiscendenza, un modo per evitare il conflitto, in maniera da mantenere un rapporto positivo con il partner (Doise & Mugny, 1984). Ciò che è stato pro-vocato in questo studio, nella condizione del conflitto relazionale, è molto diverso, poiché è un attacco alle competenze dei partecipanti, invitandoli a risolvere il conflitto in modo difensivo. È pos-sibile supporre che questi due tipi di regolazione relazionale del conflitto non portino alle stesse attività cognitive. Evitare il conflitto attraverso l’arrendevolezza significa evitare le attività cognitive di coordinamento dei punti di vista (soluzione epistemologica): questo evitare può allora cancellare i benefici dell’interazione. Risolvere il conflitto in modo difensivo significa al contrario caricare il sistema cognitivo di ulteriore lavoro per provare la propria conoscenza. Questo carico cognitivo può quindi interferire con l’elaborazione del compito e può essere dannoso per l’apprendimento. Il con-fronto tra accondiscendenza e comportamento difensivo nel conflitto relazionale, qui piuttosto speculativo, sembra molto promettente per la comprensione della mancanza di miglioramento nelle interazioni cooperative; la futura ricerca è sulla strada di affrontare direttamente la questione.

Per quanto riguarda il confronto tra conflitto epistemologico e il gruppo di controllo, erano attese le conseguenze benefiche del conflitto epistemologico sull’apprendimento (Mugny et al. 1973-76; Mugny et al. 1978-79; Doise et al. 1975-76; Ames & Murray, 1982; Gilly & Roux, 1984; Tjosvold & Johnson, 1977; 1980; Smith et al. 1981; 1984). Tuttavia, in questo esperimento, la differenza tra i partecipanti che sono stati messi di fronte a un conflitto epistemologico e quelli che non hanno dovuto affrontare un conflitto sono solo marginali sulla prestazione immediata e non significativi per quella ritardata. Sembra che i partecipanti alla condizione di conflitto epistemologico non abbiano appreso tanto quanto ci si aspettava. Una possibile soluzione viene suggerita da un esperimento di Mugny et al. (1978-79), nel quale la forza del conflitto epistemologico è stata manipolata. Il conflitto provocato da un complice era “forte” (il complice e il soggetto insistevano sulla divergenza) o “debole” (il complice semplicemente evocava la soluzione divergente). In un gruppo di controllo non c’era conflitto. I risultati mostrano che solo una forte condizione di conflitto porta i ragazzi a progredire. La semplice presentazione della divergenza (conflitto debole) non era sufficiente a indurre l’avanzamento. Sulla base di questi risultati è possibile sostenere che in questo esperimento il conflitto epistemologico provocato non era abbastanza forte da migliorare l’apprendimento significativamente. Questa ipotesi verrà anch’essa sperimentata nella futura ricerca.

I risultati hanno anche dimostrato che la distribuzione delle risorse attenua il risultato dell’interazione e l’effetto del conflitto. Si prevedono due benefici nella condizione di interdipen-denza delle fonti:

    • primo, l’interdipendenza renderebbe l’interazione rilevante dal punto di vista del partecipan-te (Butera et al., 1994), il che favorirebbe le attività di scambio e cooperazione (Lambiotte et al., 1987; Buchs, Butera & Mugny, 2002);
    • secondo, l’interdipendenza ridurrebbe le istanze di confronto sociale che possono essere minacciose quando i partner ricevono identiche fonti (Pepitone, 1972; Sanders et al. 1978; Buchs, Butera & Mugny, 2002).

 

Una maggiore quantità di scambi percepiti tra sé stessi e il partner quando i partecipanti ricevo-no informazioni complementari supporta l’esistenza del primo di questi benefici. Un rapporto percepito meno positivamente e una maggiore quantità di attività relazionali percepite quando i partecipanti ricevono fonti identiche, supportano l’esistenza del secondo beneficio.

Per quanto riguarda la prestazione, va notato che non è stato osservato nessun principale effetto della distribuzione delle fonti. Malgrado il fatto che i partecipanti, quando ricevevano informazioni complementari, non avessero accesso all’intera informazione (leggevano solo il testo), avevano prestazioni altrettanto buone di coloro che avevano letto l’intera informazione, cioè entrambi i testi (nella condizione di indipendenza). Inoltre, l’assenza di un effetto di ruolo (ascoltatore rispetto a colui che faceva il riassunto) e di un’interazione tra distribuzione delle fonti e ruolo, ci permette di considerare che i partecipanti non sono stati penalizzati dalla non lettura del testo di cui erano ascol-tatori nella condizione di interdipendenza delle fonti. Ciò può essere spiegato dal fatto che la spiegazione del complice era molto chiara e permetteva agli ascoltatori di comprendere il testo allo stesso modo in cui l’avrebbero compreso se lo avessero letto. Questo può anche spiegare perché i partecipanti che erano nella condizione di conflitto epistemologico non siano realmente progrediti, rispetto al gruppo di controllo: la qualità del riassunto del complice era forse tale da produrre una specie di effetto limite massimo. La prestazione ha subìto un effetto di deterioramento nel ritardo che separava la prima misurazione dalla seconda. Quattro settimane più tardi solo le informazioni che erano state veramente integrate erano rimaste. Questo ci permette di capire perché l’attesa interazione tra tipo di conflitto e distribuzione delle fonti appare solo nella prestazione ritardata. In questo esperimento i partecipanti hanno fatto tutti bene nel test immediato (in media, 3 o 4 risposte sbagliate su 12), perché il tempo che separa la spiegazione (durante l’interazione) dalla misurazione era molto breve. Quindi non è sull’apprendimento immediato che i partecipanti si differenziano l’uno dall’altro, ma sull’apprendimento duraturo, quello che rimane dopo. In merito a questa ultima misurazione, il modo di distribuzione delle fonti interessava l’effetto sul tipo di conflitto.

Secondo Johnson & Johnson (1994), i conflitti hanno un effetto sull’apprendimento solo se hanno luogo in un contesto di reale collaborazione. I risultati supportano questa opinione, poiché l’atteso effetto di deterioramento del conflitto relazionale appariva nella condizione di interdipendenza e non in quella di indipendenza. Sembra che una modalità indipendente di distribuzione delle risorse impedisca ai partecipanti di percepire la complementarietà tra loro e il loro partner (ecco perché i partecipanti a questa condizione percepivano di meno le interazioni) e allo stesso tempo aumenti le attività di confronto sociale (ecco perché i partecipanti percepivano di più le attività relazionali). I partecipanti a questa condizione erano quindi insensibili a ciò che il complice diceva e al modo in cui lo diceva. Tutte le interazioni, anche nella loro forma iniziale (conflittuale o meno, relazionale o epistemologica) focalizzano l’attenzione sugli aspetti relazionali più che sul compito, il che rende tutte le interazioni equivalenti per l’apprendimento.

Anche se questo studio non ha riprodotto le conseguenze benefiche di un conflitto epistemologico sull’apprendimento, ha sottolineato due importanti questioni:

    • ha mostrato che un conflitto può deteriorare l’apprendimento se si tratta di un conflitto relazionale, basato sulla minaccia delle competenze individuali;
    • ha sottolineato l’importanza del contesto in cui ha luogo il conflitto. Infatti, ha dimostrato che non appena i partecipanti lavorano su informazioni identiche (in condizioni di indipendenza delle fonti), le attività relazionali sono aumentate, ci sono meno interazioni, il rapporto è percepito come meno positivo e tutti i tipi di interazioni sono equivalenti per l’apprendimento.

 

Questi risultati sono importanti per la comprensione dei processi di apprendimento all’università, in particolare per quelli che riguardano il lavoro in squadra. Infatti, tutte le situazioni che richiedono agli studenti di lavorare insieme – per es. esercizi, laboratori, assegnazioni per gruppi, ecc. – sfidano l’insegnante a stabilire le condizioni che favoriranno un apprendimento durevole e a evitare quelle che lo impediranno. I risultati presentati suggeriscono che il tipo di distribuzione delle fonti – che l’insegnante controlla assegnando i materiali pedagogici – ha un impatto importante sull’effetto dei vari conflitti che possono sorgere durante le interazioni degli studenti. Infatti, sembra che ci possa essere un problema ogniqualvolta che, per mancanza di fonti o per limitato accesso ad esse, l’insegnante debba distribuire i materiali pedagogici in un modo tale che gli studenti vengono ad avere informazioni complementari. I risultati suggeriscono che, in questo caso, gli studenti saranno particolarmente sensibili alla qualità del rapporto con i loro compagni e che il loro la-voro sarà danneggiato da un conflitto relazionale. Sfortunatamente, la competitività tra gli studenti è ancora troppo speso instaurata dagli insegnanti. La ricerca applicata ci dirà se questi risultati posso-no essere d’aiuto.

 

© Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: sviluppi recenti  – Fabrizio Manini

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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Capitolo 2

Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Capitolo 2

INTERAZIONI SOCIALI E APPRENDIMENTO


Un gran numero di ricerche sottolineano le conseguenze benefiche delle interazioni sociali sull’apprendimento (Johnson, 1981; Gettinger, 1992). Gli psicologi dello sviluppo sociale concepi-scono le interazioni sociali come un’opportunità privilegiata di sviluppo cognitivo. Facendo interagire i ragazzi in compiti piagetiani (per es. compiti di conservazione) e stabilendo il loro stadio di sviluppo relativamente al compito prima, immediatamente dopo e alcune settimane più tardi, i ricercatori hanno notato che i ragazzi inizialmente non conservatori possono dare una risposta di conservazione dopo l’interazione, e che questo progresso è stabile (Doise, Mugny & Perret Clermont, 1975). Tuttavia hanno notato che non tutte le interazioni portano a un progresso (Mugny & Doise, 1978); questo si ha solo quando, durante queste interazioni, divergenti punti di vista vengono vera-mente messi a confronto (Mugny, Doise & Perret-Clermont, 1975-76; Mugny, Giroud & Doise, 1978-79).

1 CONFLITTI E APPRENDIMENTO

Nella sua teoria di equilibrio, Piaget (1975) suggeriva che la chiave per lo sviluppo fosse una rottura nell’equilibrio cognitivo, creata da un conflitto, un disturbo che avvia un processo di “ri-equilibrio” attraverso il quale i ragazzi possono raggiungere un nuovo e superiore livello di equili-brio. Secondo Piaget, questo processo è il risultato di un conflitto interno tra le stesse risposte dei ragazzi. Ma gli psicologi sociali hanno sostenuto che questo conflitto, che è alla base dello sviluppo, può anche avere un’origine sociale. Così è stato chiamato “conflitto socio-cognitivo” (Mugny et al, 1975-76). Infatti, nelle situazioni di interazione sociale, il confronto con un partner crea un doppio squilibrio. Questo squilibrio è sia sociale (inter-individuale) perché è una discrepanza tra due perso-ne, sia cognitivo (intra-individuale) perché fa sì che ogni individuo dubiti della sua risposta. Risol-vendo il conflitto interindividuale i bambini possono risolvere anche quello intra-individuale. Infatti, per coordinare i diversi punti di vista emerge un lavoro cognitivo dal conflitto socio-cognitivo, che porta a un livello di ragionamento più elaborato. Molti studi dimostrano validamente che è quando gli individui possono mettere a confronto i loro punti di vista attraverso un conflitto socio-cognitivo, essi sono progrediti dopo le interazioni sociali (Mugny et al, 1975-76; Mugny et al, 1978-79; Ames & Murray, 1982; Gilly & Roux, 1984). Ciò è vero per lo sviluppo socio-cognitivo nei ragazzi, ma anche per la qualità del ragionamento e dell’apprendimento negli adulti (Doise, Mugny & Perez, 1998).

2 DUE QUESTIONI NEI COMPITI ATTITUDINALI

Da un punto di vista similare la Teoria dell’Elaborazione del Conflitto (Pérez & Mugny, 1993; 1996) specifica il meccanismo che ha luogo in tali situazioni di apprendimento, che sono il più delle volte situazioni di soluzione dei problemi. Infatti, è specifico che in questo tipo di compiti è in ballo l’attitudine, perché nella soluzione del problema viene richiesto ai partecipanti di usare un certo numero di abilità che sono (o meno) appropriate a risolvere il problema. Nei compiti in cui è in gioco l’attitudine, come nei compiti di apprendimento, sono particolarmente importanti due fattori:

    • esiste una risposta corretta, ma gli individui non sanno a priori qual è;
    • questo tipo di compito ha un alto livello di “ancoraggio” sociale, poiché dare una risposta corretta o sbagliata riordina gli individui in termini di capacità (Quiamzade & Mugny, 2001; Butera & Mugny, 2001; Mugny, Butera, Sanchez-Mazas & Pérez, 1995).

Quindi, il verificarsi di un conflitto durante un’interazione in questo tipo di compito crea una doppia dinamica: in primo luogo, il conflitto introduce un’incertezza riguardo alla validità di una soluzione, che è messa in dubbio dall’esistenza di un’altra possibile soluzione; in secondo luogo, il conflitto è un’opposizione tra individui, che implica che uno ha ragione e l’altro torto (o uno ha più ragione dell’altro). In altre parole, l’incertezza correlata alla soluzione al compito è aumentata da un’insicurezza correlata alle proprie competenze. Così, un conflitto in questi compiti implica due questioni: una è trovare la risposta corretta (questione “epistemologica”, correlata alla conoscenza) e l’altra è mostrare la propria competenza (questione “relazionale”, correlata allo status) (Mugny & Butera, 2001).

La focalizzazione sull’una o l’altra di queste due questioni, per risolvere il conflitto, dipende dalla minaccia che può essere generata dall’interazione. In una situazione di non minaccia, per es. quando i partner vengono valutati su dimensioni indipendenti (Butera & Mugny, 1995), prevale la questione epistemologica. Per risolvere il conflitto, gli individui cercano di valutare la validità di ogni proposizione e di capire il problema focalizzando la loro attenzione sul compito. La soluzione del conflitto viene così chiamata “epistemologica” (Mugny & Butera, 2001). In una situazione in cui le competenze degli individui sono minacciate, per es. quando i partner hanno un rapporto competitivo, prevale la questione relazionale. Dovendo affrontare un conflitto, gli individui cercano di mostrare di essere competenti. Quando si sentono competenti, cercano anche di affermare i propri punti di vista e di inficiare quello dell’altro attraverso un “conflitto di competenze” (Butera & Mugny, 2001). Questa soluzione del conflitto è competitiva perché è focalizzata sullo scopo di dimostrare le proprie competenze (Johnson & Johnson, 1994). Quando percepiscono la fonte come più competente di loro stessi, adottare il suo punto di vista attraverso “l’accondiscenza” permette loro di proteggere le proprie competenze (Quiamzade & Mugny, 2001). In entrambi i casi, la solu-zione del conflitto è basata sul confronto sociale delle competenze tra se stessi e il partner, il che è una regolazione “relazionale” del conflitto (Doise & Mugny, 1984; Mugny & Butera, 2001).

3 ATTIVITÀ COGNITIVE

Per quanto riguarda l’effetto del conflitto epistemologico rispetto a quello relazionale, sembra che il primo implichi più accuratezza nella soluzione dei problemi e produca un progresso a lungo temine. Per es., quando hanno osservato interazioni tra ragazzi di fronte a compiti piagetiani, Caru-gati, DePaolis & Mugny (1980) e Mugny et al. (1978-79) hanno notato che solo i partecipanti che avevano risolto il conflitto in modo epistemologico (cioè tramite il confronto di punti di vista) progredivano in maniera durevole. Il beneficio del conflitto era perso non appena i ragazzi mostravano remissività (regolazione relazionale del conflitto). Infatti, queste due forme di regolazione del conflitto corrispondono a livelli diversi di attività cognitive e quindi a diversi risultati nell’apprendimento.

Molti studi hanno già esplorato le attività cognitive che risultano da queste due forme di regolazione del conflitto, creando situazioni che richiedono agli individui di focalizzare la loro attenzione o sul compito o sul confronto sociale. Una linea di ricerca (Butera & Mugny, 2001) ha studiato una situazione in cui la minaccia associata al confronto sociale viene manipolata direttamente, in modo da studiare l’ipotesi che un confronto sociale che non rappresenta una minaccia permette di focaliz-zarsi sul compito, quindi di favorire l’accuratezza, laddove un confronto sociale di minaccia induce a focalizzarsi sul rapporto, quindi inficiando la prestazione. In uno studio i partecipanti chedoveva-no sperimentare un’ipotesi in un compito di ragionamento induttivo, sono stati messi davanti alla soluzione alternativa proposta da un’altra persona (Butera & Mugny, 1995). Inoltre, è stato chiesto loro di assegnare punti di competenza a se stessi e ai loro partner. In una condizione di non-minaccia, disponevano di 100 punti per sé e di 100 per il partner; così assegnare punti a un parteci-pante voleva dire ritirarli all’altro, il che corrisponde a una situazione di competizione. I risultati dimostrano che nella condizione di non-minaccia i partecipanti assegnavano un numero moderato, ma uguale, di punti a se stessi e al partner; assegnazioni che sono correlate positivamente, dimo-strando che la propria conoscenza può andare di pari passo a quella di qualcun altro. Questo a sua volta ha prodotto un aumentato uso della strategia più diagnostica, confermando che i partecipanti erano focalizzati sul compito. Al contrario, in una situazione di minaccia, una situazione che au-menta la competitività, le assegnazioni di punti erano per lo più asimmetriche e rivolte a se stessi, in una sorta di protezione della propria competenza. Questa focalizzazione sul conflitto relazionale ha effetti negativi sulla risoluzione del compito, dando come risultato un minore uso della strategia più diagnostica.

Inoltre, Monteil & Chambres (1990) riferiscono che l’apprendimento che risulta da un’interazione è migliore quando il partner associa la contraddizione alla spiritosaggine (espressio-ne di affabilità verso il partner) piuttosto che quando questa spiritosaggine non è associata alla con-traddizione. Queste due condizioni tuttavia portano a un migliore apprendimento rispetto a una con-dizione in cui le contraddizioni sono associate con contrarietà (espressione di picco di scontento verso il partner). Si può supporre che il dover affrontare questo tipo di feedback inviti i partecipanti a focalizzare la loro attenzione sulla relazione e non sul compito, in modo da risolvere la divergen-za. Infatti la contrarietà è introdotta nel loro esperimento da frasi come “È ovvio!”, “Hai torto”, frasi che possono essere viste come minacce per la competenza. I loro risultati mostrano che l’associazione tra conflitto e contrarietà è la condizione meno favorevole per l’apprendimento.

Un altro lavoro ha messo a confronto il metodo dell’apprendimento cooperativo basato su “con-troversie” (i partecipanti erano invitati a scambiarsi informazioni contraddittorie e a cambiare pro-spettiva) con un altro in cui era favorita la ricerca di concorrenza (Smith, Johnson & Johnson, 1981; 1984), e anche con un terzo metodo di “dibattito” dove i partecipanti dovevano difendere posizioni opposte, ma dove si dichiarava un vincitore (Johnson & Johnson, 1985). In generale questi autori hanno osservato che, paragonato agli altri due metodi, la controversia è benefica per l’apprendimento, il rapporto tra i partner e la salute psicologica (Johnson & Johnson, 1984;  Jo-hnson, Johnson & Tjosvold, 2000). In altre parole, un conflitto è benefico solo se non è associato al confronto sociale (nelle condizioni del dibattito, lo scopo è di fare meglio degli altri).

In conclusione, il suddetto lavoro mostra che un conflitto, quando porta gli individui a focaliz-zarsi sul compito e sulla soluzione del problema – nella sua forma epistemologica – favorisce un accurato trattamento del compito (diagnostica, presa di prospettiva, apprendimento). La letteratura è meno unanime sulle conseguenze di un conflitto che focalizza l’attenzione sul confronto sociale di competenze, cioè un conflitto relazionale. Sembra concordare sul fatto che il conflitto relazionale porterà a un trattamento più superficiale del compito rispetto al conflitto epistemologico. Ma l’effetto corrisponde semplicemente alla cancellazione dei benefici del conflitto epistemologico o è dannoso per l’apprendimento? Johnson & Johnson (1993) e Johnson, Johnson & Tjosvold, (2000) propongono che le acquisizioni siano “buone” nella condizione di controversia, “moderate” nel di-battito e “basse” nella ricerca di concorrenza. Secondo questi autori, la caratteristica relazionale ri-durrebbe solamente il beneficio del conflitto. Altri studiosi sostengono che l’effetto sia una cancel-lazione di questo beneficio (Carugati et al. 1980-81; Mugny et al. 1978-79). Tuttavia, Monteil & Chambres (1990) osservano che la condizione in cui la contraddizione è associata a contrarietà por-ta a un apprendimento peggiore rispetto alla condizione senza contraddizione. Inoltre, uno studio di Butera, Mugny & Tomei (2000, Studio 1) rivela che l’accondiscendenza di fronte a una fonte esper-ta (regolazione relazionale del conflitto) porta a un minore uso della strategia di diagnostica rispetto al gruppo di controllo (senza influenza).

Così, due meccanismi possono essere in gioco nel conflitto relazionale:

    • primo – non sono attivati i processi all’origine delle conseguenze cognitive di un conflitto, il che cancella i suoi benefici;
    • secondo – il conflitto relazionale minaccia le competenze degli individui, il che li porta a spostare la loro attenzione dal compito al confronto sociale.

 

Un’ipotesi generale potrebbe allora essere che la forma relazionale del conflitto non solo can-cella i suoi benefici, ma è anche negativa per l’apprendimento.

4 CONFLITTO E INTERDIPENDENZA DELLE INFORMAZIONI

Nel suddetto lavoro, la risoluzione relazionale del conflitto sembra essere determinata dalla minaccia che la competenza dell’altro rappresenta per se stessi. Questa minaccia può essere indotta da una rappresentazione del compito come avente una sola risposta. Infatti, quando c’è un conflitto in tale compito, il fatto che una persona abbia ragione implica che l’altra ha torto. Per ridurre questa minaccia gli individui dovrebbero percepire un certo grado di complementarietà fra di loro, in modo che entrambi possano aver ragione. Per es. si è dimostrato che l’introduzione della rappresentazione del compito in termini di complementarietà, attraverso l’idea che diversi punti di vista possono essere compatibili (Butera, Mugny, Pérez & Huguet, 1994), permette la riduzione della minaccia di competenza (Butera et al, 2000; Butera & Mugny, 2001; Quiamzade & Mugny, 2001).

Un modo per introdurre, attraverso il compito, la rappresentazione di complementarietà tra partner è di condividere le fonti tra i partner. Johnson, Johnson & Stanne (1989) e Ortiz, Johnson & Johnson (1996) hanno descritto “nessuna interdipendenza delle fonti” come la situazione in cui i partecipanti ricevono informazioni identiche, e “interdipendenza delle fonti” come la situazione in cui ogni partecipante riceve solo una parte dell’informazione (informazione complementare). Si possono sottolineare due benefici del condividere informazioni complementari (interdipendenza delle fonti):

    • il primo è che esso spinge i partecipanti a considerare gli altri come fonti di informazioni;
    • il secondo è che riduce le istanze di competizione e il confronto sociale tra gli studenti.

Gruber (2000) e Butera et al. (1994) hanno notato che, grazie alla percezione della complemen-tarietà tra se stessi e il partner, appare legittimo contare sul partner per le informazioni. La complementarietà di informazioni tra partner (interdipendenza delle fonti) significa fornire un’informazione incompleta a entrambi. Il solo modo di avere accesso a tutta l’informazione e di comprendere appieno il problema è di interagire con il partner. Così:

    • il primo beneficio del condividere informazioni complementari è che rende rilevante l’interazione; i comportamenti orientati verso lo scambio di informazioni possono derivare da questa rappresentazione dell’interazione. Inoltre, Lambiotte, Dansereau, O’Donnnel, Young, Skaggs, Hall & Rocklin (1987) suggeriscono che il condividere informazioni complementari potrebbe favorire il coinvolgimento dei partner nel compito, nelle interazioni e negli sforzi verso la spiegazione. In linea con ciò, Buchs & Butera (2001) hanno sottolineato che i processi di interazione sono più cruciali quando gli studenti condividono informazioni complementari rispetto a quando essi discutono identiche informazioni. Infatti, la qualità percepita di rapporto modula la prestazione in condizioni di interdipendenza delle fonti, ma non interessa la prestazione nell’indipendenza delle fonti.
    • Il secondo beneficio del condividere informazioni complementari tra partner è che ciò riduce le istanze di confronto sociale. Infatti, alcuni studi sulla coazione sottolineano che i partecipanti si confrontano di più l’uno con l’altro quando lavorano su compiti identici (rispetto a diversi) (Pepitone, 1972; Sanders, Baron & Moore, 1978). Infatti, i partecipanti che hanno accesso alle stesse informazioni hanno la possibilità di confrontare le loro prestazioni, il che non succede quando i partecipanti lavorano su compiti diversi. Ciò viene suggerito anche dagli studi di Marshall & Weinstein (1984) e di Rosenholtz & Wilson (1980) nelle classi. Infine, Lambiotte et al. (1987) suggeriscono che lavorare su informazioni identiche comporta, oltre alla motivazione di capire il problema, una motivazione di mostrare la propria competenza. Quest’ultima può distogliere chi apprende dal  processo di compito. Il lavorare su informazioni complementari solleva gli individui da queste istanze.

 

Questi due potenziali benefici di lavorare su informazioni complementari sono stati studiati da Buchs, Butera & Mugny (2002). L’analisi delle interazioni di studenti videoregistrati (studio 1) ha rivelato che lavorare su informazioni complementari favorisce il coinvolgimento dei partecipanti (più tempo destinato a dare spiegazioni, più domande e più risposte). Inoltre, le reazioni positive sono più importanti e quelle negative (per es. difficoltà espresse) sono meno frequenti quando gli studenti lavorano su informazioni complementari rispetto a quando lavorano su informazioni identiche. Dall’altra parte, il discutere informazioni identiche aumenta i disaccordi e stressa le affermazioni di competenza, impedendo ai partecipanti una risoluzione costruttiva di questo confronto. Le auto-affermazioni sulle interazioni percepite dagli studenti (Studio 2) mostrano che il discutere in-formazioni complementari diminuisce il livello percepito di divergenza, mentre la questione della competenza sembra essere una variabile di mediazione nell’effetto negativo del discutere informazioni identiche. In sintesi, l’indipendenza delle fonti aumenta le istanze relazionali e sembra dare al conflitto una forma relazionale.

 

© Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: sviluppi recenti  – Fabrizio Manini

 

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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento Capitolo 1 – Parte terza

Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Capitolo 2

 

Nella categoria di motivazione alla riuscita rientrano due teorie: quella di Lewin, secondo cui la motivazione è vista come un’energia che origina da un conflitto e viene liberata nel momento in cui il conflitto si risolve, e quella di Atkinson, secondo cui la motivazione nasce dall’esigenza di misu-rare le proprie abilità in compiti ritenuti importanti.

1.6 LA TEORIA DI LEWIN: COMPITO INTERROTTO E CONFLITTI

I soggetti che vengono interrotti durante lo svolgimento di un certo compito manifestano rea-zioni di collera; il bisogno di completamento però c’è soltanto per i compiti che il soggetto ha intra-preso. A tale riguardo la spiegazione fornita dalla teoria del conflitto di Lewin (1931) è che il com-portamento di completamento ha luogo perché all’interno della persona si genera una tensione il cui desiderio di realizzazione conduce a un accumulo di energia che dà la motivazione al completamen-to del compito. Se il compito viene terminato si ha una scarica energetica che porta alla distensione del sistema, se il compito viene lasciato in sospeso il sistema rimane teso e la motivazione attiva. Le energie spese nell’eseguire un compito sembrano vane se questo non è concluso, per cui le persone tendono a voler completare le attività che intraprendono.

Secondo Lewin (1931) i conflitti sono di tre tipi:

    • conflitti appetitivi,
    • conflitti avversivi,
    • conflitti appetitivi-avversivi.

Il conflitto appetitivo si ha quando la persona ha una sola possibilità di scelta tra due situazioni che ugualmente la attirano e cioè a valenza positiva. Si determina così una situazione instabile e fluttuante fra le due soluzioni A e B. Quando il soggetto si avvicina mentalmente alla soluzione A di cui, inizialmente, vede solo i vantaggi comincia a vederne anche i lati negativi. Allora si sposta, mentalmente, sulla scelta B ma succede la stessa cosa di A. Inizialmente da lontano vede solo i van-taggi, poi man mano che si avvicina, comincia a intravedere anche gli aspetti negativi. Si tratta di un’oscillazione che si risolverà con la scelta di una delle due possibilità.

Il conflitto avversivo si realizza quando il soggetto deve scegliere fra due situazioni che non lo attraggono, quindi entrambe a valenza negativa. Perché il conflitto si realizzi ci deve essere una bar-riera di costrizione che obbliga a una delle due scelte, altrimenti il soggetto cercherà di evitare la si-tuazione. La soluzione di questo conflitto consiste nello scegliere la possibilità che appare meno ne-gativa.

Il conflitto appetitivo-avversivo (o conflitto di ambivalenza) si realizza quando la meta presenta aspetti positivi e negativi; in questo caso si creano delle tensioni e dei sotto-obiettivi sui quali si ba-serà la scelta di affrontare o non affrontare quel determinato compito od obiettivo. Questi piccoli sotto-obiettivi possono consentire di affrontare il compito con la giusta carica di energia. Inoltre essi permettono di alternare momenti di tensione e di distensione, impedendo di rimanere in uno stato iniziale di indecisione.

I conflitti si realizzano quando le mete presentano allo stesso tempo sia aspetti positivi sia a-spetti negativi. Gli aspetti positivi tendono a creare una motivazione e danno luogo a dei gradienti di avvicinamento, mentre quelli negativi tendono a demotivare e costituiscono dei gradienti di evi-tamento. A grande distanza dalla meta il soggetto vede soprattutto gli aspetti positivi, per cui tende ad avvicinarsi. Quando è abbastanza vicino comincia a vedere anche gli aspetti negativi. A questo punto ha un tentennamento. Se il soggetto si avvicinerà ulteriormente vedrà sempre più gli aspetti negativi, se si allontana tornerà a percepire gli aspetti positivi. Si può osservare che il gradiente di avvicinamento cresce lentamente, ma è presente già da molto lontano; il gradiente di evitamento in-vece cresce molto in fretta, ma appare solo quando il soggetto è già molto vicino alla meta. La solu-zione di un conflitto di questo tipo consiste nel trovare un equilibrio mentale per cui vengono sop-pesate tutte le condizioni sia positive sia negative in modo che l’aspetto dell’attrazione riesca a es-sere superiore a quello deterrente.

La teoria della motivazione di Lewin (1946) è quindi basata sull’idea di una scelta tra più pos-sibilità. La motivazione sembra derivare dal conflitto e la demotivazione dall’assenza di conflitto; tuttavia questa assenza di conflitto in realtà è solo teorica perché quando un conflitto si esaurisce se ne genera subito un altro. Il punto interessante è che la motivazione non è vista come un desiderio, ma come una sorta di tensione o di disagio.

1.7 LA TEORIA DI ATKINSON: TENDENZE MOTIVAZIONALI E SCELTE A RISCHIO

La teoria di Atkinson (1964) è una teoria motivazionale alla riuscita e riprende il concetto di conflitto introdotto da Lewin, aggiungendo una nuova componente che è quella emotiva. Scopo del-la motivazione alla riuscita è quello di misurare le proprie abilità attraverso il raggiungimento del successo in attività valutate come importanti. Secondo Atkinson la motivazione alla riuscita dipende da due componenti o tendenze motivazionali contrapposte, speculari e potenzialmente conflittuali:

    • una tendenza al successo, che porta a voler affrontare i compiti e quindi alla motivazio-ne;
    • una motivazione a evitare il fallimento, che porta a un atteggiamento di ritiro nei con-fronti delle situazioni, al disinteresse e alla demotivazione.

La tendenza al successo porta a scegliere compiti di media difficoltà, in genere leggermente più difficili rispetto a quelli affrontati in precedenza e in cui le possibilità di successo sono realistica-mente piuttosto alte. Emozioni tipiche sono la fiducia nella riuscita, il desiderio di affrontare il compito, la soddisfazione e l’orgoglio, anche anticipati, per il successo. L’atteggiamento verso il compito è positivo e si caratterizza per la focalizzazione dell’attenzione, la ricerca di adeguate strategie di soluzione, l’impressione di farcela, la persistenza di fronte alle difficoltà. Una volta rag-giunto il successo la tendenza è quella di attribuire la riuscita al proprio impegno e di valutare il compito come facile.

La motivazione a evitare il fallimento porta invece ad affrontare compiti molto facili oppure compiti estremamente difficili, la cui riuscita è molto improbabile, ma che permettono comunque di attribuire il fallimento a cause diverse dalla mancanza di abilità o di impegno, quali la difficoltà del compito, la sfortuna, l’assenza di aiuto. L’emozione tipica che accompagna la tendenza a evitare l’insuccesso è la vergogna anticipata, dovuta al fatto di sentirsi inadeguati rispetto agli altri o rispet-to a come ci si aspettava di essere e alla sensazione di non avere la capacità per farcela. Prima di af-frontare il compito il soggetto appare apatico e rasseganto, durante l’esecuzione del compito è spes-so ansioso. Dal punto di vista cognitivo, alla percezione di non possedere le abilità necessarie per affrontare il compito, che è presente prima dell’esecuzione, si accompagnano, durante il compito, confusione e sentimenti di incapacità che possono giungere a configurarsi anche come impotenza appresa, cioè incapacità di sentire il controllo personale della situazione.

Nelle circostanze concrete le persone stimano le probabilità di successo e quindi la difficol-tà/facilità del compito nonché la previsione di uno scenario di riuscita o fallimento in cui vengono anticipate le emozioni di orgoglio o di vergogna. Nel fare ciò gli individui fanno riferimento alle esperienze passate, alla conoscenza del compito, delle situazioni, alla storia personale di successi e fallimenti.

Per meglio spiegare le modalità di scelta di una persona che deve decidere se affrontare o ab-bandonare un compito e che è spinta da due opposte tendenze al successo o all’evitamento, Atkin-son ha proposto un modello definito delle scelte a rischio. Secondo tale modello l’individuo consi-dera, in base alla stima della difficoltà del compito, le probabilità di successo e l’incentivo:

    • se la probabilità di successo è alta perché il compito viene valutato come facile, l’orgoglio anticipato (cioè l’incentivo) per la riuscita sarà basso. Le emozioni provate per la risoluzione di compiti semplici non sono molto forti,
    • al contrario se la probabilità di successo è stimata come molto bassa e il compito come molto difficile, l’incentivo (cioè l’emozione anticipata di orgoglio) sarà alta. La soddi-sfazione provata per la risoluzione di un compito difficoltoso è infatti grande.

La situazione ottimale è quindi quella che si realizza quando c’è un giusto incrocio fra le di-mensioni incentivo al successo e probabilità di successo; ciò avviene in corrispondenza di compiti di difficoltà media o leggermente superiore alla media. Gli individui sono tendenzialmente poco motivati ad affrontare compiti facili che spesso appaiono anche noiosi e ripetitivi, molto motivati verso compiti di media-alta difficoltà, di nuovo poco motivati per compiti che appaiono troppo im-pegnativi.

Se l’individuo affronta un compito valutato come difficile e fallisce, rischia un’emozione nega-tiva. Le emozioni negative provate di fronte al fallimento tendono a far abbassare le aspettative fu-ture di riuscita e le autopercezioni di abilità. Questa situazione può incidere sulle successive stime di difficoltà del compito e quindi sulla scelta dello stesso. Infatti quando un soggetto riesce in un compito tende a scegliere, la volta successiva, un livello di difficoltà leggermente superiore perché acquista maggiore fiducia in sé stesso. Se invece fallisce tende a mantenere uguali o addirittura ad abbassare le proprie aspettative e quindi la scelta del livello di difficoltà del compito in situazioni successive.

Gli individui sono spinti a scegliere compiti di un livello di difficoltà che consenta loro di otte-nere un successo; questo implica che il giudizio per cui una data prestazione costituisce un successo o un insuccesso è soggettivo in quanto legato alla fiducia in sé, alla stima delle proprie capacità e alle aspettative del singolo. La decisione di confrontarsi con un determinato compito viene comun-que presa non solo in base alle spinte motivazionali, ma anche in relazione al grado di attrazione dell’obiettivo, che può più o meno collimare con gli scopi e i valori dell’individuo, alle riflessioni fatte di fronte ai precedenti successi e insuccessi, alle attribuzioni formulate in situazioni analoghe.

1.8 LA TEORIA DELL’ATTRIBUZIONE

Le attribuzioni possono essere definite come le percezioni che gli individui hanno circa le cause degli eventi che accadono a sé stessi (autoattribuzioni) e agli altri (eteroattribuzioni). Il processo at-tributivo consiste quindi nel considerare un risultato proprio o altrui e poi, sulla base di informazio-ni possedute, di esperienze passate e di altri fattori individuali, attribuire quel risultato a una o più cause particolari, ad es. all’impegno, all’abilità personale, alla facilità/difficoltà del compito. Le at-tribuzioni possono quindi essere considerate come il risultato di decisioni che l’individuo mette in atto per capire chi o cosa è responsabile degli eventi che accadono. Il processo attributivo emerge dal bisogno di comprendere il mondo e le sue regole.

Jones e Nisbett (1972) hanno descritto il fenomeno definito come errore fondamentale di attri-buzione (o bias edonico) secondo il quale è tendenza comune, per le autoattribuzioni, quella di sce-gliere cause di tipo interno per il successo e cause di tipo esterno per il fallimento, mentre per le ete-roattribuzioni la tendenza è quella di scegliere cause di tipo interno per fallimento e cause di tipo e-sterno per il successo. Ciò significa che siamo più portati a pensare di riuscire perché siamo bravi o perché ci siamo impegnati e di non riuscire perché siamo sfortunati o il compito è difficile o nessu-no ci aiuta. Analogamente pensiamo che gli altri riescano perché il compito è facile o sono fortunati o vengono aiutati e non riescano perché non si impegnano o perché non sono bravi. Formulare delle attribuzioni serve non soltanto a spiegare il proprio comportamento, ma anche a giustificarlo.

Inoltre è opportuno considerare la prospettiva in cui viene fatto il ragionamento causale. Se va-lutiamo il nostro comportamento la prospettiva è quella di attore, se valutiamo l’altrui comporta-mento la prospettiva è quella di osservatore. Per l’attore l’elemento saliente è la persona; l’attore tende quindi a difendere sé stesso ricercando cause interne per i successi e adducendo cause esterne per giustificare gli insuccessi. Per l’osservatore invece l’elemento saliente è la situazione; la tendenza per l’osservatore sarà quella di formulare attribuzioni legate alla situazione per i successi e legate alla persona osservata per gli insuccessi. L’errore fondamentale di attribuzione può essere ridotto o annullato dall’empatia (Regan e Totten, 1975), mentre può risultare ampliato per effetto dei condi-zionamenti culturali e di stereotipi.

Una prospettiva più completa che esamina nel dettaglio le attribuzioni interne è quella proposta da Weiner (1985) secondo la quale le attribuzioni possono essere distine in base a tre dimensioni:

 

    • locus of control; parametro per cui è possibile distinguere fra cause interne o esterne alla persona;
    • stabilità; parametro per cui le cause, indipendentemente dal locus of control, possono essere tendenzialmente stabili nel tempo e nelle differenti situazioni oppure instabili e variabili a seconda dei contesti;
    • controllabilità; parametro per cui si possono distinguere cause più o meno direttamente controllabili dal soggetto.

 

Un’ulteriore dimensione di analisi delle attribuzioni in aggiunta alle tre di Weiner è quella pro-posta da Abramson, Seligman e Teasdale (1978) che distingue fra attribuzioni globali e attribuzioni specifiche. Le prime riguardano la generalità di possibili situazioni, le seconde sono relative a una sola specifica situazione.

La tendenza al successo, intesa come forma di motivazione, veniva spiegata da Atkinson come l’effetto di una emozione anticipata di orgoglio, interpretata come una forza interiore, simile a un istinto. Secondo Weiner (1979), invece, la motivazione al successo sarebbe una disposizione cogni-tiva, non affettiva. La tendenza a impegnarsi/non impegnarsi dipenderebbe dalle convinzioni del soggetto circa le possibili cause del successo/insuccesso. La motivazione deriverebbe, quindi, dalle attribuzioni formulate in precedenti situazioni di successo o di fallimento. Atkinson sottolinea l’aspetto emotivo: se il soggetto anticipa il successo e la riuscita prova un’emozione di orgoglio o di soddisfazione, se anticipa il fallimento prova vergogna. Weiner, invece, pone l’accento sugli a-spetti cognitivi e, in particolare, sulle interpretazioni date ai precedenti successi e insuccessi. La capacità di provare orgoglio nella realizzazione è sostituita con la capacità di percepire il successo come causato da fattori interni. La tendenza al successo si caratterizza quindi per l’attribuzione del successo a una combinazione di abilità e impegno e l’attribuzione dell’insuccesso alla mancanza di impegno. La motivazione a evitare il fallimento si contraddistingue, invece, per l’attribuzione del successo a fattori esterni e dell’insuccesso a mancanza di abilità. Secondo la teoria attributiva, quindi, la motivazione non deriva dalle emozioni anticipate, ma dai normali processi di riflessio-ne sulle cause dei propri successi e insuccessi.

Caratteristica della tendenza al successo è l’attribuzione del successo all’impegno e alle buone capacità personali (cause interne) e dell’insuccesso a un impegno insufficiente o inadeguato o a particolari elementi non prevedibili. A questo si accompagna un sistema autovalutativo positivo ca-ratterizzato dalla sensazione di avere incontrato molte situazioni di successo e pochi fallimenti, que-sti ultimi funzionalmente interpretati come indicatori della necessità di impegnarsi di più o in ma-niera più efficace.

La motivazione a evitare il fallimento porta, invece, ad attribuire il successo a fattori esterni e non controllabili quali la facilità del compito, la fortuna e l’aiuto e l’insuccesso alla mancanza di abilità. Il sistema autovalutativo associato si caratterizza per un bilancio negativo in cui vengono sovrastimati i fallimenti e poco riconosciute le situazioni di successo, spesso interpretate come frutto di elementi legati alla situazione e non come esito del proprio impegno e dimostrazione delle pro-prie abilità. La prevalenza dell’una o dell’altra motivazione (tendenza al successo o motivazione a evitare il fallimento) dipenderebbe quindi, secondo la teoria attributiva, dalle spiegazioni date dall’individuo rispetto ai precedenti successi e insuccessi.

In sintesi secondo la teoria di Atkinson le persone sono motivate ad apprendere dal bisogno di riuscita. Tale bisogno, per essere soddisfatto, richiede che vengano affrontate situazioni di diffi-coltà adeguata al proprio livello di abilità, cosicché vi siano buone possibilità di successo. Ciò comporta delle valutazioni sul livello di difficoltà del compito e sulla stima di successo che tenga-no conto anche delle interpretazioni che il soggetto ha dato ai precedenti successi e insuccessi, cioè delle attribuzioni causali.

Attribuire a una causa anziché a un’altra episodi di successo/insuccesso a cui andiamo incon-tro riveste una notevole importanza sulle nostre successive decisioni relative alle attività da intra-prendere e agli obiettivi di apprendimento da perseguire, in particolar modo all’interno di un contesto sociale dove c’è un’interazione continua con altri individui.

Quando gli individui devono confrontarsi con gli altri per quanto riguarda sia le proprie pre-stazioni sia l’apprendimento che ne deriva, si parla di situazioni di collaborazione o di conflitto.

 

© Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: sviluppi recenti  – Fabrizio Manini

 

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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento Capitolo 1 – Parte seconda

1.2 MOTIVAZIONE DI EFFECTANCE

La motivazione di effectance riguarda il comportamento esploratorio che non riflette solo un bisogno, come la curiosità

 

epistemica, ma risponde alla motivazione intrinseca di controllare e padroneggiare le situazioni e l’ambiente circostante allo scopo di sentirsi efficaci e competenti (White, 1959). Se un bambino viene incoraggiato nei primi tentativi di padronanza svilupperà abilità proprie che gli faranno interiorizzare la percezione di controllo personale la quale, a sua volta, porta a un incremento della motivazione di effectance; esercitare le abilità infatti consente un’esperienza emotiva positiva che rinforza i tentativi di padronanza. Diversamente se un bambino viene disapprovato nei suoi tentativi di padronanza svilupperà un bisogno di approvazione esterna che lo porterà a sentirsi dipendente dal rinforzo dell’adulto e a porsi obiettivi di approvazione piuttosto che di padronanza. Il bambino si sentirà meno competente e più controllato dall’esterno e questo causerà un decremento della motivazione di effectance; percepire una bassa autocompetenza produce esperienze emotive negative, come l’ansia, le quali inducono a evitare le situazioni di apprendimento innestando un processo circolare che impedisce lo sviluppodi competenze e inibisce la volontà di affrontare la situazione per il timore di fallire.

Harter (1978) ha esaminato la motivazione di effectance negli adulti individuando quattro punti chiave:

 

 

    • la percezione di competenza che si sviluppa per effetto dei successi/insuccessi provati, delle interpretazioni che ne diamo e del sostegno ambientale che riceviamo;

 

    • la percezione di controllo che si riferisce alla sensazione di sentirsi agenti personalmente nella situazione;

      il concetto di sfida ottimale che riguarda la situazione in cui il compito è tale nella misura in cui la difficoltà è media o di poco superiore alla competenza percepita;

      la motivazione interiorizzata che emerge quando si acquisisce la capacità di gratificarsi o meno, cioè di autopremiarsi o di autopunirsi a seguito dello svolgimento di un’attività.

 

 

1.3 AUTODETERMINAZIONE

Le due teorie precedenti si riferiscono al bisogno di conoscere e al bisogno di sentirsi competenti. Tuttavia le persone hanno anche il bisogno di controllare l’esercizio delle attività, cioè hanno bisogno di scegliere; questo concetto di scelta è stato studiato da Deci e Ryan (1985) che hanno proposto la teoria dell’autodeterminazione. L’autodeterminazione consiste nella libera scelta di condurre un’azione, una scelta svincolata da incentivi esterni che dipende proprio dal desiderio di svolgere quella specifica attività. La teoria dell’autodeterminazione suggerisce che se il soggetto sperimenta una situazione di libera scelta mantiene o accresce la motivazione per il compito, invece se sente che lo svolgimento dell’attività è imposto dall’esterno proverà una minore autodeterminazione e quindi un livello più basso di motivazione. Alla base di una condotta autodeterminata c’è il bisogno di sentirsi artefici delle proprie azioni e di scegliere liberamente il compito e la sua modalità di svolgimento (Deci e Ryan, 1985).

L’ambiente sociale può promuovere l’autodeterminazione quando soddisfa i tre bisogni seguenti:

·    la competenza, cioè il sentirsi capaci di agire sull’ambiente sperimentando sensazioni di controllo personale;

·    l’autonomia, cioè la possibilità di decidere personalmente cosa fare, come farlo e quando farlo;

·    la relazione, cioè la necessità di costruire e mantenere legami in ambito sociale.

L’autodeterminazione prevede quindi che gli individui siano motivati non soltanto quando possono scegliere liberamente l’attività da svolgere, ma anche quando si sentono competenti e accettati.

1.4 ESPERIENZA DI FLUSSO

L’esperienza di flusso è una sensazione di profondo coinvolgimento nella situazione, accompagnata da una concentrazione intensa. È stata studiata per la prima volta da Csikszentmihalyi (1993) che l’ha definita anche motivazione flow. Nell’esperienza di flusso l’attenzione risulta focalizzata sullo svolgimento del compito piuttosto che sui possibili risultati; la motivazione si mantiene e si accresce per effetto del piacere provato nel controllare e nel realizzare il compito. Alcune caratteristiche tipiche che l’accompagnano sono il feedback circa l’efficacia delle proprie azioni, la concentrazione elevata, la sensazione di controllo personale e una percezione alterata del tempo. La probabilità di sperimentare un’esperienza di flusso deriva da un’intersezione ottimale fra la percezione del proprio livello di abilità e la percezione del grado di facilità/difficoltà del compito; in altre parole l’esperienza si verifica se gli individui percepiscono di avere un alto grado di abilità e se allo stesso tempo sentono di affrontare un compito adeguatamente impegnativo.

Da notare che la percezione delle proprie abilità e del livello di difficoltà del compito sono elementi del tutto soggettivi e quindi molto variabili da individuo a individuo. La percezione della propria abilità dipende dal sostegno sociale e dalle esperienze precedenti; la percezione della facilità o difficoltà del compito è strettamente legata al confonto sociale e ai risultati che si vedono nelle prestazioni altrui. Questo spiega perché il potenziale di flusso non dipende da dati oggettivi, ma differisce a seconda di situazioni e persone.

1.5 INTERESSE

Il concetto di interesse risulta essere piuttosto complesso in quanto prende in considerazione aspetti di varia natura, da quelli individuali, a quelli ambientali, a quelli sociali. I primi sono relativi alle preferenze e ai gusti del singolo, i secondi riguardano gli stimoli offerti e quindi quanto sono interessanti l’oggetto, il compito o l’attività, gli ultimi si riferiscono al grado in cui la situazione e l’interazione riescono a stimolare la motivazione in un dato contesto socioculturale.

Krapp, Hidi e Renninger (1992) sostengono che l’interesse sia il risultato di un’applicazione ripetuta, da parte dell’individuo, in un determinato contesto verso oggetti o attività con particolari caratteristiche. Questa applicazione ripetuta ha effetti sia cognitivi sia emotivo-affettivi. Per quanto riguarda gli aspetti cognitivi l’interesse influisce sull’impegno, sulle aspettative, sulla persistenza e sulla scelta del compito; per quanto riguarda gli aspetti emotivo-affettivi l’interesse si riferisce alla soddisfazione e al piacere che si provano nello svolgere quel compito. Provare interesse porta a una motivazione intrinseca che produce emozioni positive. L’interesse in sé non è assimilabile al piacere e non dipende dalla facilità del compito, ma va associato alla rilevanza personale di una determinata azione in uno specifico contesto (Krapp, 1999). L’interesse tende quindi a essere stabile nel tempo e a mantenersi per effetto di ripetute applicazioni. La differenza fondamentale fra curiosità epistemica e interesse è che la prima si riferisce a un’attivazione derivante da un bisogno, che è quello di conoscere l’ambiente attraverso l’esplorazione, mentre il secondo si sviluppa dall’interazione fra l’individuo e il materiale/oggetto stimolo in specifici contesti. Perché si possa parlare di un reale contesto di interesse è necessario che la situazione abbia un valore (cioè un significato personale) e dia luogo a sensazioni piacevoli (cioè a stati emotivo-affettivi positivi). La caratteristica dell’interesse è l’applicazione protratta nel tempo e, una volta sviluppato, ha la tendenza alla stabilità; per questo motivo correla molto con l’apprendimento. Inoltre un maggiore interesse personale si collega direttamente a prestazioni migliori, così come la possibilità di capire e di ricordare meglio possono costituire un’ulteriore fonte di motivazione e quindi di apprendimento.

 

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Apprendimento e Prestazioni

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Ricerca sulla predittivita’ di successo accademico del test di ammissione al corso di laurea in scienze e tecniche psicologiche dell’universita’ di Bologna
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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento Capitolo 1

Capitolo 1

MOTIVAZIONE INTRINSECA E MOTIVAZIONE ALLA RIUSCITA

L’apprendimento, vale a dire la capacità di immagazzinare informazioni teoriche e procedure pratiche, varia in funzione della motivazione, cioè della volontà di acquisire competenza. L’approccio più interessante alla motivazione è quello che prende in considerazione le componenti intrinseche della stessa. A tale riguardo i costrutti rilevanti sono cinque:

· la curiosità epistemica;

· la motivazione di effectance;

· l’autodeterminazione;

· l’esperienza di flusso;

· l’interesse.

1.1 CURIOSITÀ EPISTEMICA

La curiosità epistemica fa riferimento al bisogno di conoscere e trae origine dalle teorie che spiegano la motivazione come una risposta a bisogni di vario tipo, semplici e universali (ad es. sfamarsi e proteggersi dal freddo), oppure complessi e legati a fattori socio-culturali (ad es. sentirsi stimati e approvati). La curiosità epistemica è un bisogno universale di conoscere e di apprendere che si manifesta tramite l’esplorazione dell’ambiente ed è motivata solo dal desiderio di sapere (Berlyne, 1960). La curiosità però può essere implementata anche dalla noia e quindi dal bisogno di nuove stimolazioni di tipo percettivo che permettono di ottenere nuove informazioni. La teoria della curiosità epistemica evidenzia il ruolo dell’ambiente e le caratteristiche degli stimoli che da esso provengono piuttosto che gli atteggiamenti e gli obiettivi del soggetto. Berlyne definisce queste caratteristiche come proprietà collative dello stimolo, cioè elementi di novità e di incongruenza con le precedenti conoscenze. Sono queste incongruenze, che creano un conflitto, a generare la motivazione ad apprendere. Questa motivazione risponde al bisogno di ottenere nuove informazioni, cioè alla curiosità, per superare il momento di incertezza.

In una situazione ottimale le proprietà collative dovrebbero permettere una stimolazione di media entità. Se il livello di stimolazione tende al basso potrebbe generarsi una situazione di monotonia con conseguente abbandono di interesse, al contrario se tende verso l’alto avrà luogo un effetto inibitorio accompagnato da manifestazioni ansiogene. Soltanto se l’intensità della stimolazione (o la discrepanza dall’informazione) ha un livello medio ci può essere una motivazione intrinseca di curiosità che consente un’esplorazione ambientale soddisfacente e una focalizzazione attentiva senza percezioni di ansia né rischio di fallimento. Il limite della curiosità epistemica è che non fornisce garanzie circa la costanza e la persistenza di fronte alle novità e agli ostacoli; di conseguenza non può rappresentare l’unica motivazione intrinseca a imparare.

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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento Introduzione

INTRODUZIONE

 

 L’apprendimento, cioè l’immagazzinamento di conoscenze, e la performance, cioè l’utilizzo concreto di tali conoscenze, sono alcune delle tematiche peculiari della psicologia delle costruzioni cognitive e dell’apprendimento; l’interesse verso queste tematiche deriva dallo studio verso la motivazione all’azione e verso la motivazione alla riuscita affrontato per primo da Lewin. A partire dalle sue ricerche l’area di studio si è ampliata arrivando a comprendere il conflitto interpersonale e le sue due modalità di regolazione (epistemica e relazionale) per poi focalizzarsi sui risultati di padronanza e di prestazione che ne conseguono.

Le interazioni sociali sono una delle migliori opportunità per lo sviluppo cognitivo, ma nonostante questo non tutte le interazioni agevolano i progressi; questi ultimi si verificano soltanto quando, durante tali interazioni, punti di vista differenti e contrastanti vengono messi a confronto e sia richiesta una soluzione condivisa. Il conflitto che ne deriva genera le due regolazioni alternative suddette che presumono acquisizione di conoscenza la prima e dimostrazione di competenza la seconda. L’adozione dell’una o dell’altra modalità, tese rispettivamente a finalità di padronanza e a finalità di prestazione, rappresentano le variabili socio-cognitive che influenzano il modo in cui può essere regolato e risolto il conflitto.

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