Il linguaggio della pubblicità

Il linguaggio della pubblicità

 

 

Come già accennato, il messaggio pubblicitario è un messaggio multiplo, fatto di immagini, musica, gesti e soprattutto parole, materiale linguistico proveniente dalla lingua comune, dai linguaggi tecnico-specialistici, dalla lingua della letteratura, dal gergo dei giovani, dalle lingue straniere e anche, in minor parte, dai dialetti italiani.

A seconda del target a cui è rivolto o del contesto in cui appare un annuncio pubblicitario, il copywriter in questione tenterà di operare una scelta linguistica oculata in merito all’ideazione dello slogan.

Come fa osservare la Chiantera1, molte agenzie pubblicitarie si fanno oggi affiancare in questo loro compito da linguisti e semiologi che, in quanto professionisti del linguaggio, possiedono gli strumenti ideali per capire in anticipo se una certa parola collocata in un certo contesto potrà fare la fortuna di un certo prodotto.

Questo dimostra che, nonostante l’importanza delle componenti di musica e di immagine nel messaggio pubblicitario sia andata sempre aumentando negli ultimi anni, l’attenzione alla lingua rimane viva tra i pubblicitari.

Sul linguaggio pubblicitario esiste un’ampia letteratura, cosicchè molti dei suoi aspetti sono stati ripetutamente indagati. Linguisti e non linguisti hanno studiato i messaggi pubblicitari al fine di coglierne, ad esempio, le caratteristiche grammaticali, sintattiche e stilistiche e spesso si sono trovati in disaccordo in merito al giudizio qualitativo da attribuire a questo particolarissimo codice linguistico.

Le parole più amate dal pubblicitario sono le parole-choc, e lo slogan è il coronamento dei suoi sforzi, lo slogan è infatti la “quintessenza della pubblicità”2.

Mario Medici3 ha parlato di un “alto numero di meriti generali e specifici” che il tanto “vituperato” linguaggio pubblicitario possiede. Egli afferma che “la comunicazione pubblicitaria ha dimostrato e sollecitato senza contaminazioni le capacità e le possibilità dell’italiano come lingua moderna, agile e funzionale, in una serie di spinte e controspinte settoriali, utilitarie, letterarie, usuali, sociopsicologiche, in un dilatato e accelerato processo di europeizzazione”.

La Altieri Biagi definisce il linguaggio pubblicitario una lingua “venduta”4, in cui “la merce” proposta è il discorso stesso e per la costruzione del quale il copywriter si mette alla ricerca di “esche” linguistiche allettanti”, non esitando a catturare la terminologia prestigiosa della scienza della tecnica, a riprodurre le manipolazioni tipiche della lingua letteraria, talvolta a sfruttare i moduli della lingua colloquiale, con le sue ridondanze, le sue approssimazioni lessicali, la sua sintassi zoppicante”.

Parlando di slogan e di messaggi pubblicitari, nel momento stesso in cui vengono concepiti, sono imbevuti di una certa cultura tipica di un determinato ambiente geografico, sociale e linguistico. Il linguaggio pubblicitario si fa di volta in volta portavoce ed espressione di desideri e necessità, che possono essere ritenute fondamentali da alcune persone e assolutamente superflue da altre.

Uno stesso prodotto ugualmente appetibile agli occhi di popoli diversi e lontani deve, in certi casi, essere pubblicizzato secondo tecniche e strategie anche molto differenti.

Il pubblicitario deve possedere una conoscenza approfondita non solo della lingua ma anche della cultura del pubblico a cui si rivolge e deve quindi saper intuire e andare a toccare quei tasti in grado di esercitare un forte potere di attrazione – il più delle volte inconscia – su un certo target.

Possono quindi sorgere dei problemi qualora un testo pubblicitario nato in seno ad una certa cultura debba essere tradotto in un’altra lingua; il più delle volte non è sufficiente riportare nel nuovo testo gli equivalenti linguistici della lingua di arrivo, ma è necessario adattare il messaggio per ricreare le stesse implicazioni sociali e culturali e cercare di ottenere simili effetti sonori, linguistici e visivi.

Col passare degli anni, la pubblicità ha conquistato una dignità artistica, è diventata lo specchio della società e della cultura; non solo possiede il potere di influenzare le persone, ma in modo sottile riesce ad influenzare i comportamenti e i modi di dire.

Recentemente sono state individuate da esperti pubblicitari sette regole necessarie per riconoscere e creare una pubblicità efficace, che colpisca l’obiettivo:

  1. sorprendere lo spettatore
  2. comunicare una cosa sola
  3. provocare emozione
  4. essere semplice ma non banale
  5. essere sempre originale
  6. dare valore alla marca
  7. rompere le regole

Una pubblicità efficace è capace di creare emozioni, di raccontare storie coinvolgenti, di essere ricordata dalla grande massa. Esattamente come il cinema, ma con molti metri di pellicola in meno. Piace perchè il linguaggio pubblicitario è universale, è una testimonianza della società e delle sue caratteristiche.

L’obiettivo non è soltanto di vendere un dato prodotto; configura modelli di comportamento, definisce sistemi e valori, crea punti di vista e opinioni, prende dalla cultura di massa quegli spunti ed elementi che sono più funzionali alla creazione e all’amplificazione dei consumi.

Sceglie frammenti ed istanze che si possono accordare con le sue esigenze per poi ricomporle in un disegno coerente e compiuto5.

Nella società, nell’interazione tra individui, assume sempre più importanza la capacità di convincere, di far mutare le opinioni e gli atteggiamenti degli altri. Ciò vale sia nei rapporti interpersonali sia nella comunicazione di massa (pubblicità), finalizzata a creare una preferenza per un prodotto o per un’idea.

Per comprendere questi fenomeni, bisogna partire dalla definizione di atteggiamento e di opinione, e di come si formano.

  • Gli atteggiamenti costituiscono sia un orientamento favorevole o sfavorevole verso un particolare oggetto, concetto o situazione, sia la disposizione a reagire in modo predeterminato a questo oggetto, situazione, o ad altre connesse. Sia l’orientamento che la disposizione alla risposta hanno aspetti emotivi, inconsci, aspetti razionali. Spesso si manifesta un atteggiamento verso una persona o una situazione senza rendersene pienamente conto.
  • Le opinioni costituiscono una preferenza, ma anche una aspettativa, una previsione e, a differenza dell’atteggiamento che spesso è a livello inconscio, è razionalizzata dal soggetto e può essere espressa verbalmente.

Atteggiamenti e opinioni sono strettamente connessi; se si odia una persona si esprime un atteggiamento negativo, e si tende a prevederne un cattivo comportamento55.

Brown (Social Psychology, 1965, Free Press) ha ipotizzato che ogni individuo desidera che le proprie opinioni e il proprio comportamento siano coerenti; se scopre elementi contrastanti, opera in modo da ridurre tali elementi, modificando le opinioni o il proprio comportamento (Teoria della Coerenza).

Per cambiare atteggiamento o opinione l’individuo valuta la comunicazione che riceve dando valore non solo alle argomentazioni, ma anche alla credibilità della fonte e alle emozioni che la comunicazione gli suscita.

Le emozioni suscitate dalla comunicazione hanno grande importanza ed efficacia nella persuasione, non solo se sono positive, come la gioia, ma anche se sono negative, come la paura. L’appello alla paura è in effetti molto usato nella comunicazione di massa, in materia sanitaria, nelle campagne di prevenzione, nelle prediche religiose e nelle campagne politiche.

Per far cambiare un atteggiamento o un opinione bisogna perciò prima creare un atteggiamento positivo nei propri confronti, di simpatia o almeno di coerenza.

Bisogna poi creare un sentimento di stima e di autorevolezza esprimendo le opinioni in modo chiaro, senza creare eccessive dissonanze con la visione del problema dell’interlocutore. Si deve saper fare appello, quando è necessario, alle emozioni, per incidere più profondamente nell’atteggiamento inconscio.

Ogni linguaggio pubblicitario funziona alla stessa maniera. Ha un preciso obiettivo, quello di persuadere il destinatario del messaggio.

Come ha detto Gillo Dorfles “il linguaggio pubblicitario è parente dell’argomentazione retorica persuasiva”. Per ottenere l’effetto persuasione si ricorre a precise leggi psicologiche, a discipline come la semiotica e la psicolinguistica che i pubblicitari conoscono e che debbono saper utilizzare nel modo più efficace per diffondere un prodotto.

Non a caso vengono richiamate le categorie analitiche della sociologia della comunicazione e della semiotica per utilizzare al meglio i segni visivi, verbali, sonori e a loro articolazione interna.

Si parla, appunto, di stimolazione cognitiva, per sapere come ottenere un alto livello di attenzione, e di stimolazione affettiva per indicare l’azione esercitata da un messaggio sulle emozioni.

Gli studi e le ricerche condotte per analizzare le variabili del messaggio (le caratteristiche emotive o razionali del contenuto, i dispositivi stilistici usati per rendere persuasivo un discorso, gli aspetti relativi all’organizzazione della comunicazione) hanno permesso di concludere che il ricorso alla chiave emotiva è più efficace di quella logica o razionale per indurre un effetto di adesione/persuasione da parte del ricevente.

La pubblicità oggi opera per slogan e frasi brevissime; distillati di parole pensate, calibrate e limitate per scaricarsi direttamente sull’inconscio e garantire l’entrata diretta in circolo di stimoli emotivi elementari.

Questa profonda evoluzione favorita dal sorgere di nuove discipline che hanno permesso al messaggio pubblicitario di diventare sempre più raffinato, sia a livello epistemologico che operativo impone, ovviamente, un analogo affinamento dei criteri e degli strumenti a disposizione di chi ne debba valutare senso e implicazioni6.

Siamo forse entrati in una nuova era del capitalismo che Galbraith definisce “la fiera capovolta”7, dove non è più il consumatore a determinare il ritmo della produzione, bensi’, è il produttore a creare nel consumatore il desiderio di determinati prodotti?

Ciò spiegherebbe l’idea comunemente accettata della “fabbrica dei desideri”; di una pubblicità che sa creare bisogni voluttuari, capace di persuadere e di convincere, creando il mito dell’avere, dove il comprare un prodotto significa possedere anche l’aureola di benessere, successo e bellezza costruita intorno ad esso.

I due “meccanismi di difesa” principali sono l’autostima e l’addestramento delle facoltà critiche. La costruzione della propria autostima si basa sulla valorizzazione delle proprie esperienze positive, condotta regolarmente, abituandosi a sviluppare un atteggiamento positivo.

L’addestramento delle facoltà critiche è un processo culturale continuo in cui l’individuo deve continuamente porsi delle domande sulle comunicazioni e gli stimoli che riceve, cercando di individuarne la reale validità, al di là di condizionamenti emotivi e prescindendo dalla fonte8.

Questi meccanismi creano una sorta di vaccinazione nei riguardi dei luoghi comuni e delle banalità culturali, possono consentire all’individuo di difendersi meglio dalla comunicazione “coercitiva” o dall’indebita influenza , senza limitarlo nell’accettazione del contributo derivante dall’interazione con gli altri che deriva da un corretto scambio di informazioni e di opinioni9.

 


1 Chiantera 1989:30

2 Galliot 1954

3 Medici 1973:7

4 Altieri Biagi 1979

5 Macello C, L’arte di comunicare, Milano 1995, pp. 38 55 www.benessere.com/psicologia.htm.

6 www.iap.it

7 Galbraith K, Il nuovo stato industriale, Einaudi, 1968

8 www.benessere.com/psicologia/htm.

9 Fabi C, Marbach G., L’efficacia della pubblicità, ISEDI, Torino, 2000, pp. 183-196

 


© Psicologia della comunicazione persuasiva – Dott.ssa Romina Sinosich