Compiti di prestazione e compiti di apprendimento Capitolo 1 – Parte terza

Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Capitolo 2

 

Nella categoria di motivazione alla riuscita rientrano due teorie: quella di Lewin, secondo cui la motivazione è vista come un’energia che origina da un conflitto e viene liberata nel momento in cui il conflitto si risolve, e quella di Atkinson, secondo cui la motivazione nasce dall’esigenza di misu-rare le proprie abilità in compiti ritenuti importanti.

1.6 LA TEORIA DI LEWIN: COMPITO INTERROTTO E CONFLITTI

I soggetti che vengono interrotti durante lo svolgimento di un certo compito manifestano rea-zioni di collera; il bisogno di completamento però c’è soltanto per i compiti che il soggetto ha intra-preso. A tale riguardo la spiegazione fornita dalla teoria del conflitto di Lewin (1931) è che il com-portamento di completamento ha luogo perché all’interno della persona si genera una tensione il cui desiderio di realizzazione conduce a un accumulo di energia che dà la motivazione al completamen-to del compito. Se il compito viene terminato si ha una scarica energetica che porta alla distensione del sistema, se il compito viene lasciato in sospeso il sistema rimane teso e la motivazione attiva. Le energie spese nell’eseguire un compito sembrano vane se questo non è concluso, per cui le persone tendono a voler completare le attività che intraprendono.

Secondo Lewin (1931) i conflitti sono di tre tipi:

    • conflitti appetitivi,
    • conflitti avversivi,
    • conflitti appetitivi-avversivi.

Il conflitto appetitivo si ha quando la persona ha una sola possibilità di scelta tra due situazioni che ugualmente la attirano e cioè a valenza positiva. Si determina così una situazione instabile e fluttuante fra le due soluzioni A e B. Quando il soggetto si avvicina mentalmente alla soluzione A di cui, inizialmente, vede solo i vantaggi comincia a vederne anche i lati negativi. Allora si sposta, mentalmente, sulla scelta B ma succede la stessa cosa di A. Inizialmente da lontano vede solo i van-taggi, poi man mano che si avvicina, comincia a intravedere anche gli aspetti negativi. Si tratta di un’oscillazione che si risolverà con la scelta di una delle due possibilità.

Il conflitto avversivo si realizza quando il soggetto deve scegliere fra due situazioni che non lo attraggono, quindi entrambe a valenza negativa. Perché il conflitto si realizzi ci deve essere una bar-riera di costrizione che obbliga a una delle due scelte, altrimenti il soggetto cercherà di evitare la si-tuazione. La soluzione di questo conflitto consiste nello scegliere la possibilità che appare meno ne-gativa.

Il conflitto appetitivo-avversivo (o conflitto di ambivalenza) si realizza quando la meta presenta aspetti positivi e negativi; in questo caso si creano delle tensioni e dei sotto-obiettivi sui quali si ba-serà la scelta di affrontare o non affrontare quel determinato compito od obiettivo. Questi piccoli sotto-obiettivi possono consentire di affrontare il compito con la giusta carica di energia. Inoltre essi permettono di alternare momenti di tensione e di distensione, impedendo di rimanere in uno stato iniziale di indecisione.

I conflitti si realizzano quando le mete presentano allo stesso tempo sia aspetti positivi sia a-spetti negativi. Gli aspetti positivi tendono a creare una motivazione e danno luogo a dei gradienti di avvicinamento, mentre quelli negativi tendono a demotivare e costituiscono dei gradienti di evi-tamento. A grande distanza dalla meta il soggetto vede soprattutto gli aspetti positivi, per cui tende ad avvicinarsi. Quando è abbastanza vicino comincia a vedere anche gli aspetti negativi. A questo punto ha un tentennamento. Se il soggetto si avvicinerà ulteriormente vedrà sempre più gli aspetti negativi, se si allontana tornerà a percepire gli aspetti positivi. Si può osservare che il gradiente di avvicinamento cresce lentamente, ma è presente già da molto lontano; il gradiente di evitamento in-vece cresce molto in fretta, ma appare solo quando il soggetto è già molto vicino alla meta. La solu-zione di un conflitto di questo tipo consiste nel trovare un equilibrio mentale per cui vengono sop-pesate tutte le condizioni sia positive sia negative in modo che l’aspetto dell’attrazione riesca a es-sere superiore a quello deterrente.

La teoria della motivazione di Lewin (1946) è quindi basata sull’idea di una scelta tra più pos-sibilità. La motivazione sembra derivare dal conflitto e la demotivazione dall’assenza di conflitto; tuttavia questa assenza di conflitto in realtà è solo teorica perché quando un conflitto si esaurisce se ne genera subito un altro. Il punto interessante è che la motivazione non è vista come un desiderio, ma come una sorta di tensione o di disagio.

1.7 LA TEORIA DI ATKINSON: TENDENZE MOTIVAZIONALI E SCELTE A RISCHIO

La teoria di Atkinson (1964) è una teoria motivazionale alla riuscita e riprende il concetto di conflitto introdotto da Lewin, aggiungendo una nuova componente che è quella emotiva. Scopo del-la motivazione alla riuscita è quello di misurare le proprie abilità attraverso il raggiungimento del successo in attività valutate come importanti. Secondo Atkinson la motivazione alla riuscita dipende da due componenti o tendenze motivazionali contrapposte, speculari e potenzialmente conflittuali:

    • una tendenza al successo, che porta a voler affrontare i compiti e quindi alla motivazio-ne;
    • una motivazione a evitare il fallimento, che porta a un atteggiamento di ritiro nei con-fronti delle situazioni, al disinteresse e alla demotivazione.

La tendenza al successo porta a scegliere compiti di media difficoltà, in genere leggermente più difficili rispetto a quelli affrontati in precedenza e in cui le possibilità di successo sono realistica-mente piuttosto alte. Emozioni tipiche sono la fiducia nella riuscita, il desiderio di affrontare il compito, la soddisfazione e l’orgoglio, anche anticipati, per il successo. L’atteggiamento verso il compito è positivo e si caratterizza per la focalizzazione dell’attenzione, la ricerca di adeguate strategie di soluzione, l’impressione di farcela, la persistenza di fronte alle difficoltà. Una volta rag-giunto il successo la tendenza è quella di attribuire la riuscita al proprio impegno e di valutare il compito come facile.

La motivazione a evitare il fallimento porta invece ad affrontare compiti molto facili oppure compiti estremamente difficili, la cui riuscita è molto improbabile, ma che permettono comunque di attribuire il fallimento a cause diverse dalla mancanza di abilità o di impegno, quali la difficoltà del compito, la sfortuna, l’assenza di aiuto. L’emozione tipica che accompagna la tendenza a evitare l’insuccesso è la vergogna anticipata, dovuta al fatto di sentirsi inadeguati rispetto agli altri o rispet-to a come ci si aspettava di essere e alla sensazione di non avere la capacità per farcela. Prima di af-frontare il compito il soggetto appare apatico e rasseganto, durante l’esecuzione del compito è spes-so ansioso. Dal punto di vista cognitivo, alla percezione di non possedere le abilità necessarie per affrontare il compito, che è presente prima dell’esecuzione, si accompagnano, durante il compito, confusione e sentimenti di incapacità che possono giungere a configurarsi anche come impotenza appresa, cioè incapacità di sentire il controllo personale della situazione.

Nelle circostanze concrete le persone stimano le probabilità di successo e quindi la difficol-tà/facilità del compito nonché la previsione di uno scenario di riuscita o fallimento in cui vengono anticipate le emozioni di orgoglio o di vergogna. Nel fare ciò gli individui fanno riferimento alle esperienze passate, alla conoscenza del compito, delle situazioni, alla storia personale di successi e fallimenti.

Per meglio spiegare le modalità di scelta di una persona che deve decidere se affrontare o ab-bandonare un compito e che è spinta da due opposte tendenze al successo o all’evitamento, Atkin-son ha proposto un modello definito delle scelte a rischio. Secondo tale modello l’individuo consi-dera, in base alla stima della difficoltà del compito, le probabilità di successo e l’incentivo:

    • se la probabilità di successo è alta perché il compito viene valutato come facile, l’orgoglio anticipato (cioè l’incentivo) per la riuscita sarà basso. Le emozioni provate per la risoluzione di compiti semplici non sono molto forti,
    • al contrario se la probabilità di successo è stimata come molto bassa e il compito come molto difficile, l’incentivo (cioè l’emozione anticipata di orgoglio) sarà alta. La soddi-sfazione provata per la risoluzione di un compito difficoltoso è infatti grande.

La situazione ottimale è quindi quella che si realizza quando c’è un giusto incrocio fra le di-mensioni incentivo al successo e probabilità di successo; ciò avviene in corrispondenza di compiti di difficoltà media o leggermente superiore alla media. Gli individui sono tendenzialmente poco motivati ad affrontare compiti facili che spesso appaiono anche noiosi e ripetitivi, molto motivati verso compiti di media-alta difficoltà, di nuovo poco motivati per compiti che appaiono troppo im-pegnativi.

Se l’individuo affronta un compito valutato come difficile e fallisce, rischia un’emozione nega-tiva. Le emozioni negative provate di fronte al fallimento tendono a far abbassare le aspettative fu-ture di riuscita e le autopercezioni di abilità. Questa situazione può incidere sulle successive stime di difficoltà del compito e quindi sulla scelta dello stesso. Infatti quando un soggetto riesce in un compito tende a scegliere, la volta successiva, un livello di difficoltà leggermente superiore perché acquista maggiore fiducia in sé stesso. Se invece fallisce tende a mantenere uguali o addirittura ad abbassare le proprie aspettative e quindi la scelta del livello di difficoltà del compito in situazioni successive.

Gli individui sono spinti a scegliere compiti di un livello di difficoltà che consenta loro di otte-nere un successo; questo implica che il giudizio per cui una data prestazione costituisce un successo o un insuccesso è soggettivo in quanto legato alla fiducia in sé, alla stima delle proprie capacità e alle aspettative del singolo. La decisione di confrontarsi con un determinato compito viene comun-que presa non solo in base alle spinte motivazionali, ma anche in relazione al grado di attrazione dell’obiettivo, che può più o meno collimare con gli scopi e i valori dell’individuo, alle riflessioni fatte di fronte ai precedenti successi e insuccessi, alle attribuzioni formulate in situazioni analoghe.

1.8 LA TEORIA DELL’ATTRIBUZIONE

Le attribuzioni possono essere definite come le percezioni che gli individui hanno circa le cause degli eventi che accadono a sé stessi (autoattribuzioni) e agli altri (eteroattribuzioni). Il processo at-tributivo consiste quindi nel considerare un risultato proprio o altrui e poi, sulla base di informazio-ni possedute, di esperienze passate e di altri fattori individuali, attribuire quel risultato a una o più cause particolari, ad es. all’impegno, all’abilità personale, alla facilità/difficoltà del compito. Le at-tribuzioni possono quindi essere considerate come il risultato di decisioni che l’individuo mette in atto per capire chi o cosa è responsabile degli eventi che accadono. Il processo attributivo emerge dal bisogno di comprendere il mondo e le sue regole.

Jones e Nisbett (1972) hanno descritto il fenomeno definito come errore fondamentale di attri-buzione (o bias edonico) secondo il quale è tendenza comune, per le autoattribuzioni, quella di sce-gliere cause di tipo interno per il successo e cause di tipo esterno per il fallimento, mentre per le ete-roattribuzioni la tendenza è quella di scegliere cause di tipo interno per fallimento e cause di tipo e-sterno per il successo. Ciò significa che siamo più portati a pensare di riuscire perché siamo bravi o perché ci siamo impegnati e di non riuscire perché siamo sfortunati o il compito è difficile o nessu-no ci aiuta. Analogamente pensiamo che gli altri riescano perché il compito è facile o sono fortunati o vengono aiutati e non riescano perché non si impegnano o perché non sono bravi. Formulare delle attribuzioni serve non soltanto a spiegare il proprio comportamento, ma anche a giustificarlo.

Inoltre è opportuno considerare la prospettiva in cui viene fatto il ragionamento causale. Se va-lutiamo il nostro comportamento la prospettiva è quella di attore, se valutiamo l’altrui comporta-mento la prospettiva è quella di osservatore. Per l’attore l’elemento saliente è la persona; l’attore tende quindi a difendere sé stesso ricercando cause interne per i successi e adducendo cause esterne per giustificare gli insuccessi. Per l’osservatore invece l’elemento saliente è la situazione; la tendenza per l’osservatore sarà quella di formulare attribuzioni legate alla situazione per i successi e legate alla persona osservata per gli insuccessi. L’errore fondamentale di attribuzione può essere ridotto o annullato dall’empatia (Regan e Totten, 1975), mentre può risultare ampliato per effetto dei condi-zionamenti culturali e di stereotipi.

Una prospettiva più completa che esamina nel dettaglio le attribuzioni interne è quella proposta da Weiner (1985) secondo la quale le attribuzioni possono essere distine in base a tre dimensioni:

 

    • locus of control; parametro per cui è possibile distinguere fra cause interne o esterne alla persona;
    • stabilità; parametro per cui le cause, indipendentemente dal locus of control, possono essere tendenzialmente stabili nel tempo e nelle differenti situazioni oppure instabili e variabili a seconda dei contesti;
    • controllabilità; parametro per cui si possono distinguere cause più o meno direttamente controllabili dal soggetto.

 

Un’ulteriore dimensione di analisi delle attribuzioni in aggiunta alle tre di Weiner è quella pro-posta da Abramson, Seligman e Teasdale (1978) che distingue fra attribuzioni globali e attribuzioni specifiche. Le prime riguardano la generalità di possibili situazioni, le seconde sono relative a una sola specifica situazione.

La tendenza al successo, intesa come forma di motivazione, veniva spiegata da Atkinson come l’effetto di una emozione anticipata di orgoglio, interpretata come una forza interiore, simile a un istinto. Secondo Weiner (1979), invece, la motivazione al successo sarebbe una disposizione cogni-tiva, non affettiva. La tendenza a impegnarsi/non impegnarsi dipenderebbe dalle convinzioni del soggetto circa le possibili cause del successo/insuccesso. La motivazione deriverebbe, quindi, dalle attribuzioni formulate in precedenti situazioni di successo o di fallimento. Atkinson sottolinea l’aspetto emotivo: se il soggetto anticipa il successo e la riuscita prova un’emozione di orgoglio o di soddisfazione, se anticipa il fallimento prova vergogna. Weiner, invece, pone l’accento sugli a-spetti cognitivi e, in particolare, sulle interpretazioni date ai precedenti successi e insuccessi. La capacità di provare orgoglio nella realizzazione è sostituita con la capacità di percepire il successo come causato da fattori interni. La tendenza al successo si caratterizza quindi per l’attribuzione del successo a una combinazione di abilità e impegno e l’attribuzione dell’insuccesso alla mancanza di impegno. La motivazione a evitare il fallimento si contraddistingue, invece, per l’attribuzione del successo a fattori esterni e dell’insuccesso a mancanza di abilità. Secondo la teoria attributiva, quindi, la motivazione non deriva dalle emozioni anticipate, ma dai normali processi di riflessio-ne sulle cause dei propri successi e insuccessi.

Caratteristica della tendenza al successo è l’attribuzione del successo all’impegno e alle buone capacità personali (cause interne) e dell’insuccesso a un impegno insufficiente o inadeguato o a particolari elementi non prevedibili. A questo si accompagna un sistema autovalutativo positivo ca-ratterizzato dalla sensazione di avere incontrato molte situazioni di successo e pochi fallimenti, que-sti ultimi funzionalmente interpretati come indicatori della necessità di impegnarsi di più o in ma-niera più efficace.

La motivazione a evitare il fallimento porta, invece, ad attribuire il successo a fattori esterni e non controllabili quali la facilità del compito, la fortuna e l’aiuto e l’insuccesso alla mancanza di abilità. Il sistema autovalutativo associato si caratterizza per un bilancio negativo in cui vengono sovrastimati i fallimenti e poco riconosciute le situazioni di successo, spesso interpretate come frutto di elementi legati alla situazione e non come esito del proprio impegno e dimostrazione delle pro-prie abilità. La prevalenza dell’una o dell’altra motivazione (tendenza al successo o motivazione a evitare il fallimento) dipenderebbe quindi, secondo la teoria attributiva, dalle spiegazioni date dall’individuo rispetto ai precedenti successi e insuccessi.

In sintesi secondo la teoria di Atkinson le persone sono motivate ad apprendere dal bisogno di riuscita. Tale bisogno, per essere soddisfatto, richiede che vengano affrontate situazioni di diffi-coltà adeguata al proprio livello di abilità, cosicché vi siano buone possibilità di successo. Ciò comporta delle valutazioni sul livello di difficoltà del compito e sulla stima di successo che tenga-no conto anche delle interpretazioni che il soggetto ha dato ai precedenti successi e insuccessi, cioè delle attribuzioni causali.

Attribuire a una causa anziché a un’altra episodi di successo/insuccesso a cui andiamo incon-tro riveste una notevole importanza sulle nostre successive decisioni relative alle attività da intra-prendere e agli obiettivi di apprendimento da perseguire, in particolar modo all’interno di un contesto sociale dove c’è un’interazione continua con altri individui.

Quando gli individui devono confrontarsi con gli altri per quanto riguarda sia le proprie pre-stazioni sia l’apprendimento che ne deriva, si parla di situazioni di collaborazione o di conflitto.

 

© Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: sviluppi recenti  – Fabrizio Manini

 

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