Stanchi, pieni di noia….ma soddisfatti!

Stanchi, sfibrati, pieni di noia….ma soddisfatti!

Quante contraddizioni, tutte in una sola frase!

Come si può essere stanchi e sfibrati, provare pure un forte sentimento di noia e, alla fine, esserne pure soddisfatti?

Suggeriamo di leggere anche articoli scientifici che trattano di questo specifico argomento e di come la noia sia un sentimento così diffuso e poco studiato, da avere un’importanza chiave nella vita di ognuno di noi.

Alla fine dei nostri pensieri di questa settimana siamo giunti a tirare un filo conduttore tra quella che è la noia e la nostra stanchezza, quella che sembra non mollarci già da un pò di tempo.

Perché è indubbio che la noia si accompagni ad un sentimento di scoramento, che risucchi la nostra motivazione e, quindi, anche le nostre energie per fare quello che dovremmo fare.

Questo si può unire in modo molto chiaro anche alle grandi dimissioni che stiamo vivendo nel nostro paese. Per chi non lo sapesse, a seguito dei lockdown, si è visto crescere un fenomeno in tutto il mondo: le dimissioni di massa.

Da varie analisi che sono state fatte ciò è accaduto per varie motivazioni:

  • il fermo immagine della pandemia ci ha mostrato una vita più lenta, una quasi decrescita felice;
  • il lockdown ci ha insegnato che si può vivere il lavoro in un modo differente, con una maggiore ecologia per le nostre vite quotidiane, svolgendo la nostra mansione ovunque nel mondo;
  • lo stare chiusi in casa ci ha riportati al sicuro nelle nostre vite e, per alcuni di noi, è stato un grande momento di ricongiunzione con le nostre radici;
  • la pandemia ci ha insegnato a dare valore ai nostri momenti, che il lavoro deve darci qualcosa altrimenti non ne vale la pena.

Tutto questo ha comportato che, finalmente, le persone si sono rivolte a guardare la qualità delle loro vite e non esclusivamente la quantità delle stesse. Siamo riusciti a vedere, fermandoci qualche secondo, che la vita non è un continuo correre dietro a scadenze e deadline.

La vita è un momento che va fermato e assaporata, è il nostro diritto di avere quel momento di stop e di soddisfazione oltre alle ansie delle nostre giornate frenetiche.

Un esempio che possiamo trarre dai libri è in Alice nel Paese delle Meraviglie, quando alice cade nella tana del Bianconiglio. Cadendo senza sosta, in quello che sembra un buco infinito, Alice pensa che quella alla fine sia come la sua vita di tutti i giorni. La sua attenzione passa velocemente sulle varie cose che vede attorno a sé, proprio come succede nelle sue giornate. Simula, nella caduta, anche le conversazioni che avrebbe se non stesse cadendo nel buco. Un paragone molto azzeccato.

L’intensità delle emozioni del momento scivola via e lascia, al suo posto, la noia e la ricerca di stimoli continuamente nuovi.

Perciò molte persone, guardandoci indietro, hanno pensato: ma chi me lo fa fare? Così si sono lasciate alle spalle lavori stressanti, con datori di lavoro crudeli e ambienti tossici, per aprirsi ad un mondo del lavoro insicuro e provato.

Un salto della fede verso l’ignoto.

‘What can possibly be more existentially disturbing than boredom?’

Jon Hellesnes

Un sentimento che, sicuramente, è stato fomentato anche dalla noia che abbiamo provato in quel momento e che, probabilmente, proviamo tutt’ora. Un senso di scoramento che ci pervade in quello che prima trovavamo appassionante e motivante.

La noia che porta a cambiare i nostri valori, che mette in discussione il nostro mondo, che ci lascia in quella piccola buca costruita nel terreno dove rintanarci.

Una noia che ci drena le energie rimaste e ci lascia stanchi e sfibrati.

Questo però è stato un sentimento importante, di svolta. La noia ci dice quando quello che stiamo facendo smette di avere importanza per noi, e giunge quindi il momento di fare qualcosa di nuovo.

E’ proprio quando ti ritrovi completamente annoiat* che puoi fare una summa di tutto quello she stai facendo e vederlo da un punto di vista differente.

Una lettura interessante, dal punto di vista filosofico, si può trovare qui.

Nel momento del picco di noia puoi dare un cambio ai valori e mutare ciò in cui credi e, di conseguenza, quello che fai. La noia è un potentissimo motore di cambiamento.

Nelle vite di tutti i giorni, quelle frenetiche, quelle continuamente a fare qualcosa, non riusciamo a provare la noia. Anzi spesso non ce lo permettiamo nemmeno. Come possiamo avere il lusso di essere annoiati quando dobbiamo stare dietro ai figli, sistemare il lavoro del collega, essere sempre alla rincorsa di lavori impossibili, di clienti introvabili.

Il lockdown ci ha dato questo grande lusso, quello della noia. E lei, a molti di noi, ha indicato la via. Una via nuova, fatta di svolte, di cambiamenti e di rinnovazione.

Siamo convinti che la noia e la stanchezza abbiamo mutato, per molti, le linee tratteggiate delle vite, stimolando a scegliere qualcosa di nuovo e diverso, o anche semplicemente fare un salto nel buio.

La soddisfazione arriva proprio da questo punto, dal momento in cui abbiamo cambiato il nostro mindset e ci troviamo di fronte a qualcosa di nuovo, frutto di riflessione, che ci stimola nuovamente a fare cose diverse.

Quando la noia arriva è importante non frenarla, lasciare che scorra e prendere quello come un momento prezioso. Un momento d’incontro con noi stessi e di summa delle nostre attività e ascoltare quello che la noia ha da dirci.

Potremmo trovare il tesoro alla fine dell’arcobaleno!

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Emozione e decisione

Emozione e decisione

La psicologia del giudizio e delle decisioni a partire degli anni ’60 ha cominciato ad accendere i riflettori sui processi cognitivi che guidano la scelta dell’attore decisionale. In particolare, la ricerca in quest’ambito della psicologia sperimentale ed applicata ha dimostrato che i meccanismi sottostanti la presa di decisione sono del tutto irrazionali

(e.g. Kahneman e Tversky, 1979). Infatti molto spesso il nostro bisogno di prendere la decisione migliore incontra la necessità di risparmiare le nostre risorse cognitive (Simon, 1957). Dunque, quando prendiamo una decisione siamo più propensi ad usare dei processi cognitivi automatici ed intuitivi detti procedure satisfacing (Simon, 1957) o euristiche di ragionamento (Kahneman e Tversky, 1973; 1974),  piuttosto che a fare un attenta valutazione di pro e contro di ogni scelta, come sostenevano le Teorie della scelta razionale (e.g. Von Neumann e Morgenstern, 1947). Solo recentemente la ricerca sulle decisioni ha dimostrato che le emozioni giocano un ruolo fondamentale nel processo di scelta (Epstein, 1994; Damasio, 1994). Molti studiosi concordano sul fatto che nei processi decisionali siano coinvolti due sistemi distinti legati a diverse modalità di elaborare l’informazione (Zajonc, 1980; Epstein, 1994; LeDoux, 1996; Kahneman, 2003). Epstein (1994) per esempio ha proposto un modello secondo il quale l’adattamento all’ambiente avverrebbe mediante un sistema esperenziale ed uno razionale. Il primo agisce in maniera rapida, automatica e  senza sforzo ma sacrifica l’accuratezza delle percezioni a cui ci conduce in favore della velocità con cui opera. Il secondo è invece più lento, comporta il dispendio di molte risorse cognitive ma allo stesso tempo è capace di un altissimo livello di astrazione in un ottica progettuale anche di lungo termine. Questi due processi di elaborazione dell’informazione coinvolgono anche meccanismi neurali differenti. II sistema esperienziale coinvolge maggiormente il talamo e l’amigdala, due delle strutture più antiche del cervello, mentre quello razionale coinvolge maggiormente la corteccia, che è l’area più evoluta e giovane dell’encefalo. Questi due sistemi si compensano ed interagiscono tra di loro in ogni situazione, tuttavia il sistema esperienziale, per la sua stessa natura è portato a precedere quello razionale nell’elaborazione dell’informazione. Zajonc (1968, 1980), come abbiamo visto, è stato tra i primi a dimostrare la supremazia dell’emozione  sulla cognizione. I suoi studi sulla mera esposizione hanno mostrato, inoltre, come le reazioni affettive possano influenzare la nostra preferenza per uno stimolo piuttosto che per un altro. Cosa ancor più sorprendente, non è necessario che l’emozione raggiunga la soglia della consapevolezza perché influenzi il nostro pensiero. Queste scoperte hanno portato molti teorici a parlare di un vero e proprio inconscio cognitivo (e.g. Epstein, 1994), ovvero un sistema fondamentalmente adattivo che organizza l’esperienza senza sforzo, in modo automatico ed intuitivo e così facendo indirizza il nostro comportamento. Naturalmente, questo modalità di organizzare l’esperienza gioca un ruolo determinante anche nei processi di presa di decisione.

Gli studiosi delle decisioni hanno proposto che le emozioni possano influenzare le nostre decisioni in diversi modi.  Loewenstein, Weber, Hsee e Welch (2001), ad esempio, definiscono un emozione anticipatoria quando indica una reazione viscerale connessa con la percezione del rischio e dell’incertezza che accompagnano una decisione. Damasio (1994) sulla base di osservazioni fatte su pazienti con lesioni della corteccia ventromediale frontale ha proposto che le nostre scelte siano normalmente guidate da marcatori somatici. Questi corrispondono a sensazioni viscerali e non viscerali che anticipano l’esito al quale può condurre una data azione spingendoci ad evitarla o ad approcciarla. In altre parole, quando un marcatore somatico è negativo funziona come un campanello d’allarme che ci avverte che è meglio evitare quella decisione, quando è positivo invece rappresenta un incentivo verso quella determinata azione. Bechara, H. Damasio, Traner, A. Damasio, (1997) chiedevano a pazienti neurologici con lesioni della corteccia prefrontale e a persone sane di partecipare ad un gioco d’azzardo il cui obiettivo era quello di vincere la maggior somma di denaro possibile. A tutti i partecipanti veniva affidata una somma iniziale di 2000$ fittizi e veniva chiesto di pescare una carta da quattro diversi mazzi. Ogni carta comportava una vincita o perdita di denaro. Tuttavia, due mazzi portavano ad alte perdite ed alte vincite e alla lunga risultavano svantaggiosi mentre gli altri due che mostravano un equilibrio maggiore tra vincite e perdite alla lunga portavano ad un guadagno. Coerentemente con l’ipotesi del marcatore somatico, man mano che le persone sane  procedevano nel gioco imparavano a diffidare dei mazzi svantaggiosi, e si concentravano su quelli che portavano a vincite e perdite più contenute. Contrariamente, i pazienti, la cui lesione comportava un grave deficit nell’elaborazione dell’emozione e nella pianificazione, continuavano a scegliere i mazzi svantaggiosi anche dopo che avevano subito ampie perdite. Inoltre, subito prima di effettuare la scelta  i pazienti mostravano anche un’attivazione della conduttanza cutanea significativamente inferiore rispetto alle persone sane. Questo studio non solo da una valida dimostrazione di come le emozioni anticipatorie possano guidare le nostre decisioni ma dimostra anche che possono avere un valore adattivo. Tuttavia, le stesse reazioni viscerali che si rivelano utili in un compito come quello che Bechara e colleghi (Bechara, H. Damasio, Traner, A. Damasio,1997) possono rivelarsi fortemente maladattive in altri contesti decisionali. Benartzi e Thaler (1995) hanno mostrato come le emozioni anticipatorie possano spingerci ad investire in obbligazioni sicure piuttosto che in titoli azionari che mediamente offrono un maggior ritorno nel lungo termine.

Oltre alle emozioni anticipatorie, anche le emozioni non strettamente legate alla decisione che dobbiamo prendere giocano un ruolo chiave nell’influenzare le nostre scelte. Isen e Mean (1983) hanno mostrato, ad esempio, che gli affetti positivi ci portano a prendere decisioni in modo più accurato e  veloce rispetto agli affetti negativi. I partecipanti di un loro esperimento dovevano valutare sei automobili come se le dovessero comprare. In particolare nella decisione di acquisto dovevano prendere in considerazione nove dimensioni diverse. Tra i partecipanti coloro che subito prima del compito erano stati indotti a provare un emozione positiva  mostravano una minore ridondanza nel processo di ricerca ed erano più propensi ad eliminare gli aspetti inutili al fine della decisione. Di conseguenza, questi soggetti giungevano ad una decisione più velocemente rispetto a quelli della condizione di controllo. Isen e Patrick (1983) hanno dimostrato anche che gli affetti positivi influenzano la propensione a rischiare dell’attore decisionale. In un loro esperimento, ad esempio, le persone cui era stato indotto uno stato d’animo positivo nel gioco della roulette erano più propense a affrontare scommesse ma solo se queste comportavano un basso rischio di perdita. Quando la probabilità di perdere la scommessa era alta invece mostravano un avversione al rischio più alta rispetto alla condizione in cui l’affetto non era stato manipolato in alcun modo. Per spiegare questi risultati Isen, Nygren e Ashby (1988) hanno proposto che le persone quando sono di buon umore siano meno propense a correre rischi che potrebbero minacciare il loro stato d’animo.

Ulteriori evidenze di come l’umore possa influenzare la decisione sono state fornite da Forgas (1989) il quale ha preso in considerazione affetti positivi e negativi. In uno studio chiedeva ai soggetti che prendevano parte al suo esperimento di prendere una decisione in merito ad 8 potenziali partner. In una condizione la scelta li riguardava personalmente, mentre nell’altra riguardava un’altra persona. Come Forgas si aspettava i partecipanti che erano stati indotti a provare tristezza erano propensi a considerare variabili interpersonali, mentre coloro che erano stati indotti a provare gioia o piuttosto uno stato emotivo neutrale, facevano più caso alle variabili inerenti il compito. Inoltre, nella condizione di tristezza i partecipanti tendevano ad usare strategie decisionali meno efficaci rispetto agli altri. In particolare, erano più lenti e propensi a considerare aspetti meno importanti ai fini della scelta. Nella condizione di felicità invece erano più veloci, ma in contrasto con quanto dimostrato da Isen et al. (1983), solo se la scelta li interessava personalmente.

Altri ricercatori hanno dedicato i loro studi all’emozione legata all’anticipazione dell’esito della decisione. Loomes e Sudgen (1982), ad esempio, nella loro Teoria del Regret, suggeriscono che il fatto di anticipare la delusione (regret) legata all’esito indesiderato di un alternativa condiziona la scelta. In un’ampliamento di questa teoria Loomes e Sudgen (1986) hanno proposto che oltre al regret, altre due emozioni possono influenzare il comportamento dall’attore decisionale: il disappunto e l’entusiasmo.  Ad esempio, Ritov e Baron (1990) hanno mostrato che le persone che sono meno propense a vaccinare un figlio anticipano il regret che deriverebbe in seguito agli effetti collaterali del vaccino.

Mellers, Schwartz e Ritov (1999) hanno proposto una teoria della decisione che mette in relazione emozione anticipata ed emozione esperita. Questa teoria sostiene che l’attore decisionale quando valuta delle scommesse soppesa il dolore anticipato ed il piacere anticipato. Più precisamente, in un primo momento, il decisore valuta il piacere medio legato ad ogni scommessa e successivamente sceglie l’alternativa che massimizza il piacere atteso soggettivo. Mellers et al. (1999), per testare questa teoria hanno messo a punto degli esperimenti piuttosto elaborati in cui i partecipanti dovevano effettuare una scelta tra più alternative. In una condizione, detta di feedback parziale, i partecipanti una volta effettuata la scelta vedevano solo il risultato della propria decisione, in un altra condizione, detta di feedback completo, i partecipanti vedevano anche l’esito che sarebbe uscito nel caso avessero scelto una scommessa differente. I risultati hanno mostrato che i partecipanti si sentivano meglio sia se sapevano di aver evitato perdita più maggiore di quella ottenuta (effetto disappunto), sia se sapevano di aver scelto l’opzione migliore (effetto regret). In aggiunta, i partecipanti erano soggetti ad un effetto sorpresa: il piacere di vincere o di perdere era più intenso quando era inatteso. Mellers e colleghi (1999), dunque, hanno dimostrato che l’attore decisionale preferisce la scommessa che gli consente di minimizzare il massimo dispiacere possibile e di massimizzare il massimo piacere possibile.

Gli sviluppi più recenti hanno portato i teorici a suggerire che il decisore usi i sentimenti che percepisce come informazioni (Loewenstein et al. 2001). Quest’ipotesi è coerente sia con il fatto che l’affetto precede la cognizione (Zajonc, 1968; 1980) sia con il fatto che le persone codifichino affettivamente le conseguenze di alternative come linee d’azione (Damasio, 1994; Bechara et. al 1997). Slovic, Finucane, Peters e Mc Gregor (2002) hanno proposto addirittura che l’affetto possa essere rappresentato come una vera e propria euristica di giudizio: l’euristica dell’affetto o affect heruristic. L’affetto, infatti, proprio come un euristica, ci conduce in una direzione piuttosto che un’altra in modo automatico ed inconsapevole. Quest’euristica è fortemente collegata alla percezione del rischio e quindi anche al processo decisionale. Alhakeacami e Slovic (1994) hanno dimostrato che il piacere che proviamo in una certa attività è correlato negativamente con la rischiosità che le attribuiamo. Per esempio giovani fumatori che iniziano a fumare sono più propensi a farsi prendere dall’impulso del momento e a sottovalutare i rischi legati al fumo.  In un esperimento, Finucane, Alhakeacami, Slovic e Johnson (2000) chiedevano ai partecipanti di valutare i benefici ed i rischi associati a diverse attività (ad es.: alcolici, energia nucleare, cellulari, conservanti, motociclette). In una condizione per rendere più difficile l’accesso al sistema razionale (da loro chiamato analitico) davano un limite di tempo per ogni risposta. Come si aspettavano, le attività ritenute più piacevoli erano anche quelle ritenute meno rischiose. In un altro esperimento, Slovic et al. (2002), hanno dimostrato come quest’euristica possa condurci ad incoerenze nel processo decisionale. Questi studiosi in un esperimento chiedevano ai partecipanti di valutare il grado di attrattività di una scommessa. Per alcuni la scommessa implicava una probabilità elevata di vincere una somma di 9$ mentre non si perdeva niente. Ad altre persone, invece, veniva proposta una scommessa che offriva un’elevata probabilità di vincere 9$ ma anche la  possibilità di perdere 5 centesimi. Contro ogni regola della logica coloro che avevano visto il secondo formato della scommessa la trovavano più attraente, nonostante implicasse la possibilità di perdere. Gli autori spiegano questo risultato sostenendo che quando la possibilità di vincere 9$ è affiancata dalla possibilità di una piccola perdita è più facile da valutare e quindi anche più facile di da associare ad un emozione, rendendola così più invitante. Coerentemente con questo risultato, Peters (2006) ha suggerito anche  che le persone ricorrano a sensazioni affettive quando non hanno abbastanza informazioni per valutare gli stimoli. In contrasto con questo punto di vista, tuttavia, Rubaltelli, Rumiati e Slovic (2010) hanno dimostrato che le persone sono più abili ad utilizzare le loro reazioni affettive quando due stimoli sono valutati in modalità congiunta rispetto a quando queste sono valutate separatamente. In un esperimento questi ricercatori hanno proposto ai loro partecipanti una replica del Paradosso di Ellsberg (1961).  Questo Paradosso mostra che le persone preferiscono scommesse dove la probabilità di vincita è nota rispetto a scommesse vaghe, la cui probabilità non è conosciuta. Alcuni partecipanti vedevano entrambe le scommesse appaiate, altri vedevano soltanto una delle due scommesse.

Quando la scommessa ambigua era valutata separatamente (separate evaluation) era valutata significativamente più attraente rispetto a quando era valutata appaiata all’altra (joint evaluation). In un estensione di questo lavoro ho dimostrato (Righi, 2010) che la preferenza per una esito certo rispetto ad uno incerto (effetto certezza; Allais, 1953, Kahneman e Tversky, 1979) si verifica solo nella condizione di joint evaluation. Questi risultati sembrerebbero dimostrare che l’attore decisionale ricorra a feedback affettivi sopratutto quando può operare un confronto tra alternative.

Concludendo, le emozioni influenzano fortemente il comportamento dell’attore decisionale, sia un livello conscio che ad un livello inconscio. A volte le reazioni affettive ci possono indurre in errore, ma in un gran numero di situazioni giocano un ruolo estremamente adattivo nel comportamento del decisore. Un campo strettamente legato al comportamento dell’attore decisionale è quello della beneficienza. Nel prossimo capitolo vedremo il potere delle  emozioni nella motivazione all’altruismo.

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

Emozioni di base vs. emozioni complesse

Emozioni di base vs. emozioni complesse

Un’altra questione molto dibattuta dai teorici è la distinzione delle emozioni in due categorie principali: emozioni di base ed emozioni complesse. Le prime sono dette anche emozioni primarie o fondamentali e molto spesso in letteratura vengono accostate al blu, al rosso e al giallo dei colori primari la cui mescolanza può generare altri colori ancora. Le emozioni complesse, dette anche secondarie, proprio come questi ultimi colori, sono la derivazione della combinazione di altre emozioni. La distinzione di emozioni fondamentali ed emozioni complesse è stata condivisa da molti teorici, tuttavia non c’è un grande accordo su quali debbano essere i criteri di classificazione e dunque su quali siano le emozioni da includere in una categoria piuttosto che in un’altra. Silvian Tomkins (1962) fu tra i primi a proporre che le emozioni primarie possano essere distinte dalle emozioni secondiarie su base biologica. Il lavoro di Tomkins ha ispirato la ricerca di Paul Ekman e Wallace Friesen (1971), che hanno dimostrato che alcune espressioni facciali sono universalmente associate a particolari emozioni. Questi due studiosi chiedevano ai membri di una tribù della Papua Nuova Guinea, i Fore, quale espressione facciale, tra quelle loro mostrate in alcune foto,  fosse le più adeguata  rispetto alla storia che di volta in volta ascoltavano. I Fore hanno vissuto per secoli isolati dalla cultura occidentale, eppure le loro risposte non differivano significativamente da quelle date dagli studenti di un college americano.

Carrol Izard (1977) ha suggerito che oltre ad un’espressione facciale o al pattern di attivazione neuromuscolare-espressivo sottostante, due caratteristiche delle emozioni fondamentali siano un substrato neurale specifico ed una qualità distinta fenomenologica. Più di recente, Ekman (1992) ha individuato 9 caratteristiche che distinguerebbero le emozioni fondamentali dalle altre. Queste sono: segnali distintivi universali, presenza in altri primati, fisiologia distintiva, eventi antecedenti universali, coerenza tra risposte emozionali, principio veloce, durata breve, appraisal automatico ed, infine, manifestazione spontanea.

Per P.N. Johnson-Laird e Keith Oatley (1992) perché un emozione sia considerata primaria deve avere anche delle caratteristiche semantiche peculiari. In primo luogo, il significato di un emozione deve essere spiegabile senza dover fare ricorso a nessun’altra emozione. In secondo luogo, ogni termine che denoti un emozione di base è primitivo, ovvero non analizzabile da un punto di vista semantico.

Robert Plutchick (1984) la cui analisi si basa su quattro criteri che sono: l’ampia condivisione che si ritrova nella letteratura sull’argomento, la possibilità di fornire la base per un modello strutturale, la possibilità di guidare la ricerca ed infine la possibilità di mostrare la relazione tra discipline che generalmente vengono considerate come separate.

Il numero di emozioni cui è attribuito lo stato elettivo di emozione fondamentale varia in maniera notevole a seconda delle caratteristiche prese in considerazione di volta in volta.

Tomkins (1962) ne individua 9: interesse-eccitazione, piacere-gioia, sorpresa-spavento, distress-pena, paura-terrore, vergogna-umiliazione, disprezzo-disgusto, rabbia-furore, nausea-disgusto. Questa lista di emozioni si avvicina molto a quella che propone Izard (1977) che però prende in considerazione anche il senso di colpa. Ekman e Friesen

(1971) ne individuano 6: rabbia, tristezza, gioia, disgusto e sorpresa. A queste Ekman (1992) ne ha successivametnte aggiunte tre: imbarazzo, incanto ed eccitazione. Plutchik (1980) ne considera invece 8, che sono: gioia, accettazione, paura, sorpresa, tristezza, disgusto, rabbia e anticipazione. Johnson-Laird ed Oatley (1992) individuano 6 emozioni fondamentali: gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto e desiderio. In particolar modo, ognuna di queste emozioni sarebbe causata da alcune categorie generali di eventi. La felicità corrisponde alla percezione di un avvicinamento ad un obiettivo mentre la tristezza corrisponde al mancato raggiungimento di questo. Proviamo rabbia quando un piano è ostacolato. La paura invece è la conseguenza di un obiettivo contrastante oppure di una minaccia alla propria sicurezza. Il disgusto corrisponde alla percezione di qualcosa che deve essere rigettato mentre, infine,  il desiderio corrisponde alla percezione di qualcosa da avvicinare.

Ekman (1992) ha proposto che le emozioni di base siano delle famiglie di emozioni cioè come dei gruppi di emozioni che condividono caratteristiche comuni. Per esempio, la famiglia della rabbia corrisponderebbe a 60 espressioni di ira diverse tra di loro ma che condividono tutte alcune caratteristiche quali sopracciglia più basse ed aggrottate simultaneamente, palpebre superiori sollevate e muscoli delle labbra irrigiditi.  Plutchik (1980) ha proposto invece un modello dove le 8 emozioni fondamentali da lui individuate sono disposte all’interno di un cerchio. La posizione che ognuna di queste emozioni occupa all’interno del cerchio è in relazione alla similarità che possiede rispetto alle altre. Ad esempio, la gioia è situata all’opposto della tristezza ma adiacente all’anticipazione e all’accettazione. Proprio come colori primari due emozioni primarie che si fondono danno origine ad una nuova emozione secondaria che Plutchik chiama diadi. Si parla di diadi primarie se le emozioni mischiate tra di loro sono adiacenti, di diadi secondarie se sono separate da un emozione, di diadi terziarie se sono separate da due emozioni e così via. Per esempio, l’ottimismo è considerato una diade primaria in quanto somma di gioia e anticipazione a differenza della delizia che è una diade terziaria essendo la derivazione dell’incontro tra gioia e sorpresa.

Tuttavia la distinzione tra emozioni di base e complesse non è stata universalmente accettata. Tra le critiche più dure vi è quella apportata da Andrew Ortony e Terrence Turner (1990) che puntano il dito sull’ampia discordanza che si trova in letteratura che riguarda quali siano le emozioni cui sia attribuibile lo stato elettivo di fondamentale. Per questi studiosi non ha senso descrivere la realtà in termini di emozioni primarie e secondarie. In alternativa, propongono che una risposta emozionale completa sia piuttosto il risultato di un insieme di componenti biologici e psicologici. In particolare, emozioni diverse deriverebbero da diverse configurazioni di valutazioni emozionalmente significative e altri elementi costituenti della stessa. Di conseguenza, non è necessario vedere le emozioni come se fossero generate da  altre emozioni.

Tuttavia, LeDoux (1996) ha a sua volta criticato le argomentazioni di Ortony e Turner (1990), infatti l’appraisal può essere sia psicologico che biologico. In seconda istanza, se certe componenti delle reazioni sono innate non significa che non lo siano anche certi livelli superiori di espressione.

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

 

 

 

 

 

 

Emozioni: Quando si decide con il cuore

Emozioni: Quando si decide con il cuore

L’interesse della psicologia per le emozioni si può far risalire addirittura alle origini della psicologia medesima. Già, James (1884), più di un secolo fa apriva un suo celebre trattato chiedendosi che cosa fossero le emozioni. Ancora oggi non si è trovata una risposta che metta d’accordo tutti gli studiosi. Una delle possibili cause di questa difficoltà a definire le emozioni in psicologia potrebbe essere l’enorme mole di teorie e modelli differenti proposti dagli studiosi. Per esempio, come ha osservato Kagan (2006), una delle discipline che si è incentrata di più sulle emozioni è la psicanalisi, ma questa ha generato un suo specifico vocabolario, provocando uno sbarramento a tutti coloro che non appartenevano a questa corrente.

Una definizione, nonostante tutto, abbastanza accettata è quella di Lang (1995) che definisce l’emozione come “una vasta disposizione a rispondere che può comprendere un comportamento linguistico misurabile, azioni manifeste organizzate e un sistema fisiologico (somatico e viscerale) di supporto per tali eventi”.

In passato, James (1884) e Lange (1885) avevano proposto che le emozioni fossero la conseguenza di una reazione fisiologica. Questa teoria, che prese il nome di Teoria Periferica di James-Lange, faceva sue alcune considerazioni di Charles Darwin (1872). Secondo Darwin alcuni comportamenti eseguiti volontariamente dai nostri antenati erano divenuti col tempo automatici. Questi comportamenti, vantaggiosi per la sopravvivenza della specie, erano stati trasmessi per via ereditaria fino ad arrivare ai giorni nostri.

La Teoria di Lange-James rappresentava l’esatto contrario della concezione allora più in voga, sostenuta tra gli altri da Wundt, secondo cui le emozioni sono la causa delle reazioni fisiologiche e non l’effetto. Tuttavia non passò molto tempo perché tale teoria si affermasse.

Ci vollero gli studi di due fisiologi inglesi, Cannon (1927) e Bard (1929), che potevano avvalersi di tecniche e conoscenze ai tempi di James e Lange non ancora disponibili, perché venisse dimostrata l’infondatezza di tale teoria. Cannon (1927), in particolare, dimostrò che la separazione dei visceri dalla corteccia cerebrale tramite resezione midollare non impediva che si manifestassero emozioni nel gatto.  Secondo Cannon e Bard, dunque,  l’attivazione dei meccanismi responsabili delle reazioni emotive comportamentali e l’attivazione dei centri corticali superiori, responsabili dell’attività cosciente, erano mediati dai centro talamo-ipotalamici. In altre parole, la valutazione cognitiva, in inglese appraisal, ha un ruolo fondamentale nel mediare tra l’emozione e l’attivazione fisiologica.

Schacter e Singer (1962) portarono ulteriore supporto alla Teoria Centrale di Cannon-Bard dimostrando il ruolo chiave dell’interpretazione cognitiva nel determinare l’emozione elicitata.

In un esperimento somministravano ai loro partecipanti una dose di adrenalina, dicendo loro che si trattava di una vitamina speciale e che si volevano valutare le sue capacità benefiche sulla vista. Si diceva inoltre che perché la vitamina facesse effetto occorreva aspettare un tempo di 20 minuti. Dunque ai partecipanti veniva chiesto di accomodarsi in sala d’attesa. Mentre i soggetti attendevano la seconda parte dell’esperimento entrava un altro partecipante il quale per alcuni appariva manifestamente euforico, per altri invece piuttosto arrabbiato. I partecipanti informati dei possibili effetti collaterali della finta vitamina erano meno propensi a conformarsi all’attività di questo partecipante. L’adrenalina è un neurotrasmettitore associato ad un aumento del battito cardiaco, dilatazione dei bronchioli ed altre reazioni fisiologiche tipiche di un emozione forte. A differenza di quanto postulato dalla Teoria Periferica di James-Lange la sola reazione fisiologica associata alla somministrazione di questa sostanza non era sufficiente perché fosse elicitata un emozione. Inoltre, come sostenuto da Cannon e Bard, l’interpretazione cognitiva del contesto aveva un ruolo fondamentale nel determinare il tipo di reazione emotiva sperimentata dai partecipanti.

Più recentemente, Siemer, Mauss e Gross (2007) hanno dimostrato in uno studio che l’appraisal è condizione sufficiente e necessaria per determinare differenti emozioni. A differenza di Schacter e Singer (1962), Siemer e colleghi hanno usato una tecnica d’induzione dell’emozione standardizzata per tutti i partecipanti. Nel loro esperimento i partecipanti vedevano un film neutro di 5 minuti e subito dopo dovevano eseguire una prova che consisteva in 3 ripetizioni. Al termine di questa prova i soggetti ricevevano un feedback sociale negativo da parte dello sperimentatore che diceva loro che dovevano ripetere il compito. La particolarità è che i partecipanti sentivano la voce dello sperimentatore attraverso un citofono e questa era stata registrata in precedenza in modo che risultasse uguale per tutti. Come si aspettavano Siemer e colleghi, i partecipanti rispondevano alla stessa situazione con emozioni anche molto differenti tra di loro. Dunque, sembrerebbe che la differente interpretazione data ad una stessa situazione possa indurre persone diverse ad avere reazioni emotive differenti.

Già a partire dagli anni ’60, l’appraisal è stato incorporato come antecedente fondamentale delle reazioni emotive in molte teorie cognitive. Magda Arnold (1961) è stata la prima a proporre una teoria che prendesse in considerazione l’appraisal come antecedente fondamentale della reazione emotiva. In particolare la Arnold ha proposto che l’interpretazione di una situazione sia istantanea, diretta e non intenzionale e sarebbe strettamente connessa alla tendenza all’azione, percepita come un emozione.   Lazarus (1991a, 1999) ha proposto una teoria secondo la quale il significato, costruito al di fuori di una relazione in corso tra la persona e l’ambiente, e l’obiettivo che crea un coinvolgimento emotivo in quella situazione, sono fondamentali perché un emozione sia elicitata. Lazarus (1991b) ha proposto anche che esistano due tipi diversi di appraisal: un appraisal primario e un appraisal secondario.

    • L’appraisal primario interviene quando è avvenuto qualcosa di rilevante per il benessere della persona.
    • L’appraisal secondario invece è strettamente connesso con una valutazione delle strategie di coping a disposizione per far fronte  al problema.

 

Queste due tipologie di valutazione cognitiva sono allo stesso tempo distinte e connesse e variano in continuazione in funzione dei feedback derivanti dall’ambiente in cui ci si imbatte in conseguenza del fatto che questo stesso è in continuo mutamento. Lazarus (1991b), per enfatizzare la circolarità di questo processo ha proposto anche un terzo tipo di valutazione cognitiva: il reappraisal. Questo tipo di appraisal, infatti, non è altro che la reinterpretazione del cambiamento della relazione persona-ambiente in funzione degli altri altri due tipi di appraisal.

Un alternativa fenomenologica alla Teoria di Lazarus è stata proposta da Nico Frijda (1986), per il quale il processo emotivo che porta da un evento stimolo ad una risposta manifesta coincide con un processo di elaborazione dell’informazione che attraversa un percorso di sette fasi.

La prima fase, detta analizzatore coincide una codifica e rilevazione dell’informazione derivante dall’evento stimolo. Se è possibile questa codifica avviene in termine di eventi noti e nei termini di ciò che l’evento può implicare per quanto riguarda la sua causa o il suo effetto.

    • A questa fase, segue il comparatore in cui si ha un primo appraisal che coincide con una valutazione della rilevanza dell’evento stimolo. Questa valutazione avviene in funzione di quelli che sono gli interessi (concerns) del soggetto.

Nella terza fase, detta diagnosticatore si ha un secondo appraisal che coincide con una valutazione del contesto che ha la funzione di fornire una diagnosi di quelle che sono le possibili strategie di coping.

Segue dunque il valutatore che, in base a quanto emerso nelle prime tre fasi, fornisce una valutazione dell’urgenza, dell’emergenza e della difficoltà della situazione.

Dunque, il suggeritore d’azione in base all’informazione prodotta genera una preparazione all’azione, che preme per avere il controllo o se ne appropria.

Seguono, più o meno in maniera parallela, le fasi del generatore del cambiamento fisiologico, che predispone all’azione suggerita precedentemente, e dell’attore, che coincide con la selezione di un azione manifesta o cognitiva.

Nel modello proposto da Frijda (1986) ogni fase del processo centrale, prima di sfociare nella successiva, è influenzata da input diversi dall’evento stimolo e da un processo di regolazione dell’emozione.

Come Arnold (1960), Lazarus (1991a) e Frijda (1986) anche molti altri studiosi hanno proposto teorie che si basano sull’assunto fondamentale che la valutazione cognitiva sia condizione necessaria e sufficiente perché un’emozione sia elicitata. Tuttavia, la ricerca ha messo in serio dubbio questo assunto.

Robert Zajonc (1968, 1980) è stato uno dei primi a dimostrare che le reazioni emotive possono essere elicitate anche senza un estensivo coinvolgimento dell’attività cognitiva e percettiva. Ad esempio, Zajonc ha dimostrato che l’ordine in cui vengono presentate delle parole senza senso oppure degli ideogrammi cinesi di cui non si conosce il significato è sufficiente ad influenzarne la preferenza. Infatti, nei suoi esperimenti le parole viste per prime dai partecipanti erano anche quelle valutate più positivamente. La cosa più sorprendente è che questo effetto, chiamato da Zajonc effetto attitudinale di mera esposizione, si verifica anche quando vengono usati degli stimoli subliminali (Zajonc, 1980).  I risultati di Zajonc (1968, 1980) suggeriscono non solo che l’emozione possa essere indipendente dall’appraisal ma addirittura che possa precederlo. Andando oltre, Zajonc (1980) ha proposto che pensiero e sentimento possano essere due sistemi distinti.

Le scoperte del neurologo Joseph Le Doux (1996) hanno confermato quest’ipotesi. In particolare, Le Doux ha scoperto che nel meccanismo che porta all’apprendimento della paura esistono due vie neurali. Una via “alta”, più lenta, che dal talamo va alla corteccia, sede dell’elaborazione cognitiva, prima di andare all’amigdala. Una via “bassa”, più veloce, che va direttamente dal talamo all’amigdala. Questi dati forniscono un’ulteriore controprova del fatto che la cognizione sia un antecedente necessario per l’emozione.

Del resto, già il premio nobel alla medicina Hess (1957) aveva dimostrato che è sufficiente la diretta stimolazione del tessuto cerebrale perché siano elicitate delle emozioni.

Proprio studi come questi hanno portato Carrol Izard (1993) a proporre un modello alternativo alle teorie della valutazione cognitiva. Questo modello propone che esistano quattro diversi sistemi di attivazione dell’emozione che sono di tipo cognitivo, neurale, sensomotorio e motivazionale. Queste quattro componenti sarebbero tra loro indipendenti ma allo stesso tempo continuamente operative e in interazione tra loro al fine di far si che vengano mantenuti i nostri tratti di personalità oppure che venga elicitata una nuova emozione adeguata alle informazioni derivanti dall’ambiente. Izard ha anche proposto che i processi neurali siano presenti in tutti i processi di attivazione delle reazioni emotive e in alcuni casi possano anche agire in maniera indipendente.

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

 

 

 

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: introduzione

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto

Introduzione

Non accade di raro  in una piazza oppure una stazione di una grande città trovarsi davanti ad una schiera di mendicanti,venditori ambulanti, buskers, volontari in cerca di offerte per una qualche buona causa. Una parte di noi  donerebbe qualcosa a tutti, un’altra ci ricorda che se eccedessimo nella nostra generosità finiremmo rapidamente per essere al verde.

In situazioni come queste le persone spesso si trovano immerse in un bagno di emozioni sia positive che negative.

Molte ricerche hanno focalizzato la loro attenzione su come questi affetti influenzino le persone quando devono decidere se fare o non fare una donazione.

Tuttavia solo di recente si è cominciato a studiare anche il ruolo giocato dalle differenze individuali nell’elaborazione di questo affetto.

In questo lavoro viene presentato il primo esperimento che mostra il ruolo fondamentale dell’Intelligenza Emotiva di tratto(IE di tratto) nel moderare il comportamento altruistico.

In particolare, viene mostrato che l’IE di tratto gioca un ruolo chiave nel mediare la percezione di successi ed insuccessi. Per questo studio, inoltre, ci si è serviti di un paradigma di ricerca innovativo.

In questo paradigma i partecipanti dovevano affrontare al computer cinque prove consecutive, in ognuna delle quali dovevano salvare un bambino in pericolo di vita. Dopo ognuna di queste prove i partecipanti sapevano se erano riusciti a salvare questo bambino.

 

In realtà la percezione di efficacia in questa serie di compiti era manipolata. In una condizione, ai partecipanti veniva detto sempre che erano riusciti a salvare il bambino, nell’altra, al contrario, veniva sempre detto che non riuscivano a salvare il bambino. Venivano misurate sia la velocità che l’accuratezza con cui i partecipanti eseguivano il compito. I risultati hanno dimostrato che persone con alta e bassa IE di tratto reagivano in modo diverso alla manipolazione sperimentale. In questa tesi, prima di entrare nel dettaglio di questo esperimento ne verranno mostrati approfonditamente i presupposti teorici.

Nel primo capitolo, “Quando si decide con il cuore: il potere delle emozioni”, verranno illustrate le principali questioni teoriche e concettuali riguardanti le emozioni. Per prima cosa, verranno esposte le principali teorie riguardanti il processo mediante il quale viene elicitata una reazione emotiva. In secondo luogo, verrà affrontata la distinzione tra emozioni di base ed emozioni complesse. Infine, vedremo come le emozioni influenzino il modo in cui prendiamo decisioni.

Nel secondo capitolo, “Che cos’è l’altruismo?”, vedremo da vicino la questione sull’esistenza di un altruismo puro, che affonda le sue radici nella scuola di Atene e che è stata dibattuta da pensatori di ogni epoca fino ad arrivare all’affascinante duello Batson-Cialdini. Vedremo anche come le emozioni possano guidare il nostro comportamento morale e più in specifico quello altruistico.

 

Nella terza parte di questo capitolo vedremo anche come la ricerca abbia cominciato a focalizzare l’attenzione sulle differenze individuali nel modo in cui vengono elaborate queste emozioni e quindi anche nel modo in cui ci spingono ad adottare un comportamento altruistico.

Nel terzo capitolo, “Intelligenza Emotiva”, sarà presa in considerazione l’Intelligenza Emotiva di tratto e verrà mostrato, il Trait Emotional Intelligence Questionnaire (TEIQue; Petrides e Furnham;2000), un questionario che ne permette la misurazione.

Inoltre, verranno mostrati alcuni studi che oltre a testimoniare la validità di questo strumento, mostrano che l’intelligenza emotiva di tratto si può collocare al livello più basso delle gerarchie di personalità.

Solo dopo questa rassegna teorica, nel quarto capitolo, “Intelligenza Emotiva ed Altruismo: Un esperimento”, verrà mostrato un esperimento che mostra il ruolo moderatore dell’intelligenza emotiva nel comportamento altruistico quando le persone incorrono in ripetuti successi e quando incorrono in ripetuti insuccessi.

Infine, il quinto capitolo, “Discussione”, sarà presa in considerazione un analisi ed una lettura approfondita dei risultati trovati, con un particolare riguardo  per le implicazioni che possono derivare da questo esperimento.

 

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

 

 

 

 

 

 

Motivi della menzogna

Motivi della menzogna

 

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Motivi della menzogna: cosa ci spinge a mentire ?

 

Fonte: Studio Castello Borgia

 

Chiunque mente (la media è ogni 10 minuti di conversazione), ma ognuno di noi utilizza una specifica e personale modalità , ciò significa che, tendenzialmente ognuno di noi quando mente, tenderà ad utilizzare sempre la stessa modalità di comunicazione

Diversi sono i fattori che influenzano la tipologia di modalità:

– le caratteristiche personali

– le caratteristiche di chi si cerca di ingannare

– il contesto

– lo scopo della menzogna

 

Affinché si possa raggiungere il nostro obiettivo, quindi mentire ed influenzare il prossimo, le tecniche migliori sono la dissimulazione e la simulazione (o falsificazione).

La dissimulazione è l’omissione di una parte del discorso che viene nascosta, praticamente una mezza verità. In realtà non è una vera menzogna, ma all’atto pratico si tralascia unaparte per esaltarne un’altra portando così ad una globale esposizione (e comprensione per il nostro interlocutore) ingannevole.

Esempi di dissimulazione : a metà, omissione, fuorviamento.

    • Nella prima si tralasciano dei dettagli (come intuibile dal termine);
    • nella seconda si nasconde un fatto a chi ha diritto di saperlo (un classico esempio lo troviamo nelle omissioni coniugali),
    • mentre nell’ultima tipologia si distrae l’attenzione di chi ascolta, deviando il discorso su altro o inventandosi una scusa che chiuda la comunicazione.

 

La simulazione o falsificazione non porta omissioni, ma vere e proprie alterazione della realtà/verità.

Non è facile, poiché implica una certa coerenza comunicativa (non si può cambiare la versione dei fatti con altre persone o con la stessa in tempi diversi) e perché no, un certo impegno di fantasia.

 

Esempi di simulazione: quella di finzione e quella di contraffazione.

    • Quella di finzione fa, appunto, finta di provare, pensare o compiere qualcosa; è una finta empatia.
    • La contraffazione, fa credere che 2 o più persone o cose, siano uguali o simili.

 

Motivi menzogna

 

Vi siete mai chiesti perché si mente?

 

Quali sono i motivi che ci spingono a mentire verso una persona?

 

 

 

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© Motivi della menzognaDott. Andrea Castello – Dott.ssa Borgia Irene

 

 

Menzogna: come capire se mente?

Menzogna: come capire se mente?

 

 

Fomte: Studio Castello Borgia

 

 Espressioni_1

 

 

La menzogna si scopre osservando il comportamento che assume il bugiardo: quello che dice e come lo dice.

 

La comunicazione non verbale globale del nostro interlocutore, è fondamentale per capire se mente oppure no; un errore dato da alcuni indizi rivelatori potrebbe essere fondamentali per capire e scoprire se mente,

Purtroppo non sempre riusciamo a scoprire qualcosa, poiché esistono microespressioni facciali, atteggiamenti, movimenti ed insieme di azioni così piccole e apparentemente insignificanti, da essere ignorate.

Dobbiamo individuare gli  indizi di menzogna, ed esistono 2 tipi di Indizi di menzogna:

    1. Indizi rivelatori (segni che mettono a nudo la verità)
    1. Indizi di falso (segni che fanno solo sospettare la menzogna e sui quali si deve verificare)

Gli indizi di falso e gli indizi rivelatori sono dati dal linguaggio del corpo e da tutta la comunicazione non verbale che comprende, paraverbale (tono, volume, velocità, timbro, pause  e ritmo della voce) e la comunicazione verbale, che comprende i famosi lapsus del bugiardo.

La certezza di questa approccio è che ‘più informazioni abbiamo, più indizi avremo per controllare se il nostro interlocutore dice il vero’.

Più indizi di menzogna avremo più la nostra valutazione sarà attendibile

La menzogna si scopre osservando il comportamento che assume il bugiardo: quello che dice e come lo dice.

 

Triangolazione

 

 

Un vecchio detto afferma che “le bugie hanno le gambe corte”… ma perché le bugie falliscono ?

 

 

 

 

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© Menzogna: come capire se mente ? –  Dott. Andrea Castello – Dott.ssa Borgia Irene

I comportamenti dei bugiardi

I comportamenti dei bugiardi

 

I comportamenti dei bugiardi

 

Fonte: Studo Castello Borgia

 

 

 

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Quante volte ci è capitato di dubitare di quello che ci diceva il nostro interlocutore? magari inconsciamente, senza capire il perché, semplicemente avevamo la sensazione che “non ce la contasse giusta” e mentalmente ci dicevamo “non mi convince, c’è qualcosa che non quadra …”.

 

Questo accade quanto, in generale, il nostro interlocutore comunica in modo incongruente, cioè quando la sua comunicazione non verbale (il linguaggio del corpo) non coincide (è diversa o addirittura contraria) alla comunicazione verbale, per esempio quando la persona a voce dice si ma con la testa dice no facendo movimenti laterali.

 

Anche se sembra che non ci accorgiamo di tali incongruenze, le percepiamo a livello inconscio e, sulla base di queste “percezioni a livello di pelle” (spesso le definiamo in tal modo), iniziamo a farci un’idea e a costruirci un “giudizio” sulla persona. La conseguenza sarà che leprossime volte che parlerà o agirà partiremo già prevenuti (pregiudizio). Spesso tali pregiudizi influenzano le nostre relazioni anche se si rivelano infondati, ma sono il frutto delle nostre esperienze pregresse.

 

Per ridurre questi errori di valutazione, è indispensabile concentrarsi sulle variazioni del comportamento delle persone con cui ci relazioniamo, indagarne e valutarne il linguaggio del corpo. In questo modo eviteremo giudizi affrettati e assoluti.

 

E’importante valutare correttamente, poiché grazie al nostro pregiudizio, filtriamo ogni tipologia d’informazione, prendendo decisioni e comportandoci di conseguenza.

 

Di seguito, una tabella con alcuni indizi comportamentali di menzogna e …..

 

 

 

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© I comportamenti dei bugiardiDott. Andrea Castello – Dott.ssa Borgia Irene

 

 

Quando un’emozione è falsa ?

Quando un’emozione è falsa?

 

Fonte: Studo Castello Borgia

 

 

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In base a ciò che abbiamo visto in precedenza nell’articolo delle 6 emozioni primarie è facile intuire quando un’emozione non è veritiera. Tuttavia esistono altri indizi rilevatori, che possono essere preziosi al fine di scoprire la verità (che vedremo nello specchietto riportato in questo articolo).

Per riconoscere le emozione vere da quelle false, esiste il FACS.

Il Facial Action Coding System (detto in sigla FACS) è un sistema che serve e ci aiuta a catalogare e distinguere i movimenti del volto umano. La classificazione di tali movimenti nasce da un anatomista svedese: Carl-Herman Hjortsjo, tale classificazione è poi stata ricodificata da Paul Ekman e Wallace V. Friesen nel 1978 ed aggiornati sempre dagli stessi insieme a Joseph C. Hager nel 2002.

Happiness

Il FACS tramite l’analisi delle microespressioni facciali ci aiuta ad identificare lo stato interno ed emozionale della persona.

In altri termini, l’analisi dei micromovimenti generati dal volto umano ci fornisce indicazioni su sulle emozioni che il soggetto sta vivendo. Conoscerle, può farci capire meglio l’altro ed identificare eventuali menzogne o incongruenze.

Attribuendo una combinazione di codici corrispondenti a determinati micromovimenti facciali (chiamati Action Unit) effettuati dalla persona è possibile stabilire in base alla presenza od assenza di tali Action Uniti (AU) se un’emozione è vera o simulata

 

La falsificazione di un’espressione la possiamo trovare nei seguenti indizi:

 

 

 

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© Quando un’emozione è falsaDott. Andrea Castello – Dott.ssa Borgia Irene

 

 

Le sei emozioni primarie

Le sei emozioni primarie

Fonte: Studio Castello Borgia

Secondo gli studi del dott. Elkman e del Dott. Friesen, esistono sei emozioni principali:

– felicità
– paura
– rabbia
– disgusto
– tristezza
– sorpresa

Queste sono emozioni innate che ritroviamo in qualsiasi popolazione anche se diverse tra loro, per questo motivo i due ricercatori le definirono emozioni primarie (universali).

Nell’immagine sopra, possiamo vedere un esempio di queste emozioni sul volto di altrettanti volti.

Darwin, per  primo aveva ipotizzato l’universalità delle espressioni basandosi sulla osservazione delle emozioni nei primati.In effetti, l’espressione delle emozioni avviene tramite l’attivazione di una serie di muscoli (di tutto il corpo), negli animali, così come nell’uomo.

Quest’ultimo possiede però una maggiore abilità nel controllo dei movimenti muscolari, soprattutto delle espressioni facciali, tramite 46 muscoli che risultano il principale vettore di comunicazione emozionale.

Seppure l’uomo possa adottare una particolare espressione facciale volontariamente, esistono due diversi circuiti nervosi per i muscoli facciali, di cui uno involontario, l’altro no, quindi fuori dal nostro controllo consapevole.

Infatti l’attivazione di una particolare emozione è in grado di mettere in azione anche i circuiti involontari, per questo motivo è impossibile negare completamente l’espressione di una emozione: alcuni muscoli si attiveranno comunque, anche se magari solo per un breve istante.

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© Le sei emozioni primarieDott. Andrea Castello – Dott.ssa Borgia Irene