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I quit!

Il fenomeno dei licenziamenti di massa

I licenziamenti di massa sono una problematica che sta toccando anche il nostro paese.

Chiamata originariamente ‘The Great Resignation’, i licenziamenti di massa, è un fenomeno che vede, dal 2021, un numero crescente di persone licenziarsi dal proprio posto di lavoro.

E’ un fenomeno peculiare sotto vari punti di vista. In primis per il fatto che le persone hanno cambiato il proprio modo di comportarsi riguardo al lavoro e in secundis perchè le aziende si trovano a confrontarsi con le lacune che hanno per tantissimo tempo spazzato sotto il tappeto sperando che sparissero.

Ne abbiamo già parlato molte volte prima, in un’ottica di benessere del personale, di che cosa abbia bisogno una persona per stare bene all’interno di una realtà aziendale. Il tutto poi rientra sotto l’ombrello del concetto di benessere e clima organizzativo (Avallone).

La cura della persona per il suo benessere e non lo sfruttamento dell’essere umano finalizzano all’esclusivo guadagno aziendale, con conseguente impoverimento organizzativo.

Le aziende non si riescono a tenere le persone perchè non le curano, perchè ancora, nonostante ci siano i mezzi e gli strumenti per dare valore al proprio capitale umano, li vedono come ingranaggi da sfruttare. Così le persone si licenziano.

Quali sono i comportamenti che fanno sentire i dipendenti sfruttati?
  • Non condividere gli obiettivi aziendali, o gli obiettivi del gruppo di lavoro, con loro
  • Non dare dei premi produzione a tutti (e non come generalmente viene fatto, solo al reparto commerciale)
  • Non salutare, non vedere, non conoscere mai nessuno dei propri dipendenti (sembra una cosa scontata ma abbiamo ho scoperto, con grande imbarazzo non esserlo)
  • Offrire solo ciò che è obbligatorio per legge
  • Non curarsi delle dinamiche interne dei gruppi e lasciare che il mobbing e il burnout dilaghino negli uffici.

La soddisfazione della persona scende, non si sente capita, ascoltata, si trova in un ambiente che diventa sempre più ostile e a nessuno interessa.

Ovviamente la persona se ne va. E quando questo succede su grande scala le persone si licenziano in massa. Perchè la cultura organizzativa è qualcosa che viene pienamente condiviso, trasversalmente, da differenti aziende.

Che cosa dovrebbe fare l’azienda per tenersi i propri dipendenti?
  • Interpellarli e ascoltarli. In fondo sono loro che sanno perchè se ne stanno andando, perchè non chiederglielo?
  • Dargli delle formazioni e dei servizi in più, che contemplino la cura mentale e fisica della persona
  • Fare attenzione ai rapporti interni dei vari gruppi
  • Eseguire delle analisi di clima ogni tot tempo
  • Trovare modalità per motivare i porpri dipendenti e farli sentire parte della stessa squadra.
Possono sembrare tutte cose scontate, che potreste trovare anche nei Baci Perugina, eppure dalla nostra esperienza abbiamo visto che le varie organizzazioni non si rendono conto di problematiche semplici.

Si parte da un piccolo neo per arrivare ad un tremendo problema insormontabile, in questo caso di licenziamenti di massa.

Dalla parte delle persone, dei dipendenti, ci possono essere varie motivazioni che hanno comportato il loro licenziarsi in massa.

Innanzi tutto la situazione che ho elencato prima, quello che le aziende fanno e non fanno, ha sempre pesato e pesa tutt’ora sul personale. Il fatto che le aziende non si prendano cura delle persone al proprio interno è un qualcosa che il dipendente sa e, finalmente e giustamente, non gli va più giu.

Bisogna dare attenzione ai propri dipendenti e al porprio team, è su di loro che si basa la nostra azienda e da cui dipendono successo e fallimento.

D’altro canto una realtà pandemica della durata infinita e dal termine incerto hanno portato le persone a modificare le porprie priorità. Molti si sono resi conto che il mondo frenetico, questa continua corsa consumistica ad aumentare sempre di più, non gli permetteva di fare molte altre cose nella vita.

Si sono accorti che, rimanendo a casa a lavorare e avendo più tempo per loro, non avevano più tanta voglia di recarsi in un ambiente lontano quando potevano benissimo svolgere il porprio lavoro dal salotto.

Molti hanno trovato nello stare in casa la loro dimensione.

Quali possono essere stati i vantaggi di questo smartworking obbligato e, per certi versi, positivo?

Possiamo provare a fare qualche ipotesi, ad esempio che le persone:

  • si sono potute organizzare il lavoro e le tempistiche della giornata lavorativa come più si confaceva a loro
  • hanno potuto somministrarsi un orario flessibile
  • hanno scoperto che possono restare in contatto con le persone con cui vogliono mantenere i rapporti ugualmente anche da casa
  • si sono potute allontanare da ambienti tossici
  • hanno ritrovato l’importanza di restare in una comfort zone, dove possiamo essere noi stessi e svilupparci
  • hanno perso l’interesse per ambienti che non rispettavano loro stessi

Nonostante tutte le pecche che può avere la situazione di lavoro da casa, ha indubbiamente notevoli vantaggi, sia per la persona singola che per la natura e lasocietà.

Quindi, concludendo riguardo alla questione dei licenziamenti di massa, non solo sono cambiate le proiorità delle persone, in modo lampante e generalizzato, è anche cambiato il mondo in cu queste priorità si sviluppano.

Bisogna rimettersi in pari a quelle che sono le nuove necessità, il nuovo mondo del lavoro e dei dipendenti, capire cosa dare e come darlo.

Vedremo quali realtà metteranno in pratica queste accortezze.

Il costo dello stress da lavoro correlato

Oggi parliamo dello stress da lavoro correlato, quali siano i sintomi e dei costi che ha sull’azienda e sulla società.

Abbiamo analizzato un la letteratura, per vedere che cosa ci dice a proprosito dei cambiamenti che sono avveuti negli ultimi tempi.

Abbiamo visto che ce ne sono stati, profondi e pervasivi, e che si sono visti in tutto il mondo senza esclusione di colpi. In qualche modo questo crea un filo che richiede dall aziende determinate qualità: la cura del proprio capitale umano.

Le realtà che non si incasellano in questi mutamenti vengono, già da tempo, scalzate via dal panorama internazionale. Quando riescono ad inserirvisi, senza che se ne accorgano, perdono mano a mao di credibilità, e affondano.

Ci sono dati, statictiche e testimonianza che ci dicono proprio questo. Il fatto che un’azienda riesca a sopravvivere senza prendersi cura delle persone è un fatto fortuito. I nodi, prima o poi, arriveranno al pettine.

Un’azienda che non si prende cura nel modo giusto delle persone al proprio interno si rende conto che aumentano alcuni dati che son un chiaro segnale della presenza di stress da lavoro correlato all’interno della stessa.

Ma quali sono questi dati dello stress e quanto viene a costare all’azienda?

Facciamo giusto una botta di conti.

L’impatto dello stress sul luogo di lavoro non va a discapito solo della persona che ne viene afflitta, causandogli malattie, infortuni sul lavoro, problemi di attenzione e quant’altro. Il problema si riflette anche sulla realtà aziendale che dovrà prendersi cura della persona che presenta questi sintomi e ne pagherà le conseguenze sotto vari punti di vista.

Innanzi tutto un lavoratore stressato è un lavoratore disattento, che commette degli errori sul lavoro e non riesce più a dare quello che dava prima. Poi il lavoratore stressato starà a casa più tempo di tutti gli altri, si assenterà senza una causa precisa da lavoro e subirà un maggiore numero di infortuni. Infine la persona stressata all’interno di un’azienda fa una pessima pubblicità della realtà aziendale all’esterno, perchè parlerà male dell’azienda con gli amici e i clienti.

Per finire potrebbe anche, se lo stress non si riassorbe nel giro di poco tempo, abbandonare il posto di lavoro per un’altro posto dove la persona viene trattata meglio. E questo costa, all’azienda, un 150-200% del salario della persona stessa.

Gli studi che sono andati a vedere quanto lo stress impatti, non solo sulla salute ma anche sul portafogli aziendale, hanno estratto una setie di numeri che sono da capogiro.

L’impatto dello stress sul lavoro costa 240 miliardi di euro l’anno circa in Italia. Ora le stime Italiane sono maggiormente fumose riguardo all’impatto effettivo della salute e del benessere organizzativo. Ci sono tantissimi studi, provenienti da ogni stato del mondo, e interessanti video di Ted, che ci spiegano proprio queste cifre.

Non vengono eseguiti degli studi scientifici così ad ampio spettro comequelli che si svolgono in America e hanno come campione moltissime realtà aziendali.

Noi partiamo dal presupporto che ogni realtà condivida lo stesso livello di rischi in quanto ha a che fare sempre con lo stesso punto: il proprio capitale umano, la gestione e la cura dello stesso.

Ci sono dei fattori, che vengono valutati con la valutazione dello stress da lavoro correlato, e che sono riconosciuti come la fotografia più oggettiva della presenza di stress in azienda: assenteismo, turnover, malattie, infortuni ad esempio sono alcuni di questi.

Il 40% del turnover complessivo delle varie realtà aziendali è causato dallo stress all’interno della realtà, per non parlare del resto della percentuale che è causato da altri fatto ben più gravi come il mobbing e il burnout.

Sono state fatte stime che l’assenteismo costi alle aziende più o meno 3.5/4 milioni ogni anno.

Sono cifre molto alte, che ogni datore di lavoro può fare velocemente.

Il costo per ogni persona che sviluppa disturbi da stress da lavoro correlato è molto alto ed estremamente evitabile, attraverso delle premure che le aziende devono avere nei confronti dei propri dipendenti.

Bisogna prendersi cura del prorpio personale, fare un’attenta analisi dei bisogni formativi e andare a monitorare attentamente il bilancio della salute organizzativa, per individuare sempre nuovi punti di miglioramento.

Per vedere qualche piano di analisi e miglioramento, per qualunque domanda a riguardo scriveteci.

Quali motivi ci spingono alla personalizzazione?

Quali motivi ci spingono alla personalizzazione?

Foto di Free-Photos da Pixabay

 

“C’è una stretta relazione reciproca tra lo sviluppare un senso di attaccamento a un luogo e il tentativo di renderlo «casa nostra» in vari modi: la funzione territoriale di esclusione degli estranei ha qui un ruolo importante come nelle relazioni precoci di attaccamento affettivo” (Baroni, 2012, p.73).

Quello che afferma Baroni apre la strada alla domanda che vogliamo porci a questo punto, ovvero quali sono le motivazioni che portano le persone a personalizzare il proprio spazio di lavoro.

Secondo Altman (1975) quando gli individui utilizzano i loro oggetti con l’intento di marcare il territorio per regolare le interazioni, allora la personalizzazione può essere considerata come un comportamento territoriale. Come riportato da Brown e Zhu (2016), i sentimenti di proprietà soddisfano importanti bisogni umani compresa la necessità di avere “un senso del luogo” e il bisogno di auto-espressione. La proprietà conferisce alla persona una sensazione di controllo, o di efficacia, sopra l’oggetto. Un sentimento di proprietà nell’organizzazione permette così di sviluppare un “senso di casa” all’interno di essa. Anche se di solito non nel senso letterale di una casa fisica, i sentimenti di proprietà creano un luogo psicologico per riposare e sentirsi al sicuro. Infine, anche gli oggetti posseduti sono usati per definire se stessi e possono essere importanti per lo sviluppo o il mantenimento della propria individualità.

È importante notare che, per sviluppare un sentimento di proprietà, le persone hanno bisogno di percepire che hanno controllo sull’oggetto, acquisire conoscenze sull’oggetto ed investire energie per l’oggetto. I comportamenti territoriali servono dunque proprio a mantenere e comunicare questo senso di proprietà su determinati oggetti all’interno dell’organizzazione. La territorialità si differenzia dalla proprietà psicologica (psychological ownership) per il fatto che i comportamenti territoriali hanno una forte componente sociale, nel senso che non sono finalizzati semplicemente ad esprimere il possesso ma proprio a definire la relazione tra la persona e l’oggetto rispetto agli altri, nel secondo caso si tratta di una percezione prettamente individuale, mentre nel primo, ribadiamo, vi è proprio l’intento di comunicare agli altri il proprio primato sull’oggetto (Brown e Zhu, 2016).

In questo senso, si possono distinguere due diverse modalità di marcare il territorio: quella orientata al controllo (control-oriented) delle interazioni e dell’accesso al proprio territorio, attraverso simboli che ne segnalano i confini, come ad esempio chiudere la porta o posizionare la scrivania in un certo modo, e quella orientata invece all’espressione della propria identità (individualoriented) attraverso foto, riconoscimenti ed altri oggetti personali, comportamenti che invece rientrano più propriamente nel concetto di personalizzazione dello spazio.

Un altro aspetto interessante, emerso dall’analisi della letteratura di Brown e Zhu (2016), è la tendenza a percepire i propri oggetti come estensioni di sé stessi e quindi a guardarli e trattarli come si guarderebbe e tratterebbe sé stessi, inclusi dunque bias e meccanismi di protezione, ecco perché capita di provare affetti positivi verso un oggetto. Le forme di individual-oriented marking si sono infatti dimostrate capaci di rendere un ambiente visivamente più piacevole e stimolante da abitare. In effetti personalizzare lo spazio può essere funzionale a diversi scopi: renderlo più familiare, marcare il territorio, rendere lo spazio esteticamente più piacevole, regolare le interazioni sociali (Noorian, 2009). Nella ricerca condotta da Noorian (2009) sono state indagate proprio le varie ragioni per cui ciascun individuo personalizza il proprio spazio; dall’analisi delle frequenze di scelta è emerso il seguente ordine, con delle differenze però in base al genere:

  • Per rispondere a necessità e funzioni specifiche dell’utente (94%)
  • Per controllare e regolare le interazioni (69%)
  • Per esprimere le emozioni individuali (63%)
  • Per esprimere la propria identità ed individualità (56%)
  • Per mostrare che quell’ufficio appartiene alla persona
  • Per motivi estetici
  • Per mostrare lo status
  • Altro

Le differenze più rilevanti rispetto al genere hanno riguardato l’item “per mostrare lo status” con 0% donne e 25% uomini e  l’item “per esprimere le emozioni individuali” con 75% donne e 50% uomini. Dalle interviste sono poi emerse altre ragioni, come ad esempio: perché influenza la soddisfazione lavorativa ed il benessere, perché rende lo spazio di lavoro più divertente e confortevole. Anche Wells (2000) ha ottenuto risultati simili rispetto al genere, ma percentuali un po’ diverse rispetto alle motivazioni:

  • Per esprimere la propria identità ed individualità (56%)
  • Per trovarsi meglio nel posto di lavoro (30%)
  • Per esprimere le proprie emozioni (16%)
  • Per mostrare che quello spazio appartiene alla persona (15%)
  • Per mostrare il proprio status all’interno dell’organizzazione (6%)
  • Per controllare le interazioni con i colleghi
  • Perché lo fanno anche gli altri

Rispetto alle differenze di genere, le analisi hanno mostrato che più donne che uomini hanno riferito di personalizzare il proprio spazio per esprimere la propria identità ed individualità, per esprimere le proprie emozioni e per sentirsi meglio nel luogo di lavoro; mentre più uomini che donne hanno riferito di personalizzare lo spazio per mostrare il proprio status.

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

La percezione di controllo sullo spazio

La percezione di controllo sullo spazio

Per quanto riguarda nello specifico il grado di autonomia e controllo dello spazio, ci teniamo innanzitutto a specificare che ciò che intendiamo in questa sede per “controllo sullo spazio di lavoro” va distinto dal concetto molto studiato di locus of control. Seppure la denominazione possa sembrare simile, i due concetti sono chiaramente differenti in quanto il controllo sullo spazio si riferisce specificatamente alla gestione dell’ambiente fisico, in particolare alla percezione di controllo piuttosto che al livello di controllo oggettivo, mentre il locus of control si riferisce alla tendenza ad attribuire i risultati ottenuti nella propria vita a fattori intrinseci od estrinseci. Un altro concetto molto affine, ma più ampio, è quello di autonomia e controllo sul lavoro, secondo Duffy l’autonomia corrisponde al grado di controllo, responsabilità e discrezione che ciascun lavoratore ha sui contenuti, i metodi, la posizione e gli strumenti del processo di lavoro (in Noorian, 2009); nel nostro caso però ci interessa focalizzare l’attenzione sul controllo dello spazio fisico, quindi possiamo dire che l’autonomia lavorativa è in un certo senso la categoria più ampia e comprensiva.

 Nonostante dalle ricerche sul controllo dello spazio di lavoro emergano risultati contrastanti, vi è infatti da un lato chi sostiene che faccia sentire i lavoratori più soddisfatti (con benefici sia a livello di comportamenti lavorativi positivi sia di commitment organizzativo), dall’altro chi invece ritiene che riduca la performance e la produttività degli individui, la tendenza generale è tuttavia quella di valutare positivamente la percezione di controllo sullo spazio lavorativo (Samani, 2015). A tale proposito, lo studio condotto da Samani (2015) ha  proprio l’obiettivo di indagare l’impatto che il controllo sullo spazio di lavoro ha sulla soddisfazione per l’ambiente e sulla performance. L’autore propone una serie di definizioni circa cosa si intenda per controllo sull’ambiente che, riassumendo, fanno riferimento alla possibilità di intervenire e modificare l’ambiente, dal punto di vista fisico, per migliorare le proprie condizioni di lavoro.

La scelta di occuparsi della soddisfazione per l’ambiente è motivata anche dal fatto che essa è in grado di influenzare la soddisfazione per il lavoro; al contrario l’insoddisfazione per l’ambiente di lavoro può portare a scarsa produttività e performance. Alla fine della sua rassegna, Samani conclude sottolineando come la percezione di controllo sullo spazio di lavoro risulti essere un fattore critico per la soddisfazione circa l’ambiente di lavoro, non solo, egli scrive anche: «il risultato di questa rassegna ha indicato l’importanza dell’ effetto dell’ambiente fisico di lavoro sul benessere, la soddisfazione e la performance delle persone. Infatti l’ambiente fisico di lavoro è in grado di influenzare  i canali informativi degli impiegati, le interazioni interpersonali e l’accesso alle conoscenze ed alle attrezzature.» (p.169). Non sorprende dunque che uno degli aspetti negativi degli uffici open-space risulti essere proprio la mancanza di controllo individuale sullo spazio: all’interno di questi ambienti infatti l’illuminazione, la temperatura e la densità sono fissati ad un certo livello, con scarse possibilità di essere modificate. Già negli anni ’80 diversi studi, nell’ambito della teoria della “Person-Environment Fit”, avevano rilevato come la percezione di autonomia e di controllo avesse effetti positivi sulla soddisfazione per il lavoro (Caplan, 1987; French, Caplan e Harrison, 1982). Secondo questa teoria l’atteggiamento e il comportamento individuale sono il risultato dell’incontro tra le caratteristiche dell’individuo e quelle dell’ambiente, che, applicato all’ambito organizzativo, è inteso come ambiente di lavoro. Tanto più armonico è questo “match”, tanto migliori sono le conseguenze in termini di soddisfazione, efficacia e benessere in generale (Cable e Edwards, 2004; Samani, 2015). Diverse ricerche hanno inoltre mostrato che oltre a soddisfazione e produttività, anche altri importanti fattori sembrano beneficiare di un buon livello di controllo sullo spazio di lavoro, quali la creatività, il morale e l’impegno verso il lavoro (Milne e Perkins, 2017; Samani, 2015). Anche la percezione di privacy sembra beneficiare del controllo sullo spazio fisico, nello studio di Smith e Kearny (1994) infatti, tra i fattori fisici in grado di influenzare la privacy nei luoghi di lavoro, vengono citati: il controllo sulla stimolazione uditiva, il controllo sulla stimolazione visiva, la luce e i colori ed il controllo sulla qualità dell’aria, la temperatura e l’umidità. Una ricerca molto interessante è quella condotta da Lee e Brand (2005), i quali si sono interessati proprio allo studio delle conseguenze – sia a livello individuale che di gruppo – della percezione individuale di controllo e di flessibilità nell’utilizzo dello spazio, le ipotesi formulate dagli autori sono quattro e riguardano la relazione tra variabili quali: il livello di distrazione percepita, la performance, la percezione di controllo sullo spazio fisico di lavoro, la coesione di gruppo, la soddisfazione per l’ambiente fisico, la propensione a lavorare da soli ed in spazi chiusi e la soddisfazione lavorativa. Da questo studio sono emersi diversi punti rilevanti in quanto sono stati esaminati molteplici aspetti associati alla percezione di controllo sullo spazio, è risultato infatti positivamente associato alla soddisfazione per l’ambiente lavorativo, alla soddisfazione per il lavoro ed alla percezione di coesione di gruppo, suggerendo quindi un impatto positivo del controllo personale anche sulla comunicazione tra colleghi. Poiché i dati non hanno supportato l’ipotesi secondo cui la distrazione percepita sarebbe negativamente correlata con l’autovalutazione della performance lavorativa, è stato ipotizzato che il problema potesse essere dovuto al tipo di misura scelta per la performance o magari al fatto che il controllo personale abbia funzionato come un moderatore della relazione tra la distrazione e la performance. Qualche anno dopo gli stessi autori hanno perciò deciso di condurre una ricerca proprio per verificare se gli effetti negativi della distrazione percepita potessero essere in qualche modo ridotti dalla percezione di controllo sull’ambiente. Gli autori hanno ipotizzato dunque che il controllo personale sullo spazio sia in grado di mediare la relazione tra la distrazione percepita e la prestazione lavorativa. In questa ricerca per “controllo sull’ambiente” gli autori hanno inteso la possibilità dei partecipanti di: scegliere l’organizzazione delle postazioni di lavoro,  personalizzare le aree di lavoro, controllare i contatti sociali e  modificare la temperatura, l’illuminazione e il processo di lavoro. Per distrazione hanno invece inteso la sensazione di essere distratti, disturbati, irritati da stimoli presenti nell’ambiente di lavoro. Come ci si aspettava, i dati hanno confermato che la percezione di controllo personale sugli aspetti fisici dell’ambiente è in grado di mediare gli effetti negativi della distrazione sulla performance lavorativa. Minore sicurezza vi è invece nell’affermare che il controllo personale medi e non moderi la relazione tra distrazione percepita e performance, in quanto, secondo gli autori, la mediazione e la moderazione potrebbero coesistere simultaneamente nella maggior parte dei contesti applicati (Lee e Brand, 2010).

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Personalizzare il proprio spazio di lavoro: quali benefici?

Personalizzare il proprio spazio di lavoro: quali benefici?

 

«La congruenza tra l’immagine di sé e quella del luogo in cui si vive fa riferimento proprio a quanto si adattano i significati e i valori associati a un ambiente fisico e l’immagine che una persona ha di sé. L’ambiente in cui viviamo, inteso come quartiere, vicinato e non solo casa di abitazione, funziona un po’ come un vestito nel dare l’immagine di come vogliamo apparire. Quando, per vari motivi, esistono discrepanze tra la place identity di una persona e il luogo fisico in cui risiede, i suoi sforzi saranno tesi a modificare l’ambiente secondo un’immagine congruente al suo sé: se non ci riesce, inevitabilmente diminuirà o cesserà l’attaccamento a quel luogo» (Baroni, 2012, p.77).

Ovviamente la possibilità di modificare l’ambiente può variare molto in base alle diverse circostanze, in ambito lavorativo ad esempio vi possono essere diverse limitazioni all’iniziativa individuale in base all’ organizzazione a cui si appartiene. Secondo Milne e Perkins (2017) non poter personalizzare il proprio spazio di lavoro sarebbe associato ad una perdita del senso di identità, come dimostrato dallo studio di Elsbach (2003) in cui gli impiegati di un’organizzazione sentivano di aver perso parte della loro identità dopo essere stati trasferiti in un ufficio in cui le postazioni di lavoro non erano assegnate individualmente. Anche nella letteratura esaminata da McGuire e McLaren (2009) si evidenzia come la personalizzazione promuova il benessere dei lavoratori permettendo la creazione di uno spazio individuale confortevole; personalizzare inoltre accrescerebbe la percezione di controllo degli individui sull’ambiente. Parallelamente, la percezione di autonomia nel lavoro risulterebbe associata alla tendenza a marcare il proprio spazio attraverso oggetti personali (spatial markers). Al contrario, percepire che l’ambiente in cui si lavora non è confortevole porterebbe ad una ridotta tendenza dei lavoratori ad utilizzare markers spaziali come indicatori della loro proprietà su quell’area (Oldham & Rotchford, 1983).

Prima di continuare tuttavia vogliamo fornire una definizione di cosa si intenda esattamente per “personalizzazione dello spazio di lavoro”: secondo Sundstrom (1986) personalizzare consiste nella decorazione o modifica volontaria di un’ambiente da parte dei suoi occupanti in modo che rifletta la loro l’identità, l’autore aggiunge anche che, quando un ambiente cambia secondo le necessità degli occupanti (individui o gruppi), allora quell’ambiente è stato personalizzato. Più recente è la definizione formulata da Noorian (2009), secondo la quale la personalizzazione dello spazio si riferisce alla scelta intenzionale di decorarlo, apporvi ornamenti, modificarlo e riorganizzarlo secondo le preferenze personali, il concetto è comunque molto simile a quello formulato da Sundstrom nel 1986. La personalizzazione può essere inoltre realizzata sia da un individuo che da un gruppo, per esprimere l’identità individuale o appunto, di gruppo. A tale proposito è interessante distinguere tre diversi livelli di personalizzazione (Noorian, 2009; Wells, 2000):

  • può essere realizzata dagli individui sul proprio spazio personale;
  • può essere realizzata da gruppi sullo spazio collettivo, per esempio nell’ufficio condiviso o rispetto alle attrezzature comuni;
  • può essere realizzata su posti o oggetti posseduti sia permanentemente, come un’auto o un computer, sia temporaneamente come il libro della biblioteca.

Nella maggior parte dei casi comunque, come anche in questa ricerca, l’attenzione viene focalizzata soprattutto sulla personalizzazione individuale del proprio spazio di lavoro. Noorian (2009) propone anche un’altra classificazione, relativa alle diverse modalità attraverso cui si può personalizzare uno spazio:

  • disporre oggetti personali nell’ambiente come piante, foto, diplomi;
  • modificare l’arredamento in modo che lo spazio risulti più confortevole (es. spostare la scrivania o cambiare la sedia);
  • aggiungere o togliere oggetti fisici dallo spazio personale (es. apporre una lampada da tavolo per migliorare l’illuminazione della scrivania oppure eliminare un pannello per creare maggiore apertura).

A tale proposito, Milne e Perkins (2017) sottolineano la distinzione tra il concetto di personalization e quello di customization, in realtà la differenza è molto sottile e richiama una distinzione che ha origine prevalentemente in ambito virtuale e che si può tradurre nell’ambiente fisico in questi termini: volendo fare degli esempi, possiamo dire che con il concetto di personalization si indica la possibilità di scegliere la postazione che si adatta meglio alle caratteristiche di personalità e di portarvi oggetti personali, mentre per customization si intende più che altro il livello di controllo e di autonomia nel gestire il proprio spazio e le attrezzature a disposizione,  quindi ad esempio poter regolare la luce, la seduta, lo schermo del pc e l’altezza della scrivania. In questa ricerca tuttavia si parlerà più semplicemente di personalizzazione intesa come concetto comprensivo di entrambi gli aspetti, facendo fede alle definizioni di Sundstrom (1986) e Noorian (2009). Non tralasceremo comunque di occuparci nello specifico dell’aspetto relativo al grado di controllo e di autonomia nel gestire lo spazio e le attrezzature – quello che appunto sarebbe più vicino al concetto di customization.

Come riportato nelle ricerche esaminate da Noorian (2009), la personalizzazione dello spazio sarebbe in grado di prevenire lo stress correlato al lavoro, di favorire l’espressione della propria identità, il benessere e  la soddisfazione sia per l’ambiente di lavoro che per il lavoro in sé e per sé. Inoltre sarebbe emersa anche un’associazione positiva  tra la personalizzazione e l’organizational commitment (Wells, Thelen, & Ruark, 2007). Ma in che termini la personalizzazione riuscirebbe a favorire il benessere? Come sostenuto da Noorian (2009): «generalmente la personalizzazione dello spazio è considerata come un comportamento territoriale che influisce sul benessere della persona in modi diversi» (p.116) come:

  1. Proteggere l’utente dalle conseguenze psicofisiologiche negative derivanti dalla scarsa regolamentazione della privacy, come ad esempio malattia, stress e ansia.
  2. Permettere ad una persona di esprimere le proprie emozioni e la propria personalità (attraverso la personalizzazione dello spazio) con benefici a livello di benessere generale;
  3. Migliorare la sensazione di controllo personale sullo spazio, così da aumentare la soddisfazione lavorativa e ridurre lo stress.

Se è vero che la personalizzazione dello spazio salvaguarda i dipendenti da conseguenze negative a livello fisico, fisiologico e psicologico, allora viene da chiedersi se sia in grado di influenzare positivamente questi aspetti.

Gli studi esaminati da Wells (2000) suggeriscono la possibilità che la personalizzazione favorisca il benessere per varie ragioni:

  • in quanto rappresenta una forma di espressione delle emozioni,
  • poiché serve a far sentire i lavoratori più “umani” anziché dei “criceti nella ruota”,
  • perché ricorda la vita al di fuori dell’ufficio,
  • perché aiuta a combattere lo stress inspirando un senso di rilassamento,
  • perché conferisce un senso di controllo personale,
  • perché semplicemente rende lo spazio più gradevole,
  • perché aiuta a sviluppare una forma di attaccamento affettivo all’ambiente di lavoro.

Oltre a ciò, come già illustrato, viene sottolineato il ruolo della personalizzazione nel favorire la soddisfazione per l’ambiente di lavoro, a sua volta associata alla soddisfazione per il lavoro, elemento fondamentale in quanto negativamente correlata ad ansia, depressione e sensazioni di inadeguatezza. In effetti la soddisfazione per il lavoro risulta essere correlata positivamente con la salute fisica, tanto che sembra essere il principale indicatore dell’aspettativa di vita delle persone (Wells, 2000). Parallelamente a questo punto di vista, Steele (1986) afferma che le organizzazioni che non consentono ai dipendenti di personalizzare il proprio spazio di lavoro danno loro la sensazione  che  l’assenza di una loro traccia fisica simboleggi  l’assenza della loro influenza nell’organizzazione. Nello suo studio Wells (2000) propone un interessante modello (riportato in figura 3), supportato anche dai risultati, della relazione tra personalizzazione, soddisfazione ambientale e lavorativa, benessere e genere, ipotizzando che la personalizzazione sia direttamente associata alla soddisfazione ambientale,  che sarebbe  correlata con la soddisfazione lavorativa, a sua volta in relazione con il benessere.

Figura 3. Modello delle relazioni tra personalizzazione, genere, benessere degli  impiegati e benessere dell’organizzazione. (da Wells, 2000)

Per quanto riguarda il genere, secondo l’autrice vi sarebbero delle differenze tra uomini e donne nella tendenza a personalizzare il proprio spazio, ipotesi sostenuta anche da Noorian (2009). Dalla ricerca di Noorian (2009) è infatti emerso che, come maschi e femmine si differenziano negli stili comunicativi, così avrebbero modalità di personalizzazione differenti: le donne tenderebbero a personalizzare il loro spazio per lo più con oggetti estetici, come piante, fiori, foto, oggetti personali etc., mentre gli uomini preferirebbero apporvi oggetti che simboleggiano i loro traguardi ed il loro status. Sia maschi che femmine sarebbero invece d’accordo circa l’importanza di personalizzare il proprio spazio. La ricerca di Wells (2000) suggerisce inoltre che le differenze potrebbero riguardare anche gli effetti della personalizzazione sul benessere: nonostante la letteratura riportata dall’autrice non fosse a supporto di questa ipotesi – per lo più a causa dell’esiguità di ricerche su questo tema –  il suo studio ha rivelato il contrario per quanto riguarda le informazioni emerse dalle interviste, tutte le donne intervistate concordavano infatti circa l’importanza della personalizzazione del proprio spazio per il proprio benessere – una donna ha affermato: “`si, perché quegli oggetti sono parte di me, e mi permettono di esprimere la mia identità”- mentre solo alcuni degli uomini intervistati erano della stessa opinione – un uomo ha detto: “forse, immagino. In realtà non saprei come rispondere a questa domanda”. Tra le possibili spiegazioni di questo fenomeno vi è il fatto che le donne avrebbero un maggiore bisogno di affiliazione, perciò, esprimendo la propria individualità nello spazio, si sentirebbero più aperte alla socialità; o ancora potrebbe darsi che percepiscano l’ambiente lavorativo come invaso da “un’aura maschile”, personalizzandolo dunque svilupperebbero un maggiore senso di appartenenza (Wells, 2000).

 Altri aspetti che sono stati esaminati rispetto alla workspace personalization riguardano la personalità, in una loro ricerca Wells e Thelen (2002) hanno infatti deciso di indagare la relazione tra la personalizzazione del proprio spazio di lavoro e la personalità degli individui secondo i costrutti del “Big Five”. I risultati hanno tuttavia rivelato una relazione soltanto indiretta tra le caratteristiche di personalità e la personalizzazione dello spazio, che invece risulta principalmente predetta dalla “politica” dell’organizzazione rispetto alla personalizzazione e dallo status del lavoratore. Più esattamente i dati hanno mostrato che il 90% dei partecipanti ha personalizzato il proprio spazio di lavoro in qualche modo, più spesso attraverso oggetti legati alle relazioni personali con famiglia e amici, oggetti artistici, apparecchi per ascoltare la musica, ricordini e chincaglierie, piante, libri e simboli relativi ai propri successi e traguardi; meno frequenti sono invece oggetti associati a partner e colleghi, animali, sport e hobbies. Rispetto alla personalità è emerso che le persone estroverse e quelle aperte all’esperienza in generale personalizzano il proprio spazio più rispetto alle persone introverse e a quelle chiuse all’esperienza. Per quanto riguarda le caratteristiche degli impiegati osservati, un fattore chiave è risultato essere lo status: gli impiegati di status elevato sono quelli che personalizzano di più, che guadagnano di più e che hanno un proprio ufficio privato. Infine è emerso che la relazione fra la personalità e la personalizzazione dello spazio è mediata dalle caratteristiche degli impiegati (status, spazio di lavoro, ruolo  e ore lavorative). La personalità è infatti significativamente associata  con le caratteristiche degli impiegati, a loro volta significativamente associate alla personalizzazione dello spazio, ma non vi è una relazione diretta significativa tra la personalità dei partecipanti e la personalizzazione dello spazio. Ciò dimostra che non si dovrebbero fare supposizioni circa la personalità degli individui sulla base di come personalizzano il proprio spazio. La personalizzazione dello spazio risulterebbe piuttosto in funzione della situazione dell’individuo all’interno dell’organizzazione in termini di status e di ambiente di lavoro. La personalità da sola, quindi, difficilmente sarebbe in grado di predire il comportamento, ma sarebbe piuttosto la situazione contestuale ad influenzare i comportamenti e il grado con cui una persona è portata ad esprimere la propria personalità attraverso la personalizzazione. Tra le caratteristiche della situazione, oltre allo status, risulta determinante il tipo di ufficio in cui si lavora: la tendenza a personalizzare è infatti maggiore nei casi in cui si abbia un proprio ufficio privato rispetto ai casi di ufficio condiviso con altre persone (Wells e Thelen, 2002). Questi risultati sono in linea con quanto emerso in un precedente studio condotto da Konar e Sundstrom (1986) che ha mostrato come la personalizzazione dello spazio di lavoro sia un tipo di “status marker”, infatti i lavoratori di status elevato tendevano a personalizzare lo spazio in misura maggiore rispetto ai lavoratori di basso status.

Nonostante le ricerche sottolineino gli effetti positivi della personalizzazione, vi sono comunque dirigenti e manager che continuano a ritenerla una causa di disordine dello spazio di lavoro, quando invece l’ordine tende ad essere considerato un fattore importante per una maggiore produttività. Tuttavia risulta che, anche in casi in cui la personalizzazione è vietata, i lavoratori non rinunciano comunque a piccole forme di personalizzazione; ciò suggerisce che le persone abbiano un forte bisogno psicologico di personalizzare il proprio spazio. Per evitare che l’area risulti caotica potrebbe essere utile allora concedere maggiore spazio a ciascun individuo, in modo che sia sufficiente per personalizzarlo e mantenerlo allo stesso tempo ordinato  (Noorian, 2009). Ed Holder, nel 1999, aveva trovato che le persone sono più propense a personalizzare il proprio spazio di lavoro quando hanno un’ esperienza sia lavorativa che interpersonale positiva, lo spazio personale diventerebbe così un mezzo per esprimere la propria identità e il proprio status nella gerarchia organizzativa. Al contrario, se viene loro impedito, questo potrebbe danneggiare la loro crescita professionale ed il loro spirito di iniziativa (in Noorian, 2009).

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli