La sindrome dell’impostore

La sindrome dell’impostore è ciò che ci mette i bastoni tra le ruote.

 

La sindrome dell’impostore, quella sensazione che forse anche chi sta leggendo ha, che i successi siano arrivati per sbaglio, che non si siano davvero meritati e che qualcun* potrebbe scoprirlo in ogni momento e smascherarci.

Il lavoro pionieristico che ha scoperto la sindrome dell’impostore è quello delle studiose Pauline Clance e Suzanne Imes che, nel loro pionieristico lavoro di analisi di 250 donne con eccelsi risultati accademici erano convinte che i risultati fossero arrivati per un errore, uno sbaglio della commissione.

Questo lavoro parla di donne e della difficoltà che esse hanno nel raggiungere determinati risultati. Donne che raggiungono voti eccelsi, standard di formazione e training elevatissimi, ma che continuano a credere che ci sia stato un errore, che loro non meritino i risultati che hanno ottenuto.

Negli studi originali viene riportata la situazione di una delle donne prese in carico che, arrivata alla discussione di tesi di dottorato, era finalmente sollevata del fatto che avrebbe fallito e avrebbe smesso di essere “un’impostora”, dopo tutti quegli anni in cui era evidente che era lì senza meritarselo.

Deaux (1976) esplora per prima la presenza della sindrome dell’impostore in donne e uomini e nota, con grande meraviglia, varie cose:

  1. le donne hanno internalizzato perfettamente lo stereotipo per il quale non possono raggiungere determinati risultati eccelsi quanto gli uomini;
  2. mentre gli uomini attribuiscono il loro successo a delle capacità interne e abilità le donne lo attribuiscono a un caso fortuito, a un errore della commissione che le sta giudicando, sentendosi impostore;
  3. il fallimento per gli uomini viene vissuto come causato da una situazione esterna (un compito troppo difficile, troppo poco tempo) mentre per le donne viene visto come una mancanza di qualità e caratteristiche interne (non sono abbastanza intelligente, non sono sufficientemente preparata);
  4. nonostante i ripetuti successi la donna rimane comunque convinta che i traguardi che ha raggiunto non siano farina del suo sacco e che prima o poi la scopriranno per quello che è.

Le studiose sono andate ad analizzare le differenti tipologie di famiglie in cui le donne sono cresciute e in cui è germinata la sindrome dell’impostore. Sostanzialmente ne hanno trovate di due tipologie. La prima famiglia in cui la persona più intelligente tra fratelli e sorelle non era lei ma sempre qualcun altro che, in realtà, aveva sempre successi e riconoscimenti minori dei suoi. La seconda in cui lei stessa era la persona più intelligente, capace, bella di tutte le altre, i cui genitori dicevano che sarebbe riuscita a raggiungere qualunque cosa, così alla prima cosa non raggiunta sono crollate.

I differenti tipi di esperienze familiari portano allo stesso risultato, con la differenza che nel primo caso nelle donne rimane comunque la voglia di riuscire a farcela, nonostante sappiano che non sono mai abbastanza per il loro obiettivo. Nel secondo caso, invece, le donne si sentiranno sempre non in grado di farlo e sempre sull’orlo del tracollo e di essere scoperte.

La sindrome dell’impostore è un problema solo femminile?

La risposta è: no!

Da delle review che raggruppano tutti gli studi che trattano l’argomento (a prescindere dallo strumento utilizzato per misurarlo e dall’età del campione preso in considerazione) hanno trovato dei punti molto interessanti che dobbiamo assolutamente tenere a mente.

Innanzi tutto la sindrome dell’impostore si può trovare trasversalmente sia negli uomini che nelle donne, in quasi egual misura. La sindrome dell’impostore si presenta solo in tempistiche e in modi differenti per gli uni e per gli altri, ma li affligge allo stesso modo.

Un particolare interessante emerso da questi studi è che la sindrome affligge maggiormente le minoranze etniche.

Da dove nasce il fenomeno della sindrome dell’impostore.

La sindrome radicata all’interno delle nostre culture in modo profondo e che iniziamo a internalizzare all’incirca intorno ai 7/10 anni d’età.

E’ quello il momento in cui viene insegnato che ruolo abbiamo nella nostra società, in cui impariamo che cosa deve fare una donna e che cosa deve fare un uomo, in cui apprendiamo che chi è diverso da noi deve essere trattato in modo diverso.

Le disparità si radicano dentro di noi e ci insegnano che dobbiamo avvicinarci ad uno standard culturale che ci viene imposto altrimenti non saremo mai dei veri uomini e delle vere donne.

Ad esempio Margaret Mead (1947) osserva che una donna di successo e indipendente è vista come “una forza ostile e pericolosa all’interno della società”. Gli studi di Martina Horner’s (1972) che supportano i risultati e le osservazione di Margaret Mead, vedono il fatto che i successo per una donna sia fonte di paura e disagio. I suoi studi suggeriscono che, spesso, per paura di essere rigettate dalla società ed essere considerate meno femminili, non ci provano neanche.

Gli uomini, probabilmente, si trovano ad affrontare il risvolto dello stesso stereotipo. Laddove è l’uomo che deve portare avanti la cultura patriarcale, essere sempre infallibile e non mostrare alcun segno di cedimento è evidente che, al primo inevitabile scricchiolio che a tutti accade nelle vite, inizia ad instillarsi il dubbio di non avere le qualità per essere nel punto in cui si è.

Un problema culturale radicato in molte persone che si trovano ad essere convinte di non meritare quello che hanno e che, un giorno o l’altro, verranno scoperte da chi en sa più di loro. Due lati dello stesso problema, seppur in forme differenti, che si ripercuote sulle vite delle persone.

Allo stesso modo le minoranze etniche hanno lo stesso problema. Esse, infatti si vedono in base allo stereotipo della stessa minoranza, che non può rivestire determinate posizioni di rilievo o ottenere dei risultati importanti.

Quali sono i sintomi della sindrome dell’impostore?

Questa sindrome causa una serie di sintomatologie che a lungo andare posso portare a situazioni gravi come il burnout.

C’è un alto tasso di comorbidità con depressione, ansia, una bassa stima di sé stessi, sintomi somatici e disfunzione sociale. Negli studi ce hanno coinvolto gli studenti universitari c’era un alto tasso di persone con pensieri suicidari o con degli effettivi tentativi precedenti di suicidio.

Anche lo stesso burnout porta con sé tutta una serie di problematiche e sintomatologie molto gravi.

Bisogna quindi stare molto attenti perché questa sindrome strisciante e dilagante, che affligge tutte le persone all’interno di una società è pericolosa.

Che cosa fare in caso di sindrome dell’impostore?

Far emergere questa sindrome non è facile anche nei confronti di noi stessi. Ammettere che crediamo che i nostri risultati non siano merito nostro è qualcosa di complicato da raggiungere, figuriamoci dirlo anche a qualcun altro.

Il sapere che, in qualche modo, siamo tutti sulla “stessa barca” dovrebbe aiutare a smorzare la tensione. Serve a vedere nell’altra persona non più un competitor ma qualcun* che nel profondo può capirci e vive le stesse cose che viviamo noi.

Andare a parlare con un* psicolog* è un passaggio fondamentale per andare alla radice della sindrome, per riuscire a sbarazzarsene una volta per tutte.

Un modo molto utile con cui si può agire all’interno delle aziende è creare dei gruppi di confronto. Qui le persone si possano parlare liberamente e condividere le proprie difficoltà lavorative e parlare della sindrome stessa. Il sapere che anche le altre persone la vivono come te è rincuorante, permette di non sentirsi soli e isolati come invece accade per la sindrome.

La sindrome dell’impostore fa parte di quello che in PNL chiameremmo ‘credenza limitante’, una credenza profondamente radicata in noi che non ci permette di crescere e di goderci la nostra vita. E’ una situazione che può non solo impedirci di raggiugnere il nostro risultato e obiettivo ma anche che, una volta raggiunto, ci impedisce di goderne i frutti. Chi ne soffre non prova quel senso di ‘scopo nella vita’ che dovremmo invece riuscire a raggiungere.

Il primo passo è renderci conto che la sindrome esiste, anche se non ha ancora una voce a sé stante in nessun manuale diagnostico. Prendere consapevolezza che potremmo averla anche noi e chiedere aiuto parlandone con qualcuno e un professionista sono le tappe obbligate per riuscire a raggiungere i nostri obiettivi.

 

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I quit!

Il fenomeno dei licenziamenti di massa

I licenziamenti di massa sono una problematica che sta toccando anche il nostro paese.

Chiamata originariamente ‘The Great Resignation’, i licenziamenti di massa, è un fenomeno che vede, dal 2021, un numero crescente di persone licenziarsi dal proprio posto di lavoro.

E’ un fenomeno peculiare sotto vari punti di vista. In primis per il fatto che le persone hanno cambiato il proprio modo di comportarsi riguardo al lavoro e in secundis perchè le aziende si trovano a confrontarsi con le lacune che hanno per tantissimo tempo spazzato sotto il tappeto sperando che sparissero.

Ne abbiamo già parlato molte volte prima, in un’ottica di benessere del personale, di che cosa abbia bisogno una persona per stare bene all’interno di una realtà aziendale. Il tutto poi rientra sotto l’ombrello del concetto di benessere e clima organizzativo (Avallone).

La cura della persona per il suo benessere e non lo sfruttamento dell’essere umano finalizzano all’esclusivo guadagno aziendale, con conseguente impoverimento organizzativo.

Le aziende non si riescono a tenere le persone perchè non le curano, perchè ancora, nonostante ci siano i mezzi e gli strumenti per dare valore al proprio capitale umano, li vedono come ingranaggi da sfruttare. Così le persone si licenziano.

Quali sono i comportamenti che fanno sentire i dipendenti sfruttati?
  • Non condividere gli obiettivi aziendali, o gli obiettivi del gruppo di lavoro, con loro
  • Non dare dei premi produzione a tutti (e non come generalmente viene fatto, solo al reparto commerciale)
  • Non salutare, non vedere, non conoscere mai nessuno dei propri dipendenti (sembra una cosa scontata ma abbiamo ho scoperto, con grande imbarazzo non esserlo)
  • Offrire solo ciò che è obbligatorio per legge
  • Non curarsi delle dinamiche interne dei gruppi e lasciare che il mobbing e il burnout dilaghino negli uffici.

La soddisfazione della persona scende, non si sente capita, ascoltata, si trova in un ambiente che diventa sempre più ostile e a nessuno interessa.

Ovviamente la persona se ne va. E quando questo succede su grande scala le persone si licenziano in massa. Perchè la cultura organizzativa è qualcosa che viene pienamente condiviso, trasversalmente, da differenti aziende.

Che cosa dovrebbe fare l’azienda per tenersi i propri dipendenti?
  • Interpellarli e ascoltarli. In fondo sono loro che sanno perchè se ne stanno andando, perchè non chiederglielo?
  • Dargli delle formazioni e dei servizi in più, che contemplino la cura mentale e fisica della persona
  • Fare attenzione ai rapporti interni dei vari gruppi
  • Eseguire delle analisi di clima ogni tot tempo
  • Trovare modalità per motivare i porpri dipendenti e farli sentire parte della stessa squadra.
Possono sembrare tutte cose scontate, che potreste trovare anche nei Baci Perugina, eppure dalla nostra esperienza abbiamo visto che le varie organizzazioni non si rendono conto di problematiche semplici.

Si parte da un piccolo neo per arrivare ad un tremendo problema insormontabile, in questo caso di licenziamenti di massa.

Dalla parte delle persone, dei dipendenti, ci possono essere varie motivazioni che hanno comportato il loro licenziarsi in massa.

Innanzi tutto la situazione che ho elencato prima, quello che le aziende fanno e non fanno, ha sempre pesato e pesa tutt’ora sul personale. Il fatto che le aziende non si prendano cura delle persone al proprio interno è un qualcosa che il dipendente sa e, finalmente e giustamente, non gli va più giu.

Bisogna dare attenzione ai propri dipendenti e al porprio team, è su di loro che si basa la nostra azienda e da cui dipendono successo e fallimento.

D’altro canto una realtà pandemica della durata infinita e dal termine incerto hanno portato le persone a modificare le porprie priorità. Molti si sono resi conto che il mondo frenetico, questa continua corsa consumistica ad aumentare sempre di più, non gli permetteva di fare molte altre cose nella vita.

Si sono accorti che, rimanendo a casa a lavorare e avendo più tempo per loro, non avevano più tanta voglia di recarsi in un ambiente lontano quando potevano benissimo svolgere il porprio lavoro dal salotto.

Molti hanno trovato nello stare in casa la loro dimensione.

Quali possono essere stati i vantaggi di questo smartworking obbligato e, per certi versi, positivo?

Possiamo provare a fare qualche ipotesi, ad esempio che le persone:

  • si sono potute organizzare il lavoro e le tempistiche della giornata lavorativa come più si confaceva a loro
  • hanno potuto somministrarsi un orario flessibile
  • hanno scoperto che possono restare in contatto con le persone con cui vogliono mantenere i rapporti ugualmente anche da casa
  • si sono potute allontanare da ambienti tossici
  • hanno ritrovato l’importanza di restare in una comfort zone, dove possiamo essere noi stessi e svilupparci
  • hanno perso l’interesse per ambienti che non rispettavano loro stessi

Nonostante tutte le pecche che può avere la situazione di lavoro da casa, ha indubbiamente notevoli vantaggi, sia per la persona singola che per la natura e lasocietà.

Quindi, concludendo riguardo alla questione dei licenziamenti di massa, non solo sono cambiate le proiorità delle persone, in modo lampante e generalizzato, è anche cambiato il mondo in cu queste priorità si sviluppano.

Bisogna rimettersi in pari a quelle che sono le nuove necessità, il nuovo mondo del lavoro e dei dipendenti, capire cosa dare e come darlo.

Vedremo quali realtà metteranno in pratica queste accortezze.

Burnout, lavoro emozionale: Limiti e Bibliografia

Burnout, lavoro emozionale: Limiti e Bibliografia

 

L’obiettivo iniziale di questa ricerca era quello di analizzare il ruolo del lavoro emozionale in ambito sanitario, in particolare l’attività svolta dagli infermieri, che la letteratura ha riconosciuto come professione più sottoposta a questo fenomeno (Bolton, 2001).
Tuttavia la ridotta numerosità dei partecipanti alla ricerca non ha consentito di indagare in maniera approfondita tutte le dimensioni del lavoro emozionale, pertanto, con l’obiettivo di contribuire ad un incremento di studi quantitativi relativi alle considerazioni emerse da indagini qualitative, è stata analizzata la frequenza e l’intensità delle manifestazioni emotive tra uomini e donne.
Un ulteriore limite è dovuto all’impossibilità di effettuare un confronto tra i settori di impiego degli infermieri coinvolti nella ricerca, in quanto il campione non era abbastanza ampio per permettere dei confronti tra unità operative differenti.
Sempre per lo stesso motivo si è scelto di indagare il ruolo della dimensione surface acting, intesa come una modalità di regolazione della dissonanza emotiva, che la letteratura ha riconosciuto come maggiormente associata all’insorgenza della sindrome di burnout.
Le percentuali di varianza spiegata non sono molto alte, tuttavia sono risultate significative e permettono quindi di ipotizzare future ricerche che seguano la traccia qui impostata, consentendo, tramite l’impiego di campioni più ampi, di meglio studiare gli effetti qui riscontrati.
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Burnout e lavoro emozionale-Ambiti di ricerca futuri: il contagio emotivo

Burnout, lavoro emozionale e ambiti di ricerca futuri: il contagio emotivo

 

 

Dalla rassegna condotta da  Bakker e Westman (2008) sul crossover di burnout tra gli operatori di cura emerge che il fenomeno che il burnout si possa trasferire da un individuo ad un altro non è nuovo. Gli autori invitano ad operare una distinzione concettuale tra i termini crossover e contagio emotivo, precisando che la ricerca sul crossover  si è concentrata principalmente sul  trasferimento di stress e tensione dai lavoratori ai partner, e viceversa, mentre la  ricerca sul contagio emotivo ha origine in laboratorio, ed è stato applicata allo studio del trasferimento del burnout dai dipendenti al loro colleghi.
Il contagio emotivo è stato definito come la tendenza a imitare in modo automatico e sincronizzare espressioni facciali, vocalizzazioni, posture e movimenti con quelli di un altra persona e di conseguenza convergere emotivamente (Hatfield, Cacioppo e Rapson, 1994; p.5 cit. in Bakker e Westman 2008). L’enfasi in questa definizione è su un processo non-conscio  di contagio emotivo. La ricerca ha infatti dimostrato che, nelle conversazioni, le persone automaticamente imitano le espressioni facciali, voci, posture e comportamenti degli altri. Vi è, tuttavia, un secondo modo in cui le persone possono catturare le emozioni altrui. Il contagio può verificarsi anche attraverso un processo cognitivo cosciente di sintonizzazione alle emozioni altrui. Questo processo si verifica quando una persona cerca di immaginare come si sarebbe sentita nella posizione di un altro, e, di conseguenza  esperire gli stessi sentimenti.
La prima indicazione empirica per un effetto socialmente indotto di burnout  deriva da Rountree (1984, cit. in Bakker e Westman 2008 ) che ha studiato 186 gruppi di lavoro in 23 organizzazioni trovando che l’ 87,5% degli impiegati con i  punteggi più elevati di  burnout  lavoravano in gruppi di lavoro in cui almeno 50% del personale era in una simile fase avanzata di burnout e che anche  bassi punteggi di burnout hanno mostrato una tendenza simile ma con cluster meno marcati.
Sulla base di analoghi risultati Stevenson e coll. (1986, citato in Bakker & Schaufeli, 2000) hanno concluso che “… l’affinità dei gruppi di lavoro per i punteggi estremi sembra sostanziale” (p. 184). Quindi, gli individui con punteggi molto alti o molto bassi di burnout possono essere trovati spesso all’interno di un gruppo di lavoro, suggerendo la possibilità che i membri del gruppo di lavoro “si infettino con il virus del burnout”.
Tuttavia, come suggerito da Bakker e colleghi (2005) il risultato di trovare all’interno di un gruppo di lavoro individui con punteggi molto alti o molto bassi di burnout non implica necessariamente un processo di contagio emotivo, ma potrebbe invece essere imputabile all’elevato  carico di lavoro di quel gruppo.
Uno studio più sistematico volto ad indagare  l’ipotesi che la sindrome di burnout sia contagiosa è stato condotto da Bakker , Le Blanc e Schaufeli (2005) su un unità diinfermieri di terapia intensiva. Gli infermieri  di  dodici paesi europei (N=1.849)  hanno compilato un questionario per valutare le condizione di lavoro e benessere indicando al contempo la prevalenza di burnout tra i loro colleghi.
Le variabili analizzate in questo studio furono: domanda lavorativa, carico di lavoro oggettivo per gli infermieri, denunce di burnout percepita tra colleghi, burnout.
L’analisi della varianza ha indicato che la varianza tra gruppo su una misura di burnout percepito tra i colleghi era statisticamente significativa e sostanzialmente più grande della varianza all’interno dei gruppi. Ciò implica che vi sia un accordo considerevole  nell’unità di terapia intensiva per quanto riguarda la prevalenza di burnout. Inoltre, i risultati delle analisi multilivello hanno mostrato che le denunce di burnout tra colleghi nelle unità di terapia intensiva hanno dato un contributo statisticamente significativo e unico a spiegare la varianza nelle esperienze individuali  dell’infermiere del burnout, ossia esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale. Inoltre, sia per esaurimento emotivo e depersonalizzazione, le denunce di burnout percepite tra i colleghi sono state il fattore predittivo più importante del burnout a livello individuale, anche dopo aver controllato l’impatto dei fattori di stress organizzativo come concettualizzati nel modello di domanda-controllo.
Gli autori hanno concluso che il  burnout è contagioso dato che può essere trasferito da un infermiere a un altro.
Un altro studio che ha testato l’ipotesi che il burnout possa trasferirsi da un individuo all’altro è quello condotto da Bakker, Westman e Schaufeli, (2007) articolato in due studi sperimentali.
Nel primo studio gli insegnanti vennero esposti in modo casuale ad un finto articolo di giornale, in cui un collega forniva la sua esperienza negativa del suo lavoro (condizione di burnout) o ad un tema non correlato al lavoro (condizione di controllo). I risultati dimostrarono che coloro che avevano partecipato alla condizione sperimentale (burnout) avevano punteggi più alti nelle dimensioni dell’esaurimento e della depersonalizzazione rispetto ai partecipanti alla condizione di controllo. Un setting analogo venne impostato per il secondo studio su un campione di soldati, da cui emerse che il contagio di burnout è intensificato dalla somiglianza  con la persona stimolo.
Hatfield e coll. (1994, cit. in Bakker e Westman, 2008 ) hanno sostenuto che vi sono circostanze diverse nelle quali le persone dovrebbero essere particolarmente suscettibili al contagio emotivo, come, per esempio, prestare attenzione agli altri e percepire se stessi in interazione ad altre persone piuttosto come indipendenti e unici. Tenuto conto dell’aumento  nelle organizzazioni di modelli di squadra è infatti probabile che i dipendenti sperimentino maggiori livelli di interdipendenza, diventando maggiormente sensibili agli stati emotivi dei propri colleghi. Dalle rassegna sul contagio emotivo tra gli health care professional condotta da  Bakker e Westman (2008) emerge che le condizioni che rendono più probabile il contagio emotivo sono:
Empatia, Westman e Vinokur (1998, citato in  Bakker & Westman ,2008)  hanno sostenuto che l’empatia può essere un moderatore del processo di contagio. Starcevic e Piontek (1997, cit. in  Bakker & Westman, 2008) definiscono l’empatia come la comunicazione interpersonale, che è prevalentemente di natura emotiva ed implica la capacità di essere influenzati dallo stato affettivo degli altri. Questa variabile non è stata testata direttamente in relazione al burnout, ma uno studio condotto da Bakker e Demeruti (2009), su un campione di 175 coppie di lavoratori tedeschi, ha ipotizzato che l’empatia fosse un moderatore del crossover del work engagement, considerato come il diretto opposto del burnout.  In questo studio l’empatia venne misurata usando due scale dell’interpersonal reactivity index (Davis, 1980, cit in Bakker e Demeruti 2009). La prima volta a misurare la tendenza ad adottare il punto di vista di un’altra persona nella vita quotidiana (perspective taking),  la seconda a misurare la tendenza a esperire sentimenti di preoccupazione e compassione per le altre persone (empathic concern). Nello specifico  gli autori trovarono che solo la prima dimensione dell’empatia aveva un effetto di moderazione.
Suscettibilità,  Bakker e Schaufeli (2000) nel loro studio su 154 insegnanti tedeschi di scuola superiore, hanno ipotizzato che la suscettibilità personale degli insegnanti al contagio aumentasse il rischio del contagio di burnout. Nello specifico si ipotizzò che gli insegnati che erano maggiormente vulnerabili alle emozioni e agli stati d’animo negativi espresse dai loro colleghi avessero maggiore probabilità di essere a loro volta affetti da burnout. Questa variabile venne misurata  attraverso sette item della scala sul contagio emotivo sviluppata da Stiff e al. (1988, citato in Bakker & Schaufeli, 2000)
Frequenza degli scambi di opinione, questa variabile è stata analizzata da Bakker e Schaufeli (2000) i quali hanno testato l’ipotesi che la prevalenza di burnout tra colleghi avesse un impatto positivo sull’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e la riduzione del’efficacia personale per quegli insegnati che frequentemente parlavano con altri relativamente ai problemi correlati al lavoro. Questa variabile venne misurata con quattro item riferiti alla frequenza con la quale gli insegnanti parlavano con i loro colleghi dei problemi incontrati nel loro lavoro. L’analisi di questo processo, non esplorato nella presente ricerca,  potrebbe configurarsi pertanto come suggerimento per future ricerche.

 

 

Burnout e lavoro emozionale: Discussione

Burnout e lavoro emozionale: Discussione

 

I risultati di questa ricerca hanno cercato di evidenziare che la componente emotiva non può essere trascurata all’interno di valutazioni connesse con la prevenzione del disagio lavorativo.
Si tratta di aspetti di notevole criticità in quanto non prescindibili dalla tipologia di lavoro dei professionisti sanitari, che come questa ricerca ha cercato di evidenziare, sono soggetti a un lavoro emozionale.
Gli interventi di prevenzione pertanto dovrebbero configurarsi in maniera compensativa, non essendo modificabile la natura del lavoro.
La relazione riscontrata tra la dissonanza emotiva e la soddisfazione lavorativa potrebbe rappresentare il perno su cui esercitare una leva in termini di intervento da parte del management delle organizzazioni, essendo quest’ultima fortemente correlata con la prestazione lavorativa.
Dai risultati di questa ricerca emerge inoltre che particolare attenzione dovrebbe esser posta al target femminile di popolazione che, rispetto al target maschile, manifestano emozioni più intense e più frequentemente, probabilmente per aspettative legate al proprio ruolo come suggerito da Gray (2009).
Tuttavia, i risultati più significativi che emergono da questa ricerca sono le relazioni esistenti tra la componente di regolazione delle emozioni, dell’adattamento dei propri sentimenti ai sentimenti desiderati, e le dimensioni di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotto senso di riuscita professionale. 
Tali implicazioni rivestono un ruolo cruciale per lo specifico ambito in cui si inseriscono, essendo emerso dalle ricerche qualitative sul lavoro emozionale che il processo di guarigione di un paziente Henderson (2001) è correlato all’attività assistenziale svolta dagli infermieri.
Un ulteriore aspetto capace di giustificare la necessità di porre il focus di attenzione su questa tematica, deriva dagli studi condotti sulla trasferibilità della sindrome del burnout tra i lavoratori, i quali hanno evidenziato che i rischi relativi al burnout lavorativo non siano circoscritti al singolo lavoratore, ma essendo quest’ultimo in relazione con altri lavoratori, è possibile trasferire  i propri stati d’animo, incrementando la potenzialità lesiva di questa sindrome.
Si riporta di seguito una breve rassegna su questo aspetto con l’obiettivo si presentare l’indagine di questa dimensione come possibili ricerche future.

Burnout e lavoro emozionale:Risultati

Burnout e lavoro emozionale: Risultati

I risultati dell’Anova Univariata hanno dimostrato che i gruppi con diversa anzianità lavorativa hanno punteggi diversi in relazione alla domanda emotiva, cosi come è possibile riscontrare in tabella, dalla quale ad esempio si evince che i lavoratori con un’anzianità lavorativa che va dai 0 ai 5 anni hanno valori più alti (m=1.72; ds=.68) rispetto ai lavori con un’ anzianità lavorativa oltre i 21 anni (m= 1.47; ds= .82).

Figura 6. Confronto tra operatori con diversa anzianità lavorativa in relazione alla domanda emotiva

Tuttavia le differenze tra i gruppi considerati non risultano significative (F(3,149) = 1.393, sig= 247) per cui non si può attribuire all’anzianità lavorativa la differenza tra questi ultimi, risultato che suggerisce che nonostante l’acquisizione di esperienza, la percezione di stressrelativo alla domanda emotiva rimane invariato.

Per quanto riguarda la seconda ipotesi, i risultati dell’indagine preliminare di  correlazione tra la dissonanza emotiva e la soddisfazione lavorativa, hanno rilevato una correlazione negativa tra le due variabili (r = -.186; sig =  .022; vedi Figura 5). Sulla base di questo risultato è possibile affermare che, come ipotizzato, all’incrementare della dissonanza emotiva diminuisce la soddisfazione lavorativa  e  viceversa all’incrementare della soddisfazione lavorativa, diminuisce la dissonanza emotiva. Tuttavia, tale risultato, non  permette di affermare che la presenza di dissonanza emotiva comporti una riduzione della soddisfazione lavorativa. Per sostenere tale ipotesi è stata pertanto condotta un analisi della regressione lineare.

I risultati di questa analisi hanno confermato l’esistenza di una relazione lineare negativa tra le due variabili (Beta = -.186, t= -2.32, sig = .022). Osservando il valore di R quadro corretto (R2 =.03), inoltre è possibile affermare che la dissonanza emotiva spiega circa il 3% della varianza della soddisfazione lavorativa.

Per la verifica della terza ipotesi, utilizzando il t-test abbiamo, rilevato che vi sono differenze significative tra le medie delle donne e quelle degli uomini nella frequenza di manifestazioni emotive (t(52) = -3.475; p= .001). Nello specifico, in media le femmine (m= 3.68; ds= .77 ) manifestano emozioni più frequentemente rispetto ai maschi (m= 2.90; ds= .85).

Il secondo confronto effettuato ha rilevato anche una differenza significativa nell’ intensità delle manifestazioni emotive rispetto al genere (t (51) =-2.105; p =.040). Nello specifico i risultati mostrano che in media le femmine (m = 3.102; ds =.998) manifestano emozioni più intense dei maschi (m = 2.526; ds =.873). Si può pertanto considerare verificata la terza ipotesi. Per quanto riguarda i risultati della quarta ipotesi si riportano di seguito i risultati delle tre regressioni lineari effettuate.

Figura 7. Risultati regressioni lineari

Note: **p< .01; * p<.05

La misura di quanto sia buona la previsione dell’insorgenza dell’esaurimento emotivo, della depersonalizzazione e del senso di riuscita professionale che riusciamo ad effettuare conoscendo i valori della regolazione superficiale delle emozioni è fornita dal coefficiente di determinazione R quadrato, i cui i valori variano da 0 a 1, dove zero indica che il modello non aita a conoscere i valori delle variabili dipendenti e 1 che il modello permette di determinare tutti i valori delle variabili dipendenti. In questo caso si sono ottenuti valori relativamente piccoli del coefficiente di determinazione ma comunque significativi. Il che significa che il modello permette una previsione causale delle dimensioni del burnout.

Come si evince dalla tabella il surface acting è un predittore positivo dell’esaurimento emotivo e la percentuale di varianza spiegata è del 13%. La percentuale di varianza spiegata invece sulla dimensione della depersonalizzazione è del 17%. Per quanto riguarda invece l’effetto del surface acting sul senso di riuscita professionale si evince una relazione negativa, per cui per un incremento del surface acting, ci si aspetta un decremento del senso di riuscita professionale. La percentuale di varianza spiegata è del 10%. Pertanto si può considerare verificata la quarta ipotesi.

 

 © Il ruolo delle emozioni in ambito sanitario: Lavoro emozionale e job burnout – Lucia Scotese

Burnout e Lavoro Emozionale: Analisi dei dati

Burnout e Lavoro Emozionale: Analisi dei dati

 

Per verificare la prima ipotesi è stato effettuato un confronto tra le medie, per verificare se esistono differenze significative tra i lavoratori con diversa anzianità lavorativa rispetto alla percezione che questi ultimi hanno della domanda emotiva.
A tal proposito, essendo la variabile indipendente (anzianità lavorativa) misurata su scala ordinale, e la variabile dipendente (domanda emotiva) misurata su scala a intervalli, è stata condotta un’Anova Univariata. Questo test permette di confrontare le medie di due o più gruppi confrontando la variabilità interna a questi gruppi con la variabilità tra i gruppi.
Per la verifica della seconda ipotesi è stata condotta un’analisi preliminare della correlazione tra le variabili dissonanza emotiva e soddisfazione lavorativa.
Il coefficiente di correlazione descrive il legame tra due variabili e, attraverso un indice, esprime l’intensità di questo legame. Essendo misurate a livello di scala a intervalli, il coefficiente di correlazione utilizzato è la “r” di Pearson. La significatività del risultato ottenuto ha giustificato l’ipotesi di una relazione causale tra la dissonanza emotiva e la soddisfazione lavorativa, motivo per cui successivamente è stata condotta un analisi della regressione lineare, che ha previsto come variabile indipendente la dissonanza emotiva e come variabile dipendente la soddisfazione lavorativa. A differenza della correlazione l’analisi di regressione lineare consente di stabilire se e in quale misura un cambiamento nella variabile indipendente determina un cambiamento nei valori della variabile dipendete.
Per la verifica della terza ipotesi, sull’esistenza di differenze significative tra maschi e femmine nella frequenza delle manifestazioni emotive e nell’intensità di queste ultime, sono stati effettuati due confronti tra le medie dei gruppi attraverso  il t-test per campioni indipendenti.
Anche per la quarta ipotesi, come per la seconda, si è partiti dall’analisi della correlazione (per pre-testare la validità di una relazione lineare tra la surface acting e l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e il ridotto senso di riuscita professionale (H.4).
Come è possibile riscontrare in Figura 5 esiste una correlazione positiva tra la surface acting e la depersonalizzazione (r = .432; sig = .001), una correlazione positiva tra surface acting e esaurimento emotivo (r = . 390; sig = .004) e una correlazione negativa tra surface acting e il ridotto senso di riuscita professionale (r= -.351; sig =.018). Pertanto ha senso ipotizzare una relazione causale, analizzabile con una regressione lineare.

Burnout e Lavoro Emozionale: Partecipanti e strumento

Burnout e Lavoro Emozionale: Partecipanti e strumento

Partecipanti

La presente  ricerca è stata condotta su 156 operatori sanitari, prevalentemente infermieri. Su tali dati verranno verificate le prime due ipotesi. Il 35.9% sono uomini e il 63.5% sono donne. I rispondenti hanno un età compresa tra i 23 e i 57 anni (media = 36.58; deviazione standard = 8.02 ). Riguardo l’anzianità lavorativa, la distribuzione è quella mostrata nelle tabella sottostante.
Figura 3. Distribuzione dei partecipanti in base alla loro anzianità lavorativa (N =156 )
Per quanto riguarda lo stato civile il 34.6% è coniugato, il 55.1% è nubile/ celibe, mentre il restante dichiara di essere convivente, separato, divorziato o libero. La maggior parte dei rispondenti non ha figli (69.2%), il 16.7% ne ha uno, il 10.9% ne ha due e il 2.6% ne ha tre.
Per quanto riguarda la distribuzione dei partecipanti secondo la qualifica professionale si rileva che il 3.8% sono infermieri coordinatori, l’89.1% sono infermieri, mentre la restante percentuale si compone di tecnici di laboratorio (0.6%) tecnici di radiologia (1.9%) e della prevenzione (0.6) e fisioterapisti (1.9%).
Il campione su cui verranno verificate le ipotesi relative al lavoro emozionale, si compone di 21 maschi e 35 femmine. L’età media è di 36,28 anni (ds = 7,44).
 Figura 4. Distribuzione dei partecipanti in base alla loro anzianità lavorativa (N =56)
Il 10.7% sono infermieri coordinatori, il 69.6% sono infermieri, il 5.4% sono fisioterapisti, la stessa percentuale si riscontra per i tecnici di radiologia, l’1.8% sono tecnici della prevenzione e l’1.8 sono i tecnici di laboratorio.
Per quanto riguarda lo stato civile il 30.4% è coniugato, il 58.9% è nubile/ celibe, l’8.9% è libero. Il 73,2% non ha figli, il 14,3%, il 5.4% ne ha due e la restante percentuale ne ha tre.
 Lo Strumento
Per misurare le variabili oggetto dell’indagine è stato utilizzato parte del questionario costruito sulla base della letteratura nazionale e internazionale dal  gruppo di ricerca di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni dell’ Università di Bologna, utilizzato in una ricerca condotta nel 2009 con l’obiettivo di individuare la presenza di criticità legate a fattori di rischio psicosociale e gli indicatori di disagio, di stress e di malessere organizzativo all’interno di un contesto ospedaliero.
Le dimensioni indagate in questa ricerca sono:
Dissonanza emotiva.  È stata misurata attraverso 4 item (ad esempio, “Devo esprimere emozioni positive nonostante io provi irritazione e rabbia.”), rispetto ai quali i partecipanti dovevano indicare quanto spesso provavano quell’esperienza (1 = mai o di rado;  2 =  2-3 volte al mese; 3 = 2-3 volte alla settimana; 4 = quasi tutti i giorni). Punteggi alti indicano un livello alto di dissonanza emotiva (Agervold &Mikkelsen, 2004) ;
Soddisfazione per il lavoro. Costituisce uno degli esiti più importanti del lavoro. È stato considerato come principale indicatore della qualità dell’esperienza lavorativa e del raggiungimento dei risultati attesi sia dalla persona che dall’organizzazione  È stata misurata attraverso un singolo item: “Complessivamente è soddisfatto del lavoro che svolge?” La risposta è stata data sulla base di una scala a 5 intervalli (1 = per niente soddisfatto; 5  = completamente soddisfatto ) (Wanous, Reichers e Hudy, 1997);
Domanda emotiva. E’  stata misurata attraverso  la scala adattata da Gray-Toft e Anderson (1981)  composta da 7 item per misurare il carico emotivo che le attività svolte quotidianamente dal personale sanitario comportano (relazionarsi con utenti sofferenti, dover comunicareesiti spiacevoli, il rapporto con la morte). Un esempio di item è  “Le capita di adottare procedure che per i pazienti rappresentano esperienze dolorose?”. La scala si compone di 5 livelli (0 = no; 1= si, ma non mi sento stressato; 2 = si e mi sono sento un po’ stressato; 3 = si e mi sento stressato; 4 = si e mi sento molto stressato );
Burnout. E’ stato misurato utilizzando un adattamento  della versione del Maslach Burnout Inventory (Maslach, e Jackson, 1981). Si compone di 16 item relativi alle tre diverse sotto dimensioni: esaurimento emotivo (“Si sente emotivamente logorato dal suo lavoro”),  depersonalizzazione (“Da quando ho cominciato a lavorare qui sono diventato più insensibile con la gente”),  ridotto senso di realizzazione professionale (“Penso di essere bravo/a nel mio lavoro”). Prevede una scala di risposta a 6 livelli dove 0=mai e 6=ogni giorno;
Per la rilevazione delle dimensioni del lavoro emozionale, oggetto di indagine di questo studio è stata utilizzata l’“Emotional labour scale” elaborata da Brotheridge e Lee (2003). La ELS  utilizza una scala Likert a 5 livelli con le seguenti risposte: mai (1), raramente (2), a volte (3), spesso (4), sempre (5). Le dimensioni sono: frequenza,  intensità , varietà,  durata dell’interazione, azione profonda (deep acting ) e di superficie (surface acting).
Nello studio di validazione degli autori le stime di consistenza interna (Alpha di Cronbach) per ciascuna sottoscala variavano da .74 a .91. Gli autori sottolineano l’importanza di distinguere le dimensioni surface e deep acting poiché ciascuna dimensione suggerisce uno stato interno fondamentalmente diverso e possono avere effetti differenziali sul benessere dei lavoratori. Nello specifico la surface acting comporta una spinta verso il basso dell’espressione autentica a favore di una maschera emozionale, mentre la modalità deep acting comporta una spinta di direzione opposta, nel tentativo di manifestare le emozioni richieste con un allineamento dei propri sentimenti. Lo stato finale del surface acting è un senso di inautenticità che riduce il senso di benessere. Oltre alla formulazione della scala, un ulteriore obiettivo degli autori è stato quello di esaminare come i sei aspetti di EL siano associati con le tre dimensioni del  burnout (Maslach & Jackson, 1986, cit. in Brotheridge & Lee,2003 ). I risultati hanno dimostrato che sia l’ esaurimento emotivo che la depersonalizzazione sono significativamente  correlati con la dimensione surface acting. Ciò suggerisce che la tensione emotiva è dovuta in larga parte allo sforzo  necessario  per nascondere i propri sentimenti veri  o a fingere di sentire quelli che sono stati espressi. Nello specifico della ricerca in questione, le dimensioni indagate del lavoro emozionale, relative alle ipotesi di ricerca sono:
Frequenza delle manifestazioni emotive. Un esempio di item è  “il lavoro le richiede di mostrare emozioni specifiche?”
Intensità delle manifestazioni emotive. Un esempio di item è  “esprime emozioni intense?”
Surface acting. Un esempio di item è  “finge di avere emozioni non realmente sentite”?
Si riportano di seguito i valori descrittivi delle dimensioni indagate, le correlazioni tra le variabili e i coefficienti Alpha di ciascuna dimensione.

Burnout e Lavoro Emozionale: Metodo

Burnout e Lavoro Emozionale: Metodo

 

 

Metodo
Con l’obiettivo di esplorare il ruolo del lavoro emozionale e della domanda emotiva in ambito sanitario, è stato somministrato un questionario ad un campione strategico di studenti del corso di laurea specialistica in scienze infermieristiche e ostetriche e agli studenti del master in “Management nell’Area Infermieristica e Ostetrica, Tecnico Sanitaria, Preventiva e Riabilitativa” dell’Università di Bologna.
È stata predisposta la compilazione del questionario via mail, a cui ha risposto il 40% degli studenti (N = 56).
La richiesta di partecipare alla ricerca si espressa in forma diretta e i partecipanti sono stati informati degli obiettivi generali della ricerca. Sulla base del loro interesse e adesione è stato inviato il questionario via mail, contente le istruzioni per la compilazione.
Su tale campione verranno verificate le ipotesi relative al lavoro emozionale (H.3, H.4).
Riconoscendo la limitata numerosità del campione,  per una maggiore significatività delle analisi statistiche, in relazione alla verifica delle prime due ipotesi i dati degli studenti (N = 56) saranno integrati ai  dati (N = 100) di altri operatori sanitari, ricavati da una  ricerca condotta dal gruppo di ricerca della facoltà di psicologia.
La giustificazione di tale operazione metodologia, risiede nel fatto che la presente ricerca non si pone come obiettivo un’analisi dei fattori di rischio del contesto lavorativo, per cui non risulta rilevante la provenienza dei partecipanti dal medesimo contesto.
Si intende piuttosto focalizzare l’attenzione sull’attività lavorativa, sulle peculiarità di quest’ultima, fortemente caratterizzata da connotazioni emotive e sull’incidenza di queste ultime   sulle dimensioni del burnout lavorativo.

Burnout e Lavoro Emozionale: obiettivi e ipotesi di ricerca

BURNOUT E LAVORO EMOZIONALE: QUALE RELAZIONE?

 

 

Obiettivi e ipotesi di ricerca

Questa ricerca, si propone l’obiettivo di contribuire ad un incremento in letteratura di studi centrati sul ruolo delle emozioni nei contesti professionali; in particolare di contribuire ad un incremento di studi quantitativi volti all’analisi della relazione tra il lavoro emozionale e il burnout lavorativo, nei contesti sanitari, specificatamente per quanto riguarda la professione infermieristica, che la letteratura riconosce come maggiormente coinvolta nel lavoro emozionale e che è stata studiata prevalentemente tramite l’utilizzo di metodologie qualitative.
In particolare, si propone di integrare le due prospettive di lavoro emozionale proposte, individuando il livello di domanda emotiva presente all’interno di questo ambito professionale (prospettiva job focus oriented)  e le implicazioni per il lavoratore  derivanti dall’esposizione a tale domanda (prospettiva employee-focused oriented). Nello specifico ciò che si  intende verificare è :
    • In una prospettiva job focus oriented, una differenza tra operatori sanitari con maggiore esperienza lavorativa, in relazione alla percezione della domanda emotiva, rispetto a coloro con minore anzianità lavorativa, secondo la prospettiva proposta da Smith (1992)  per il quale l’adattamento del lavoratore  alla domanda emotiva può essere concepito come una competenza che può quindi essere appresa sulla base dell’acquisizione dell’esperienza lavorativa  (H.1);
    • In una prospettiva employee-focused oriented, ma con forti ripercussioni anche in termini organizzativi , si intende verificare se la dissonanza emotiva ha un impatto sulla soddisfazione lavorativa, cosi come proposto da  Morris e Feldaman (1996) (H.2).  In letteratura, sebbene vi sia un considerevole accordo per quanto  riguarda la definizione di questo costrutto, diverse sono le posizione relative al rapporto di questa dimensione con il lavoro emozionale. Come accennato Morris e Feldaman (1996)  la intendono  come la quarta dimensione del lavoro emozionale, mentre ad esempio secondo Brotheridge e Lee (2003) la dissonanza emotiva non  viene considerata una componente del lavoro emozionale in quanto quest’ultimo non sempre comporta una dissonanza emotiva e i lavoratori possono effettivamente vivere le emozioni visualizzate (Ashforth & Humphrey, 1993). La posizione di Zapf (2002), è che essa sarebbe da considerare come una domanda lavorativa esterna, ancorata all’ambiente specifico di riferimento e alle sue situazioni sociali. Secondo l’autore,  infatti, le situazioni sociali che il lavoratore incontra non sono del tutto descrivibili in termini di regole di espressione e di parametri del lavoroemotivo (frequenza delle interazioni, durata, ecc.). In questa ricerca pertanto, sebbene venga testata l’ipotesi di Morris e Feldamn con l’obiettivo di verificare le implicazioni organizzative di tale dimensione, la dissonanza emotiva non sarà concettualizzata come componente del lavoro emozionale, mentre verrà analizzata la modalità di regolazione superficiale (surface acting), intesa come una possibile modalità di regolazione della dissonanza emotiva.
    • Di fornire un sostegno empirico alla letteratura per quanto riguarda l’esistenza di una differenza significativa fra maschi e femmine nella frequenza di manifestazione emotive e nell’intensità di queste ultime; di verificare nello specifico se le donne abbiano, per aspettative legate al proprio ruolo, maggiori manifestazioni emotive e di maggiore intensità  rispetto agli uomini. (H.3) (Gray,2009; Morris& Feldman, 1996 )
    • Sempre in una prospettiva employee-focused oriented, con l’obiettivo di porre attenzione sulle implicazioni per il benessere del lavoratore, di analizzare se il lavoro emozionale è in grado di predire l’insorgenza del burnout. Data la relativa numerosità del campione verrà presa in considerazione solo variabile surface acting e verrà analizzato l’effetto che quest’ultima ha sulle tre dimensioni del burnout lavorativo, nello specifico se la modalità di regolazione superficiale dei propri stati d’animo è in grado di predire l’insorgenza del burnout. (H.4) (Hochschild,1983; Martinez-Indigo, Totterdell, Alcover, & Holman, 2007;  Zapf & al.,2001).