Modelli teorici di assenteismo e presentismo

Modelli teorici di assenteismo e presentismo

 

1. Il modello di Gary Johns (2010)

Johns (2010) elabora  un modello dinamico che tenta di mettere in luce gli aspetti che interagiscono sull’assenteismo e sul presentismo. La Figura 1 rappresenta il modello di Gary Johns (2010).

Figura 1. Fonte: Johns (2010)

Presupponendo una presenza lavorativa regolare, il modello fa entrare in campo un problema di salute, distinto in “acuto” (influenza), “episodico” (emicrania) o “cronico” (attacco di diabete) (Johns, 2010). La caratteristica del problema di salute determina il presentismo o l’assenteismo: per esempio, una forte influenza può determinare l’assenza dal lavoro, mentre i primi sintomi del diabete possono portare alla presenza del lavoratore.

Quando il problema di salute non è grave entra in gioco il fattore “contesto”: Nicholson (1977), a questo proposito, suggerisce un esempio molto esplicativo. Il mal di gola porterebbe un cantante all’assenteismo e un pianista al presentismo. In questo caso, quindi, il contesto è rappresentato dal tipo di lavoro svolto e influenza la decisione finale della persona.

Anche le caratteristiche personali influiscono sulla decisione tra assenteismo e presentismo. Se l’individuo sa di poter essere facilmente sostituito, saranno più probabili comportamenti assenteisti, mentre un’insicurezza lavorativa unita a politiche restrittive di presenza, lavoro in team e clienti dipendenti, fanno prevalere la scelta presentista (Johns, 2010). Il ruolo delle caratteristiche personali nella scelta è ancora poco esplorato dai ricercatori. Ci si potrebbe aspettare che un atteggiamento positivo verso il lavoro e una buona giustizia percepita favoriscano comportamenti presentisti, e che, al contrario, persone stressate, con un locus of control esterno e un’inclinazione alle assenze abbiano più facilmente comportamenti assenteisti (Johns, 2010). Il modello di Johns (2010) non prevede una vera e propria sequenza temporale dell’assenteismo e del presentismo ma si limita a mostrare quale sarebbero le possibili conseguenze nella scelta tra i due comportamenti: l’assenteismo può portare a un recupero (in termini di salute) dell’individuo, con conseguente ripresa della partecipazione impegnata e produttiva al lavoro; il presentismo può invece aggravare il problema di salute, portando l’individuo all’assenteismo. Ovviamente servono ulteriori ricerche che possano dimostrare questo collegamento.

Sia assenteismo sia presentismo hanno un forte impatto sulla produttività individuale, anche se al momento ci sono molte più ricerche sul primo fenomeno. Un individuo che opera in un’organizzazione con politiche restrittive sull’assenteismo sarà portato a recarsi al lavoro anche se malato, sentendosi obbligato e guidato da un sentimento di iniquità: la produttività individuale sarà minore rispetto a una persona con lo stesso problema di salute, ma con un’alta percezione di equità (Johns, 2010).

Un altro aspetto molto importante è l’interpretazione che danno i colleghi di lavoro e l’individuo stesso all’assenteismo e al presentismo (Johns, 2010). In uno studio, Johns (1994) osserva che l’assenteismo è considerato un comportamento leggermente deviante, anche se è visione comune che la malattia è una ragione legittima per le assenze (Johns & Xie, 1998). Per il presentismo le concezioni sono diverse: stare al lavoro nonostante la malattia indica un comportamento in linea con la cittadinanza organizzativa (Harvey & Nicholson, 1999), anche se le persone fanno fatica ad ammettere la diminuzione della produttività in questo caso (Johns, 1999).

Infine, avere comportamenti presentisti o assenteisti influisce anche sulla salute e sull’atteggiamento dell’individuo. Nel primo caso, avere comportamenti sempre presentisti può danneggiare la salute della persona, creando un circolo vizioso in cui si abbassa la produttività, aumenta l’assenteismo e la possibilità di disabilità (Johns, 2010). Nel secondo caso, dipendenti insicuri o insoddisfatti, sentendosi obbligati ad essere presenti anche quando non sono in salute, avranno una diminuzione della produttività e cederanno alle assenze (Johns, 2010).

2. Lo studio di Gosselin, Lemyre e Corneil (2013)

Le ricerche che hanno indagato il presentismo si sono concentrate sulla definizione del fenomeno e sui suoi determinanti: questo ha reso sempre più evidente la necessità di studiare il presentismo non in modo isolato ma correlato all’assenteismo. Si sono perciò susseguiti modelli comuni a presentismo e assenteismo, come quello di Johns (2010), che ne riflette le variabili intervenienti raggruppandole in antecedenti, conseguenze e moderatori che possono entrare in gioco.

Dal momento che non sono ancora chiare le cause che portino l’individuo malato a scegliere di rimanere a casa o di presentarsi al lavoro, Gosselin, Lemyre e Corneil (2013) conducono uno studio il cui scopo è quello di capire il legame dei problemi di salute, dei fattori individuali e organizzativi e degli indicatori demografici con il ricorso a comportamenti assenteisti o presentisti (nella Figura 2 il modello teorico).

Figura 2. Fonte: Gosselin, Lemyre e Corneil (2013)

La ricerca di Gosselin e colleghi (2013) ha coinvolto 3670 dirigenti nel servizio pubblico canadese. I risultati confermano la validità del modello di Johns (2010). È stato avvalorato il diverso impatto dei problemi di salute specifici sulla decisione assenteista o presentista. Come indicato anche da Johns (2010), alcune condizioni fisiche predispongono l’individuo verso il presentismo, altre verso l’assenteismo. Chi soffriva di allergie o di gastrite tendeva a recarsi ugualmente al lavoro, effetto diverso avevano invece problemi emozionali o legati a variazioni nella pressione sanguigna. Questo risultato può essere interpretato tenendo conto dell’impatto del processo decisionale e della valutazione che l’individuo può fare dell’eventuale presenza (evitabile o preferibile) (Gosselin et al., 2013), dal momento che il presentismo peggiora la salute (Demerouti et al, 2009) e spesso conduce all’assenteismo (Bergstrom et al., 2009).

Altro risultato riguarda l’effetto delle caratteristiche demografiche nella relazione con l’assenteismo e il presentismo: considerando che il campione include solo una categoria professionale, sono stati confermati i risultati ottenuti da Aronsson e colleghi (2000). Fatta eccezione per l’età, che correla positivamente con il comportamento presentista (Johns, 2011), le altre caratteristiche demografiche non incidono in nessuno dei due esiti.

Per quanto riguarda i fattori organizzativi, lo studio ha rivelato che alcuni elementi possono agire sia sui comportamenti presentisti sia su quelli assenteisti (Gosselin et al., 2013). In particolare dai risultati è emerso che avere molte responsabilità e uno scarso supporto da parte dei colleghi può contribuire al presentismo; le ore lavorate e l’importanza delle responsabilità individuali per l’organizzazione sembrano diminuire l’assenteismo (Gosselin et al., 2013).

I fattori individuali, invece, tendono a influenzare prevalentemente il presentismo. I risultati hanno mostrato che i partecipanti che soffrivano maggiormente di stress mostravano anche più comportamenti presentisti quando erano malati (Gosselin et al., 2013). L’interpretazione di Gosselin e colleghi (2013) risiede nell’effetto pressante dello stress sul presentismo, che però porta l’individuo ad essere più soggetto ad ammalarsi (poiché trascura il suo stato di salute).

Gosselin e colleghi (2013) dimostrano inoltre la correlazione significativa tra assenteismo e presentismo, come indicato anche dallo studio di Johns (2010). Considerando che questo studio ha rimarcato anche la similarità degli antecedenti di assenteismo e presentismo, gli autori suggeriscono di studiarli in parallelo per capire meglio anche la diversità degli esiti.

© Conflitto Lavoro Famiglia, Assenteismo e presentismo: il ruolo delle risorse lavorative – Mariarosaria Campitelli

Conflitto Lavoro Famiglia: i correlati del presentismo

Conflitto Lavoro Famiglia: i correlati del presentismo

Nella sua review, Jonhs (2010) esamina a fondo il concetto del presentismo e ne divide i correlati in politiche organizzative, caratteristiche del lavoro e cultura.

Nelle politiche organizzative sono comprese:

– Lo stipendio;
– La paga in caso di malattia;
– Il controllo della presenza;
– La scarsità di personale in azienda;
– La stabilità del lavoro.

Per quanto riguarda i primi tre punti, la ricerca di Aronsson et al., (2000) ha mostrato come i lavoratori che percepivano un salario basso rispetto ai colleghi avevano livelli di presentismo più alti, anche se questo risultato non è stato confermato nello studio di Hansen & Andersen (2008). Tuttavia alcuni risultati suggeriscono che i lavoratori con problemi nei pagamenti delle spese domestiche mostrano comportamenti presentisti in misura maggiore rispetto ai colleghi (Aronsson and Gustafsson, 2005).

Come individuato da Johns (2010), i sistemi di controllo della presenza possono influenzare il presentismo dei lavoratori. Ma non solo: se l’organizzazione non garantisce la paga nei giorni di assenza i lavoratori saranno più motivati ad essere presenti anche in caso di malattia. In linea con queste affermazioni si può citare lo studio di Lovell (2004), il quale sostiene che la mancanza di congedi retribuiti per malattia generano meno assenze e incoraggiano il presentismo. Spesso la questione retribuzione è affrontata dalle aziende attraverso alcune strategie: una di queste è la definizione dei trigger points, ossia dei punti limite di assenze oltre i quali scattano “provvedimenti disciplinari” nei confronti dei lavoratori (Johns, 2010). Alcune politiche progettate per ridurre l’assenteismo potrebbero però stimolare la presenza quando si è malati e questo è annoverabile come uno degli svantaggi di questi meccanismi organizzativi (Johns, 2010). Il lavoratore può infatti provare ansia tendendo a tornare a lavoro anche quando non è ancora in buona salute per evitare di incorrere nel provvedimento disciplinare (Johns, 2010).

Il downsizing, è un’altra politica organizzativa influente nel comportamento lavorativo degli individui (Johns, 2010). La paura di perdere il lavoro, la competizione interna per raggiungere benefici aziendali o anche l’aumento del carico di lavoro possono aumentare la presenza dei lavoratori, una parte dei quali rientra sicuramente nella categoria dei presentisti (Simpson, 1998).

Ultimo punto interno alle politiche organizzative è la stabilità del posto di lavoro. Le ricerche su questa tematica riportano risultati contrastanti: da un lato Aronsson e colleghi (2000) trovano che i lavoratori stabili sono più inclini dei lavoratori a tempo determinato a lavorare mentre sono malati, mentre non sono state riscontrate differenze nei livelli di presenza da Aronsson and Gustafsson (2005) e da Hansen e Andersen (2008).

La seconda macro-area che Johns (2010) include nei correlati del presentismo coinvolge le caratteristiche del lavoro e quindi dimensioni come:

– le richieste (demand) lavorative;
– la libertà di adattamento;
– la facilità di sostituzione;
– il lavoro in team.

Le demand lavorative sono caratteristiche del lavoro che comportano uno sforzo fisico e mentale all’individuo. Se le demand lavorative sono molto alte, il lavoratore sarà incline ad andare a lavoro anche se malato per mantenere alti livelli di performance (Demerouti, Le Blanc, Bakker, Schaufeli & Hox, 2009).

La libertà di adattamento è l’opportunità per il lavoratore malato di controllare il proprio ritmo di lavoro: se non c’è controllo in questo aspetto, gli studi di Aronsson e Gustafsson (2005) rivelano un aumento del presentismo. Questi autori sostengono anche che un carico di lavoro pesante, la pressione temporale e la mancanza di assistenza possono insieme portare a manifestazioni di presentismo.

Sull’influenza del lavoro in team nell’ambito del presentismo, Grinyer e Singleton (2000) hanno condotto uno studio i cui risultati sostengono che il team-work può scoraggiare leassenze per malattia, in quanto i membri si sentono in obbligo verso il proprio gruppo di essere sempre presenti.

L’ultimo correlato messo in evidenza da Johns (2010) si riferisce alla cultura del presentismo. Aronsson e colleghi (2000) hanno scoperto che i lavori nel campo della cura, dell’aiuto e dell’educazione primaria sono più inclini al presentismo: questi risultati riflettono una cultura della lealtà e dell’impegno verso chi ha più bisogno di aiuto (pazienti e bambini) (Johns, 2010). Anche l’identità professionale gioca un ruolo importante nel definire i livelli di presentismo: in uno studio condotto in un ospedale privato in Nuova Zelanda la cultura vigente promuoveva il presentismo ma tra i lavoratori c’era anche un grande lavoro di squadra e un senso di lealtà reciproco. Questi due fattori fungevano da agenti motivanti a dispetto dello stress e della malattia (Dew, Keefe, & Small, 2005). Un altro studio ha invece coinvolto alcuni manager britannici, la cui organizzazione era in fase downsizing (Simpson, 1998).

L’autore ha evidenziato gli effetti di una cultura competitiva sugli individui (Simpson, 1998), in cui il presentismo tendeva ad essere un atteggiamento maggiormente diffuso tra i manager di genere maschile, anche se il fenomeno era più facilmente riconoscibile tra le donne.

Ricapitolando quanto detto finora, il presentismo di un lavoratore può avere ripercussioni negative per un’organizzazione, dalla bassa produttività alle inclinazioni agli errori e al probabile “contagio” degli altri colleghi. Questo fenomeno può però avere conseguenze spiacevoli anche per la salute del lavoratore stesso, come indagato dagli autori Bergstrom, Bodin, Hagberg, Lindh, Aronsson e Josephson (2009), nello cui studio hanno scoperto che il presentismo è un fattore di rischio indipendente per una salute cagionevole.

© Conflitto Lavoro Famiglia, Assenteismo e presentismo: il ruolo delle risorse lavorative – Mariarosaria Campitelli

 

Conflitto Lavoro Famiglia: Il presentismo

Conflitto Lavoro Famiglia: Il presentismo

Recentemente è diventato oggetto di interesse della letteratura scientifica un altro fenomeno, il presentismo, che generalmente è definito con il recarsi al lavoro quando si è malati (Aronsson, Gustafsson, & Dallner, 2000). 

L’interesse per questa tematica nasce da studiosi appartenenti a due linee geografiche e tematiche, quella europea e quella americana. La prima sostiene che il presentismo sia una conseguenza della precarietà o comunque delle caratteristiche del lavoro, mentre la seconda riflette più sulle ripercussioni di questa problematica sulla produttività  (Johns, 2010). 

Anche se negli ultimi anni è stato riscontrato un aumento dei fenomeni di presentismo nelle organizzazioni, solo recentemente questa tematica è stata considerata nella valutazione dell’efficienza delle performance dei lavoratori (Gosselin, Lemyre, & Corneil, 2013).

L’idea della maggior parte degli studiosi è che il presentismo possa causare alle organizzazioni molta più perdita di produttività dell’assenteismo e che la gestione di questo problema possa costituire un vantaggio nella competizione con il mercato esterno (Hemp, 2004). 

Il termine “presentismo” è stato usato per la prima volta nel 1892 in un libro umoristico di Mark Twain (Johns, 2010). Dopo alcuni anni si sono evolute diverse definizioni, alcune che sottolineano il lato positivo del fenomeno, proponendolo come l’opposto dell’assenteismo (Smith, 1970); altri hanno messo in luce la parte ossessiva del presentismo, indicando tutte le persone che sceglievano un lavoro full-time invece che part-time (Sheridan, 2004); altri ancora l’hanno collegato alla scarsa produttività (Whitehouse, 2005).  In queste definizioni non sono elencate le cause che spingono le persone a recarsi al lavoro sebbene abbiano problemi di salute (Johns, 2010). Secondo l’”ipotesi della sostituzione” (Caverley, Cunningham & MacGregor, 2007), ogni fattore che vincoli l’assenza può stimolare il presentismo

I correlati del presentismo

Nella sua review, Jonhs (2010) esamina a fondo il concetto del presentismo e ne divide i correlati in politiche organizzative, caratteristiche del lavoro e cultura. 

Nelle politiche organizzative sono comprese:

  • Lo stipendio;
  • La paga in caso di malattia;
  • Il controllo della presenza;
  • La scarsità di personale in azienda;
  • La stabilità del lavoro. 

Per quanto riguarda i primi tre punti, la ricerca di Aronsson et al., (2000) ha mostrato come i lavoratori che percepivano un salario basso rispetto ai colleghi avevano livelli di presentismo più alti, anche se questo risultato non è stato confermato nello studio di Hansen & Andersen (2008). Tuttavia alcuni risultati suggeriscono che i lavoratori con problemi nei pagamenti delle spese domestiche mostrano comportamenti presentisti in misura maggiore rispetto ai colleghi (Aronsson and Gustafsson, 2005).

Come individuato da Johns (2010), i sistemi di controllo della presenza possono influenzare il presentismo dei lavoratori. Ma non solo: se l’organizzazione non garantisce la paga nei giorni di assenza i lavoratori saranno più motivati ad essere presenti anche in caso di malattia. In linea con queste affermazioni si può citare lo studio di Lovell (2004), il quale sostiene che la mancanza di congedi retribuiti per malattia generano meno assenze e incoraggiano il presentismo. Spesso la questione retribuzione è affrontata dalle aziende attraverso alcune strategie: una di queste è la definizione dei trigger points, ossia dei punti limite di assenze oltre i quali scattano “provvedimenti disciplinari” nei confronti dei lavoratori (Johns, 2010). Alcune politiche progettate per ridurre l’assenteismo potrebbero però stimolare la presenza quando si è malati e questo è annoverabile come uno degli svantaggi di questi meccanismi organizzativi (Johns, 2010). Il lavoratore può infatti provare ansia tendendo a tornare a lavoro anche quando non è ancora in buona salute per evitare di incorrere nel provvedimento disciplinare (Johns, 2010).

Il downsizing, è un’altra politica organizzativa influente nel comportamento lavorativo degli individui (Johns, 2010). La paura di perdere il lavoro, la competizione interna per raggiungere benefici aziendali o anche l’aumento del carico di lavoro possono aumentare la presenza dei lavoratori, una parte dei quali rientra sicuramente nella categoria dei presentisti (Simpson, 1998). 

Ultimo punto interno alle politiche organizzative è la stabilità del posto di lavoro. Le ricerche su questa tematica riportano risultati contrastanti: da un lato Aronsson e colleghi (2000) trovano che i lavoratori stabili sono più inclini dei lavoratori a tempo determinato a lavorare mentre sono malati, mentre non sono state riscontrate differenze nei livelli di presenza da Aronsson and Gustafsson (2005) e da Hansen e Andersen (2008). 

 

La seconda macro-area che Johns (2010) include nei correlati del presentismo coinvolge le caratteristiche del lavoro e quindi dimensioni come:

  • le richieste (demand) lavorative;
  • la libertà di adattamento;
  • la facilità di sostituzione;
  • il lavoro in team. 

Le demand lavorative sono caratteristiche del lavoro che comportano uno sforzo fisico e mentale all’individuo. Se le demand lavorative sono molto alte, il lavoratore sarà incline ad andare a lavoro anche se malato per mantenere alti livelli di performance (Demerouti, Le Blanc, Bakker, Schaufeli & Hox, 2009). 

La libertà di adattamento è l’opportunità per il lavoratore malato di controllare il proprio ritmo di lavoro: se non c’è controllo in questo aspetto, gli studi di Aronsson e Gustafsson (2005) rivelano un aumento del presentismo. Questi autori sostengono anche che un carico di lavoro pesante, la pressione temporale e la mancanza di assistenza possono insieme portare a manifestazioni di presentismo.

Sull’influenza del lavoro in team nell’ambito del presentismo, Grinyer e Singleton (2000) hanno condotto uno studio i cui risultati sostengono che il team-work può scoraggiare le assenze per malattia, in quanto i membri si sentono in obbligo verso il proprio gruppo di essere sempre presenti.

L’ultimo correlato messo in evidenza da Johns (2010) si riferisce alla cultura del presentismo. Aronsson e colleghi (2000) hanno scoperto che i lavori nel campo della cura, dell’aiuto e dell’educazione primaria sono più inclini al presentismo: questi risultati riflettono una cultura della lealtà e dell’impegno verso chi ha più bisogno di aiuto (pazienti e bambini) (Johns, 2010). Anche l’identità professionale gioca un ruolo importante nel definire i livelli di presentismo: in uno studio condotto in un ospedale privato in Nuova Zelanda la cultura vigente promuoveva il presentismo ma tra i lavoratori c’era anche un grande lavoro di squadra e un senso di lealtà reciproco. Questi due fattori fungevano da agenti motivanti a dispetto dello stress e della malattia (Dew, Keefe, & Small, 2005). Un altro studio ha invece coinvolto alcuni manager britannici, la cui organizzazione era in fase downsizing (Simpson, 1998).

L’autore ha evidenziato gli effetti di una cultura competitiva sugli individui (Simpson, 1998), in cui il presentismo tendeva ad essere un atteggiamento maggiormente diffuso tra i manager di genere maschile, anche se il fenomeno era più facilmente riconoscibile tra le donne. 

Ricapitolando quanto detto finora, il presentismo di un lavoratore può avere ripercussioni negative per un’organizzazione, dalla bassa produttività alle inclinazioni agli errori e al probabile “contagio” degli altri colleghi. Questo fenomeno può però avere conseguenze spiacevoli anche per la salute del lavoratore stesso, come indagato dagli autori Bergstrom, Bodin, Hagberg, Lindh, Aronsson e Josephson (2009), nello cui studio hanno scoperto che il presentismo è un fattore di rischio indipendente per una salute cagionevole.

 

 

 

©  – Conflitto Lavoro Famiglia, Assenteismo e presentismo: il ruolo delle risorse lavorative – Mariarosaria Campitelli

 

 

 

Conflitto Lavoro Famiglia: Il presentismo

Conflitto Lavoro Famiglia: Il presentismo

Recentemente è diventato oggetto di interesse della letteratura scientifica un altro fenomeno, il presentismo, che generalmente è definito con il recarsi al lavoro quando si è malati (Aronsson, Gustafsson, & Dallner, 2000).

L’interesse per questa tematica nasce da studiosi appartenenti a due linee geografiche e tematiche, quella europea e quella americana. La prima sostiene che il presentismo sia una conseguenza della precarietà o comunque delle caratteristiche del lavoro, mentre la seconda riflette più sulle ripercussioni di questa problematica sulla produttività  (Johns, 2010).

Anche se negli ultimi anni è stato riscontrato un aumento dei fenomeni di presentismo nelle organizzazioni, solo recentemente questa tematica è stata considerata nella valutazione dell’efficienza delle performance dei lavoratori (Gosselin, Lemyre, & Corneil, 2013).

L’idea della maggior parte degli studiosi è che il presentismo possa causare alle organizzazioni molta più perdita di produttività dell’assenteismo e che la gestione di questo problema possa costituire un vantaggio nellacompetizione con il mercato esterno (Hemp, 2004).

Il termine “presentismo” è stato usato per la prima volta nel 1892 in un libro umoristico di Mark Twain (Johns, 2010). Dopo alcuni anni si sono evolute diverse definizioni, alcune che sottolineano il lato positivo del fenomeno, proponendolo come l’opposto dell’assenteismo (Smith, 1970); altri hanno messo in luce la parte ossessiva del presentismo, indicando tutte le persone che sceglievano un lavoro full-time invece che part-time (Sheridan, 2004); altri ancora l’hanno collegato alla scarsa produttività (Whitehouse, 2005).  In queste definizioni non sono elencate le cause che spingono le persone a recarsi al lavoro sebbene abbiano problemi di salute (Johns, 2010). Secondo l’”ipotesi della sostituzione” (Caverley, Cunningham & MacGregor, 2007), ogni fattore che vincoli l’assenza può stimolare il presentismo.

I correlati del presentismo

Nella sua review, Jonhs (2010) esamina a fondo il concetto del presentismo e ne divide i correlati in politiche organizzative, caratteristiche del lavoro e cultura.

Nelle politiche organizzative sono comprese:

    • Lo stipendio;
    • La paga in caso di malattia;
    • Il controllo della presenza;
    • La scarsità di personale in azienda;
    • La stabilità del lavoro.

Per quanto riguarda i primi tre punti, la ricerca di Aronsson et al., (2000) ha mostrato come i lavoratori che percepivano un salario basso rispetto ai colleghi avevano livelli di presentismo più alti, anche se questo risultato non è stato confermato nello studio di Hansen & Andersen (2008). Tuttavia alcuni risultati suggeriscono che i lavoratori con problemi nei pagamenti delle spese domestiche mostrano comportamenti presentisti in misura maggiore rispetto ai colleghi (Aronsson and Gustafsson, 2005).

Come individuato da Johns (2010), i sistemi di controllo della presenza possono influenzare il presentismo dei lavoratori. Ma non solo: se l’organizzazione non garantisce la paga nei giorni di assenza i lavoratori saranno più motivati ad essere presenti anche in caso di malattia. In linea con queste affermazioni si può citare lo studio di Lovell (2004), il quale sostiene che la mancanza di congedi retribuiti per malattia generano meno assenze e incoraggiano il presentismo. Spesso la questione retribuzione è affrontata dalle aziende attraverso alcune strategie: una di queste è la definizione dei trigger points, ossia dei punti limite di assenze oltre i quali scattano “provvedimenti disciplinari” nei confronti dei lavoratori (Johns, 2010). Alcune politiche progettate per ridurre l’assenteismo potrebbero però stimolare la presenza quando si è malati e questo è annoverabile come uno degli svantaggi di questi meccanismi organizzativi (Johns, 2010). Il lavoratore può infatti provare ansia tendendo a tornare a lavoro anche quando non è ancora in buona salute per evitare di incorrere nel provvedimento disciplinare (Johns, 2010).

Il downsizing, è un’altra politica organizzativa influente nel comportamento lavorativo degli individui (Johns, 2010). La paura di perdere il lavoro, la competizione interna per raggiungere benefici aziendali o anche l’aumento del carico di lavoro possono aumentare la presenza dei lavoratori, una parte dei quali rientra sicuramente nella categoria dei presentisti (Simpson, 1998).

Ultimo punto interno alle politicheorganizzative è la stabilità del posto di lavoro. Le ricerche su questa tematica riportano risultati contrastanti: da un lato Aronsson e colleghi (2000) trovano che i lavoratori stabili sono più inclini dei lavoratori a tempo determinato a lavorare mentre sono malati, mentre non sono state riscontrate differenze nei livelli di presenza da Aronsson and Gustafsson (2005) e da Hansen e Andersen (2008).

La seconda macro-area che Johns (2010) include nei correlati del presentismo coinvolge le caratteristiche del lavoro e quindi dimensioni come:

    • le richieste (demand) lavorative;
    • la libertà di adattamento;
    • la facilità di sostituzione;
    • il lavoro in team.

Le demand lavorative sono caratteristiche del lavoro che comportano uno sforzo fisico e mentale all’individuo. Se le demand lavorative sono molto alte, il lavoratore sarà incline ad andare a lavoro anche se malato per mantenere alti livelli di performance (Demerouti, Le Blanc, Bakker, Schaufeli & Hox, 2009).

La libertà di adattamento è l’opportunità per il lavoratore malato di controllare il proprio ritmo di lavoro: se non c’è controllo in questo aspetto, gli studi di Aronsson e Gustafsson (2005) rivelano un aumento del presentismo. Questi autori sostengono anche che un carico di lavoro pesante, la pressione temporale e la mancanza di assistenza possono insieme portare a manifestazioni di presentismo.

Sull’influenza del lavoro in team nell’ambito del presentismo, Grinyer e Singleton (2000) hanno condotto uno studio i cui risultati sostengono che il team-work può scoraggiare le assenze per malattia, in quanto i membri si sentono in obbligo verso il proprio gruppo di essere sempre presenti.

L’ultimo correlato messo in evidenza da Johns (2010) si riferisce alla cultura del presentismo. Aronsson e colleghi (2000) hanno scoperto che i lavori nel campo della cura, dell’aiuto e dell’educazione primaria sono più inclini al presentismo: questi risultati riflettono una cultura della lealtà e dell’impegno verso chi ha più bisogno di aiuto (pazienti e bambini) (Johns, 2010). Anche l’identità professionale gioca un ruolo importante nel definire i livelli di presentismo: in uno studio condotto in un ospedale privato in Nuova Zelanda la cultura vigente promuoveva il presentismo ma tra i lavoratori c’era anche un grande lavoro di squadra e un senso di lealtà reciproco. Questi due fattori fungevano da agenti motivanti a dispetto dello stress e della malattia (Dew, Keefe, & Small, 2005). Un altro studio ha invece coinvolto alcuni manager britannici, la cui organizzazione era in fase downsizing (Simpson, 1998).

L’autore ha evidenziato gli effetti di una cultura competitiva sugli individui (Simpson, 1998), in cui il presentismo tendeva ad essere un atteggiamento maggiormente diffuso tra i manager di genere maschile, anche se il fenomeno era più facilmente riconoscibile tra le donne.

Ricapitolando quanto detto finora, il presentismo di un lavoratore può avere ripercussioni negative per un’organizzazione, dalla bassa produttività alle inclinazioni agli errori e al probabile “contagio” degli altri colleghi. Questo fenomeno può però avere conseguenze spiacevoli anche per la salute del lavoratore stesso, come indagato dagli autori Bergstrom, Bodin, Hagberg, Lindh, Aronsson e Josephson (2009), nello cui studio hanno scoperto che il presentismo è un fattore di rischio indipendente per una salute cagionevole.

©  Conflitto Lavoro Famiglia, Assenteismo e presentismo: il ruolo delle risorse lavorative – Mariarosaria Campitelli

Conflitto Lavoro Famiglia:Assenteismo definizione e tipologie

Assenteismo: definizione e tipologie

Con il termine “assenteismo” la letteratura scientifica indica l’assenza sistematica di una persona dal proprio posto di lavoro.

L’assenteismo è un problema diffuso e le organizzazioni temono molto sia i costi sia le ripercussioni di questo fenomeno. Alcuni studi evidenziano come le assenze portino a un’interruzione del processo lavorativo, diminuendo la produttività e aumentando il carico di lavoro per gli individui che rimangono nell’organizzazione (Ybema, Smulders, & Bongers, 2010). È stato visto come le assenze siano considerate gli indicatori del benessere e della salute delle persone (Ybema, et al., 2010): assenze frequenti possono indicare il bisogno del lavoratore di riprendersi dallo stress lavorativo, mentre assenze più lunghe possono suggerire un malessere che può essere o non essere causato dall’ambiente di lavoro.

La letteratura scientifica infatti distingue tra due misure di assenteismo, la durata e la frequenza, usate anche dalle organizzazioni per misurare questo fenomeno (Bakker, Demerouti, De Boer, & Schaufeli, 2003; Hensing, Alexanderson, Alleback, & Bjurulf, 1998).

La frequenza dell’assenteismo è il numero di volte in cui un individuo è stato assente dal lavoro in un determinato arco temporale (Demerouti, Bouwman & Sanz-Vergel, 2011): generalmente si associa alla volontarietà dell’assenza ed è un indicatore della motivazione del lavoratore (Bakker, et al., 2003; Schaufeli, Bakker, & van Rhenen, 2009). La malattia è considerata la causa principale delle assenze, anche se spesso i lavoratori adottano veri e propri comportamenti di evitamento del lavoro (De Paola, 2010). Per questo un’organizzazione che ha lo scopo di diminuire l’assenteismo deve saper discernere tra la sua natura volontaria e involontaria. Qual è la differenza?

L’assenteismo involontario nasce dai problemi di salute del lavoratore, che gli impediscono di svolgere al meglio la propria attività: spesso il contratto che l’individuo ha con la propria azienda gli garantisce un periodo di tempo per ristabilirsi, grazie alla comprensione e al supporto dell’organizzazione stessa (De Paola, 2010). Un’azienda però non può impiegare risorse economiche per accertarsi delle condizioni di salute di tutti i dipendenti in malattia, perciò può capitare che i lavoratori si approfittino di ciò per prendersi giorni liberi dal lavoro (De Paola, 2010). Questi comportamenti possono essere inseriti nell’assenteismo volontario. Autori come Steers e Rhodes (1978) sostengono che la volontarietà e l’involontarietà delle assenze si collochino lungo un continuum determinato dal grado di scelta del lavoratore. In alcuni casi infatti l’individuo sceglie liberamente di non recarsi al lavoro, in altri casi, come ad esempio in concomitanza di una malattia molto grave, è obbligato. Altri autori (Geurts, Buunk & Schaufeli, 1994) hanno riscontrato che talvolta i vincoli imposti dalla malattia influenzano la motivazione della persona a lavorare, trasformando così la componente involontaria delle assenze in volontaria. Questo fenomeno si riscontra soprattutto se la persona attribuisce al lavoro le cause della propria malattia (Geurts, et al., 1994).

La durata delle assenze invece è il tempo totale in cui una persona è stata assente dal lavoro in un determinato periodo ed è associata all’involontarietà dell’assenza (Demerouti et al., 2011). È stato visto come le assenze di maggior durata siano più facilmente attribuibili a una reale malattia rispetto alle assenze più brevi (Demerouti e colleghi, 2011).

Costa e Giannecchini (2009) hanno definito due profili di assenteismo: verticale, con assenze di breve durata ma molto frequenti e ad alta gravità, e orizzontale, con assenze più lunghe ma rade e di bassa gravità. Entrambi i profili hanno cause diverse ed è per questo che le organizzazioni devono comprenderle prima di poter intervenire sulla riduzione di questo fenomeno tra i lavoratori.

Si possono prendere in considerazione due processi che conducono l’individuo ad assenze frequenti o lunghe (Kohler & Mathieu, 1993). De Paola (2010) sostiene che in primo luogo le assenze possono essere guidate da tentativi di evitamento del lavoro, indicando bassa soddisfazione e commitment organizzativo (Farrell & Stamm, 1988; Mathieu & Kohler, 1990; Sagie, 1998; Stansfeld, Head, & Ferrie, 1999). La seconda spiegazione potrebbe riguardare il fallimento nel far fronte alle demand lavorative: l’assenza potrebbe essere interpretata come un meccanismo di difesa dalla situazione stressante (Johns, 1997; Kristensen, 1991).

©  Conflitto Lavoro Famiglia, Assenteismo e presentismo: il ruolo delle risorse lavorative – Mariarosaria Campitelli

 

Conflitto Lavoro Famiglia, Assenteismo e presentismo: Introduzione

Conflitto Lavoro Famiglia, Assenteismo e presentismo: il ruolo delle risorse lavorative

 

 

INTRODUZIONE ALLA RICERCA

Negli ultimi anni il tema del benessere delle persone sul proprio posto di lavoro è stato di grande interesse sia per gli studiosi e i ricercatori dell’area della psicologia del lavoro, sia per le figure politiche. A influenzare questa tendenza è stato consistente il contributo della crisi economica, che in tutta Europa ha colpito in particolar modo le aziende. In questo quadro situazionale si sono fatti strada temi di grande rilevanza, quali l’assenteismo, il presentismo e in più in generale lo stress lavoro – correlato.

L’assenza è stata definita come la non presenza a lavoro quando questa è programmata o prevista; il termine “presentismo” invece sta a indicare la presenza di una persona sul proprio posto di lavoro quando costui è malato o infortunato. Considerando la situazione europea e l’avanzamento dell’interesse per questi temi, gli studiosi hanno condotto ricerche in larga scala per comprendere le pressioni alle quali i lavoratori sono sottoposti, pressioni che portano gli individui all’assenza o alla presenza. Nelle organizzazioni di oggi, quale livello di malattia può giustificare l’assenza per un dipendente e per il suo superiore? I datori di lavoro come incoraggiano i propri dipendenti alla presenza, in un contesto di recessione come quello attuale?

La promozione di una buona condizione di salute dei lavoratori e la loro presenza è diventata una tematica sempre più importante, che ha sostituito l’idea di penalizzare l’assenza. Una ricerca del 2010  di Eurofound ha esaminato i modelli di assenteismo in Unione Europea e in Norvegia, i costi che ne derivano, le politiche che gestiscono questo problema e gli sviluppi di questi in materia di promozione della salute e del benessere. È stato stimato che i tassi medi di assenza in Europa oscillano tra il 3% e il 6% dell’orario di lavoro, con un costo del 2,5% del PIL. Il dato forse più allarmante fornito da questa ricerca è la scarsa conoscenza dei paesi sulla portata, sulle cause e sui costi delle assenze; è incoraggiante però il cambiamento nelle politiche di gestione e controllo delle assenze e delle presenze che si è verificato negli ultimi anni nei paesi coinvolti.

Per quanto riguarda quest’ultimo punto, nella ricerca del 2010 sono emerse due tendenze generali. La prima è l’interesse per le politiche di promozione della salute e del benessere nel luogo di lavoro, specialmente in Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia e Norvegia. La seconda tendenza, più tipica dell’Europa orientale, è quella che ha come focus il controllo dei costi delle assenze, attraverso politiche di riduzione della copertura delle prestazioni per malattia e dei livelli di pagamento. L’Italia e gli altri paesi europei si collocano invece a metà tra queste due tendenze.

Il presentismo è un tema ancora molto nuovo e inesplorato per molti paesi e gli studi sui suoi effetti sono ancora pochi, specialmente in confronto a quelli che trattano la tematica dell’assenteismo. È un argomento comunque in crescita, soprattutto nel momento di crisi attuale, in cui le persone, per timore di perdere il lavoro, potrebbero trascurare il proprio stato di benessere fisico e sforzarsi di lavorare anche quando l’efficienza viene meno (con costi sia individuali sia organizzativi).

Questo potrebbe avere un effetto negativo anche sull’equilibrio tra la sfera familiare e quella lavorativa. Nella ricerca del 2010 di Eurofound è stato sottolineato che in generale i tassi di assenza delle donne sono maggiori di quelli degli uomini: studi che verranno illustrati nel corso della ricerca sottolineeranno che infatti ci sono differenze di genere in quello che si chiama conflitto lavoro – famiglia, che colpisce prevalentemente le donne. Non si può certo affermare che l’Italia sia il paese che detiene il primato delle politiche di welfare, perciò anche l’equilibrio tra la sfera familiare e quella lavorativa risulta un tema importante e da sensibilizzare, in quanto anch’esso coinvolge il benessere individuale.

Sicuramente ci sono delle risorse sulle quali le organizzazioni possono far leva per gestire e migliorare la situazione attuale ed è proprio su queste che si concentra questo studio. Verranno esplorate le tematiche dell’assenteismo per malattia, del presentismo e del conflitto lavoro – famiglia in un’azienda italiana e il ruolo che le risorse lavorative possono giocare nel migliorare la situazione. In primo luogo verrà fornito un quadro generale di interpretazione di questi fenomeni, ai quali verrà adattato il modello Job Demand – Resource (Bakker & Demerouti, 2006). Successivamente saranno illustrate le dinamiche della ricerca e le possibili interpretazioni ai risultati ottenuti. Come ultimo step, l’attenzione sarà rivolta alle implicazioni pratiche che derivano dai risultati emersi, nel tentativo di fornire spunti di riflessione per la gestione di questi fenomeni all’interno delle aziende.

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Burnout, lavoro emozionale: Limiti e Bibliografia

Burnout, lavoro emozionale: Limiti e Bibliografia

 

L’obiettivo iniziale di questa ricerca era quello di analizzare il ruolo del lavoro emozionale in ambito sanitario, in particolare l’attività svolta dagli infermieri, che la letteratura ha riconosciuto come professione più sottoposta a questo fenomeno (Bolton, 2001).
Tuttavia la ridotta numerosità dei partecipanti alla ricerca non ha consentito di indagare in maniera approfondita tutte le dimensioni del lavoro emozionale, pertanto, con l’obiettivo di contribuire ad un incremento di studi quantitativi relativi alle considerazioni emerse da indagini qualitative, è stata analizzata la frequenza e l’intensità delle manifestazioni emotive tra uomini e donne.
Un ulteriore limite è dovuto all’impossibilità di effettuare un confronto tra i settori di impiego degli infermieri coinvolti nella ricerca, in quanto il campione non era abbastanza ampio per permettere dei confronti tra unità operative differenti.
Sempre per lo stesso motivo si è scelto di indagare il ruolo della dimensione surface acting, intesa come una modalità di regolazione della dissonanza emotiva, che la letteratura ha riconosciuto come maggiormente associata all’insorgenza della sindrome di burnout.
Le percentuali di varianza spiegata non sono molto alte, tuttavia sono risultate significative e permettono quindi di ipotizzare future ricerche che seguano la traccia qui impostata, consentendo, tramite l’impiego di campioni più ampi, di meglio studiare gli effetti qui riscontrati.
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Burnout e lavoro emozionale-Ambiti di ricerca futuri: il contagio emotivo

Burnout, lavoro emozionale e ambiti di ricerca futuri: il contagio emotivo

 

 

Dalla rassegna condotta da  Bakker e Westman (2008) sul crossover di burnout tra gli operatori di cura emerge che il fenomeno che il burnout si possa trasferire da un individuo ad un altro non è nuovo. Gli autori invitano ad operare una distinzione concettuale tra i termini crossover e contagio emotivo, precisando che la ricerca sul crossover  si è concentrata principalmente sul  trasferimento di stress e tensione dai lavoratori ai partner, e viceversa, mentre la  ricerca sul contagio emotivo ha origine in laboratorio, ed è stato applicata allo studio del trasferimento del burnout dai dipendenti al loro colleghi.
Il contagio emotivo è stato definito come la tendenza a imitare in modo automatico e sincronizzare espressioni facciali, vocalizzazioni, posture e movimenti con quelli di un altra persona e di conseguenza convergere emotivamente (Hatfield, Cacioppo e Rapson, 1994; p.5 cit. in Bakker e Westman 2008). L’enfasi in questa definizione è su un processo non-conscio  di contagio emotivo. La ricerca ha infatti dimostrato che, nelle conversazioni, le persone automaticamente imitano le espressioni facciali, voci, posture e comportamenti degli altri. Vi è, tuttavia, un secondo modo in cui le persone possono catturare le emozioni altrui. Il contagio può verificarsi anche attraverso un processo cognitivo cosciente di sintonizzazione alle emozioni altrui. Questo processo si verifica quando una persona cerca di immaginare come si sarebbe sentita nella posizione di un altro, e, di conseguenza  esperire gli stessi sentimenti.
La prima indicazione empirica per un effetto socialmente indotto di burnout  deriva da Rountree (1984, cit. in Bakker e Westman 2008 ) che ha studiato 186 gruppi di lavoro in 23 organizzazioni trovando che l’ 87,5% degli impiegati con i  punteggi più elevati di  burnout  lavoravano in gruppi di lavoro in cui almeno 50% del personale era in una simile fase avanzata di burnout e che anche  bassi punteggi di burnout hanno mostrato una tendenza simile ma con cluster meno marcati.
Sulla base di analoghi risultati Stevenson e coll. (1986, citato in Bakker & Schaufeli, 2000) hanno concluso che “… l’affinità dei gruppi di lavoro per i punteggi estremi sembra sostanziale” (p. 184). Quindi, gli individui con punteggi molto alti o molto bassi di burnout possono essere trovati spesso all’interno di un gruppo di lavoro, suggerendo la possibilità che i membri del gruppo di lavoro “si infettino con il virus del burnout”.
Tuttavia, come suggerito da Bakker e colleghi (2005) il risultato di trovare all’interno di un gruppo di lavoro individui con punteggi molto alti o molto bassi di burnout non implica necessariamente un processo di contagio emotivo, ma potrebbe invece essere imputabile all’elevato  carico di lavoro di quel gruppo.
Uno studio più sistematico volto ad indagare  l’ipotesi che la sindrome di burnout sia contagiosa è stato condotto da Bakker , Le Blanc e Schaufeli (2005) su un unità diinfermieri di terapia intensiva. Gli infermieri  di  dodici paesi europei (N=1.849)  hanno compilato un questionario per valutare le condizione di lavoro e benessere indicando al contempo la prevalenza di burnout tra i loro colleghi.
Le variabili analizzate in questo studio furono: domanda lavorativa, carico di lavoro oggettivo per gli infermieri, denunce di burnout percepita tra colleghi, burnout.
L’analisi della varianza ha indicato che la varianza tra gruppo su una misura di burnout percepito tra i colleghi era statisticamente significativa e sostanzialmente più grande della varianza all’interno dei gruppi. Ciò implica che vi sia un accordo considerevole  nell’unità di terapia intensiva per quanto riguarda la prevalenza di burnout. Inoltre, i risultati delle analisi multilivello hanno mostrato che le denunce di burnout tra colleghi nelle unità di terapia intensiva hanno dato un contributo statisticamente significativo e unico a spiegare la varianza nelle esperienze individuali  dell’infermiere del burnout, ossia esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale. Inoltre, sia per esaurimento emotivo e depersonalizzazione, le denunce di burnout percepite tra i colleghi sono state il fattore predittivo più importante del burnout a livello individuale, anche dopo aver controllato l’impatto dei fattori di stress organizzativo come concettualizzati nel modello di domanda-controllo.
Gli autori hanno concluso che il  burnout è contagioso dato che può essere trasferito da un infermiere a un altro.
Un altro studio che ha testato l’ipotesi che il burnout possa trasferirsi da un individuo all’altro è quello condotto da Bakker, Westman e Schaufeli, (2007) articolato in due studi sperimentali.
Nel primo studio gli insegnanti vennero esposti in modo casuale ad un finto articolo di giornale, in cui un collega forniva la sua esperienza negativa del suo lavoro (condizione di burnout) o ad un tema non correlato al lavoro (condizione di controllo). I risultati dimostrarono che coloro che avevano partecipato alla condizione sperimentale (burnout) avevano punteggi più alti nelle dimensioni dell’esaurimento e della depersonalizzazione rispetto ai partecipanti alla condizione di controllo. Un setting analogo venne impostato per il secondo studio su un campione di soldati, da cui emerse che il contagio di burnout è intensificato dalla somiglianza  con la persona stimolo.
Hatfield e coll. (1994, cit. in Bakker e Westman, 2008 ) hanno sostenuto che vi sono circostanze diverse nelle quali le persone dovrebbero essere particolarmente suscettibili al contagio emotivo, come, per esempio, prestare attenzione agli altri e percepire se stessi in interazione ad altre persone piuttosto come indipendenti e unici. Tenuto conto dell’aumento  nelle organizzazioni di modelli di squadra è infatti probabile che i dipendenti sperimentino maggiori livelli di interdipendenza, diventando maggiormente sensibili agli stati emotivi dei propri colleghi. Dalle rassegna sul contagio emotivo tra gli health care professional condotta da  Bakker e Westman (2008) emerge che le condizioni che rendono più probabile il contagio emotivo sono:
Empatia, Westman e Vinokur (1998, citato in  Bakker & Westman ,2008)  hanno sostenuto che l’empatia può essere un moderatore del processo di contagio. Starcevic e Piontek (1997, cit. in  Bakker & Westman, 2008) definiscono l’empatia come la comunicazione interpersonale, che è prevalentemente di natura emotiva ed implica la capacità di essere influenzati dallo stato affettivo degli altri. Questa variabile non è stata testata direttamente in relazione al burnout, ma uno studio condotto da Bakker e Demeruti (2009), su un campione di 175 coppie di lavoratori tedeschi, ha ipotizzato che l’empatia fosse un moderatore del crossover del work engagement, considerato come il diretto opposto del burnout.  In questo studio l’empatia venne misurata usando due scale dell’interpersonal reactivity index (Davis, 1980, cit in Bakker e Demeruti 2009). La prima volta a misurare la tendenza ad adottare il punto di vista di un’altra persona nella vita quotidiana (perspective taking),  la seconda a misurare la tendenza a esperire sentimenti di preoccupazione e compassione per le altre persone (empathic concern). Nello specifico  gli autori trovarono che solo la prima dimensione dell’empatia aveva un effetto di moderazione.
Suscettibilità,  Bakker e Schaufeli (2000) nel loro studio su 154 insegnanti tedeschi di scuola superiore, hanno ipotizzato che la suscettibilità personale degli insegnanti al contagio aumentasse il rischio del contagio di burnout. Nello specifico si ipotizzò che gli insegnati che erano maggiormente vulnerabili alle emozioni e agli stati d’animo negativi espresse dai loro colleghi avessero maggiore probabilità di essere a loro volta affetti da burnout. Questa variabile venne misurata  attraverso sette item della scala sul contagio emotivo sviluppata da Stiff e al. (1988, citato in Bakker & Schaufeli, 2000)
Frequenza degli scambi di opinione, questa variabile è stata analizzata da Bakker e Schaufeli (2000) i quali hanno testato l’ipotesi che la prevalenza di burnout tra colleghi avesse un impatto positivo sull’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e la riduzione del’efficacia personale per quegli insegnati che frequentemente parlavano con altri relativamente ai problemi correlati al lavoro. Questa variabile venne misurata con quattro item riferiti alla frequenza con la quale gli insegnanti parlavano con i loro colleghi dei problemi incontrati nel loro lavoro. L’analisi di questo processo, non esplorato nella presente ricerca,  potrebbe configurarsi pertanto come suggerimento per future ricerche.

 

 

Burnout e lavoro emozionale: Discussione

Burnout e lavoro emozionale: Discussione

 

I risultati di questa ricerca hanno cercato di evidenziare che la componente emotiva non può essere trascurata all’interno di valutazioni connesse con la prevenzione del disagio lavorativo.
Si tratta di aspetti di notevole criticità in quanto non prescindibili dalla tipologia di lavoro dei professionisti sanitari, che come questa ricerca ha cercato di evidenziare, sono soggetti a un lavoro emozionale.
Gli interventi di prevenzione pertanto dovrebbero configurarsi in maniera compensativa, non essendo modificabile la natura del lavoro.
La relazione riscontrata tra la dissonanza emotiva e la soddisfazione lavorativa potrebbe rappresentare il perno su cui esercitare una leva in termini di intervento da parte del management delle organizzazioni, essendo quest’ultima fortemente correlata con la prestazione lavorativa.
Dai risultati di questa ricerca emerge inoltre che particolare attenzione dovrebbe esser posta al target femminile di popolazione che, rispetto al target maschile, manifestano emozioni più intense e più frequentemente, probabilmente per aspettative legate al proprio ruolo come suggerito da Gray (2009).
Tuttavia, i risultati più significativi che emergono da questa ricerca sono le relazioni esistenti tra la componente di regolazione delle emozioni, dell’adattamento dei propri sentimenti ai sentimenti desiderati, e le dimensioni di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotto senso di riuscita professionale. 
Tali implicazioni rivestono un ruolo cruciale per lo specifico ambito in cui si inseriscono, essendo emerso dalle ricerche qualitative sul lavoro emozionale che il processo di guarigione di un paziente Henderson (2001) è correlato all’attività assistenziale svolta dagli infermieri.
Un ulteriore aspetto capace di giustificare la necessità di porre il focus di attenzione su questa tematica, deriva dagli studi condotti sulla trasferibilità della sindrome del burnout tra i lavoratori, i quali hanno evidenziato che i rischi relativi al burnout lavorativo non siano circoscritti al singolo lavoratore, ma essendo quest’ultimo in relazione con altri lavoratori, è possibile trasferire  i propri stati d’animo, incrementando la potenzialità lesiva di questa sindrome.
Si riporta di seguito una breve rassegna su questo aspetto con l’obiettivo si presentare l’indagine di questa dimensione come possibili ricerche future.

Burnout e lavoro emozionale:Risultati

Burnout e lavoro emozionale: Risultati

I risultati dell’Anova Univariata hanno dimostrato che i gruppi con diversa anzianità lavorativa hanno punteggi diversi in relazione alla domanda emotiva, cosi come è possibile riscontrare in tabella, dalla quale ad esempio si evince che i lavoratori con un’anzianità lavorativa che va dai 0 ai 5 anni hanno valori più alti (m=1.72; ds=.68) rispetto ai lavori con un’ anzianità lavorativa oltre i 21 anni (m= 1.47; ds= .82).

Figura 6. Confronto tra operatori con diversa anzianità lavorativa in relazione alla domanda emotiva

Tuttavia le differenze tra i gruppi considerati non risultano significative (F(3,149) = 1.393, sig= 247) per cui non si può attribuire all’anzianità lavorativa la differenza tra questi ultimi, risultato che suggerisce che nonostante l’acquisizione di esperienza, la percezione di stressrelativo alla domanda emotiva rimane invariato.

Per quanto riguarda la seconda ipotesi, i risultati dell’indagine preliminare di  correlazione tra la dissonanza emotiva e la soddisfazione lavorativa, hanno rilevato una correlazione negativa tra le due variabili (r = -.186; sig =  .022; vedi Figura 5). Sulla base di questo risultato è possibile affermare che, come ipotizzato, all’incrementare della dissonanza emotiva diminuisce la soddisfazione lavorativa  e  viceversa all’incrementare della soddisfazione lavorativa, diminuisce la dissonanza emotiva. Tuttavia, tale risultato, non  permette di affermare che la presenza di dissonanza emotiva comporti una riduzione della soddisfazione lavorativa. Per sostenere tale ipotesi è stata pertanto condotta un analisi della regressione lineare.

I risultati di questa analisi hanno confermato l’esistenza di una relazione lineare negativa tra le due variabili (Beta = -.186, t= -2.32, sig = .022). Osservando il valore di R quadro corretto (R2 =.03), inoltre è possibile affermare che la dissonanza emotiva spiega circa il 3% della varianza della soddisfazione lavorativa.

Per la verifica della terza ipotesi, utilizzando il t-test abbiamo, rilevato che vi sono differenze significative tra le medie delle donne e quelle degli uomini nella frequenza di manifestazioni emotive (t(52) = -3.475; p= .001). Nello specifico, in media le femmine (m= 3.68; ds= .77 ) manifestano emozioni più frequentemente rispetto ai maschi (m= 2.90; ds= .85).

Il secondo confronto effettuato ha rilevato anche una differenza significativa nell’ intensità delle manifestazioni emotive rispetto al genere (t (51) =-2.105; p =.040). Nello specifico i risultati mostrano che in media le femmine (m = 3.102; ds =.998) manifestano emozioni più intense dei maschi (m = 2.526; ds =.873). Si può pertanto considerare verificata la terza ipotesi. Per quanto riguarda i risultati della quarta ipotesi si riportano di seguito i risultati delle tre regressioni lineari effettuate.

Figura 7. Risultati regressioni lineari

Note: **p< .01; * p<.05

La misura di quanto sia buona la previsione dell’insorgenza dell’esaurimento emotivo, della depersonalizzazione e del senso di riuscita professionale che riusciamo ad effettuare conoscendo i valori della regolazione superficiale delle emozioni è fornita dal coefficiente di determinazione R quadrato, i cui i valori variano da 0 a 1, dove zero indica che il modello non aita a conoscere i valori delle variabili dipendenti e 1 che il modello permette di determinare tutti i valori delle variabili dipendenti. In questo caso si sono ottenuti valori relativamente piccoli del coefficiente di determinazione ma comunque significativi. Il che significa che il modello permette una previsione causale delle dimensioni del burnout.

Come si evince dalla tabella il surface acting è un predittore positivo dell’esaurimento emotivo e la percentuale di varianza spiegata è del 13%. La percentuale di varianza spiegata invece sulla dimensione della depersonalizzazione è del 17%. Per quanto riguarda invece l’effetto del surface acting sul senso di riuscita professionale si evince una relazione negativa, per cui per un incremento del surface acting, ci si aspetta un decremento del senso di riuscita professionale. La percentuale di varianza spiegata è del 10%. Pertanto si può considerare verificata la quarta ipotesi.

 

 © Il ruolo delle emozioni in ambito sanitario: Lavoro emozionale e job burnout – Lucia Scotese