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La correlazione tra leve motivazionali e performance

La correlazione tra leve motivazionali e performance

 

 

L’utilizzo dello strumento informatico Matrix si inserisce in questa fase in cui si intende misurare il livello di motivazione delle risorse attualmente impiegate in azienda.

Come si è visto nella sezione a ciò dedicata, questa attività deve basarsi sulla individuazione di un profilo ideale a monte, a cui raffrontare le rilevanze empiriche derivanti dall’analisi delle performance, per una maggiore validazione dei criteri caratterizzanti il profilo ideale stesso.

In questa attività ci si è raccordati con il responsabile di area, insieme al quale sono state preliminarmente individuate le competenze distintive di base che devono caratterizzare il ruolo in esame, affinché esso possa realizzare le performance attese e gli obiettivi di business.

Tali competenze astratte sono state poi tradotte in comportamenti osservabili e di comportamenti attesi.

Si sono inoltre tradotti i comportamenti osservabili in attitudini più generiche, caratterizzanti una prestazione eccellente, in modo da sottoporre agli agenti il test attitudinale presente in Matrix, confrontando i risultati su grandezze omogenee.

In conclusione, una volta definiti i livelli di competenza, i comportamenti osservabili, le attitudini associate ed i rispettivi pesi, si arriva alla definizione del “profilo ideale”.

Questa operazione viene effettuata su Matrix, attraverso la funzione Configura . Volendo poi associare, come detto le attitudini generiche a prestazioni specifiche, si è ritenuto di operare una ancora maggiore contestualizzazione del campo di indagine, ridefinendo un nuovo profilo ideale mediato, ricavato dal profilo di un “agente modello”, ossia di un agente che le performance storiche dimostrano aver avuto il maggiore incremento di sviluppo delle competenze strategiche del ruolo, come da rilevazioni trimestrali riportate in figura.

Ciò si realizza in Matrix dal  menù Analisi & Valutazioni. Si mostra di seguito l’output che ne viene fuori da queste operazioni.

Si è proceduto, a questo punto, a sottoporre il test attitudinale presente in Matrix agli agenti delle 12 agenzie del comprensorio catanese. I risultati serviranno ad individuare le variabili motivazionali coinvolte, attraverso il confronto che Matrix automaticamente fa tra il profilo analizzato e il profilo ideale, precedentemente impostato. Inoltre attraverso i report prodotti da Matrix si potrà ricavare l’adeguatezza nell’uso delle leve motivazionali prima indicate.

 

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

 

 

Il caso oggetto di studio

Il caso oggetto di studio

 

 

In questa sede si intende applicare il primo software trattato, per fornire un’esemplificazione pratica di un possibile utilizzo degli strumenti informatici a supporto della gestione delle Risorse Umane. Nel caso specifico l’obiettivo è quello di validare, attraverso un’indagine empirica, le politiche di motivazione utilizzate dalla rete di agenzie immobiliari in franchising Frimm-Group. Innanzitutto vanno spiegate le ragioni che hanno spinto alla scelta di questa azienda. Da un lato, utilizzare come caso pratico un azienda in franchising ha consentito di indagare le politiche di incentivazione in più unità produttive, facilitando la possibilità di confronti, volendo imprimere all’indagine un’ottica di benchmaking interno, concetto precedentemente esposto. In questo caso, poi, il confronto acquista una validità maggiore, se si riflette sul fatto che ad essere indagate sono politiche gestionali che, seppur derivanti da diverse e autonome unità decisorie (i singoli franchisee), si inseriscono all’interno di una comune linea di gestione, derivante dall’applicazione di procedure e metodi amministrativi uniformemente impartiti dal franchising. Pur avendo le possibilità di svolgere l’indagine su altri franchising dello stesso settore come Tecnocasa, o di altri settori come la già citata Compagnia della Bellezza, che cortesemente hanno mostrato ampia disponibilità, si è ritenuto che questa scelta avrebbe prodotto risultati eccessivamente disomogenei, in quanto derivanti da contesti aziendali molto diversi. Inoltre, per una maggiore standardizzazione delle condizioni di ricerca, si è scelto di limitare l’indagine al territorio catanese, coordinandosi pertanto con il capo area per la provincia di Catania della Frimm-Group, Angelo Maugeri, al quale è dovuto un particolare ringraziamento.  La scelta di una precisa localizzazione, oltre ad essere dettata da esigenze logistiche nel reperimento di dati e contatti, si ritiene avere il pregio di fornire uno scenario di indagine maggiormente omogeneo, in quanto oltre al contesto aziendale, viene tenuto fermo anche il background socio-culturale che, come si è ampiamente dibattuto, può avere un’influenza determinante nelle politiche di gestione delle Risorse Umane.

Infine, un altro motivo che ha spinto alla trattazione del caso Frimm-Group deriva proprio dalle peculiarità del suo business. L’azienda, fondata nel 2000, ha lanciato un nuovo modo di fornire il servizio immobiliare, segnando una rottura epocale con il sistema di gestione che in questo settore aveva caratterizzato gli altri competitori fino ad allora. Rifacendosi al sistema anglosassone, ha infatti scardinato il principio di esclusività delle zone di competenza, che era stato il modo con cui ogni franchising immobiliare aveva modellato lo sviluppo delle agenzie sul territorio, con la finalità strategica di garantire ad ogni nuovo affiliato un mercato potenziale, derivante da una partizione ed equa distribuzione dell’intero mercato nazionale. In altre parole ha consentito, diversamente dagli altri franchising, che ogni affiliato potesse negoziare la compravendita o il nolo di immobili appartenenti anche ad aree di competenza geografica di un altro affiliato del franchising stesso. Questa circostanza, che a prima vista può sembrare una guerra fraterna, ha invece consentito una sana competizione interna, ma soprattutto ha aperto le porte del mercato nazionale a qualsiasi affiliato, che per essere competitivo ha rinunciato a qualche percentuale di guadagno, ma si è ritrovato a poter contare su un business numericamente molto più elevato. Se si pensa poi che le nuove tecnologie e la facilità degli spostamenti, ha ridotto enormemente l’esigenza del servizio di prossimità, anche nel settore immobiliare, si capisce come l’unicità della strategia di gestione di ogni affiliato insieme all’aumento della mobilità del consumatore, abbiano reso più coerente tutto ciò. Se a questo si aggiunge che l’azienda in pochi anni è cresciuta a livello esponenziale, moltiplicando di mese in mese il numero di affiliati, sottraendone alla concorrenza, tanto da essere la terza azienda del settore, si capisce come la business idea è stata e continua ad essere vincente. Tra l’altro, anche se la possibilità di invadere le reciproche aree di influenza territoriale fra gli affiliati era (in verità eccezionalmente) consentita in altri franchising, si è potuto constatare come, non essendo questa la circostanza abituale, l’effetto è stato più che altro l’avvicendarsi di fenomeni di cannibalismo e conflittualità tra le varie agenzie.

Per rendere effettiva questa scelta strategica Frimm-Group fornisce ad ogni affiliato una piattaforma informatica, ossia un contenitore web di servizi, utilità e informazioni, pensato per coordinare l’attività delle agenzie e favorire la comunicazione tra Franchisor, affiliato e aziende partner (dal momento che Frimm-Group prevede la libera adesione al suo sistema anche a franchising esterni). Il sistema FRIMM prevede che i franchisees possano interagire fra loro e scambiarsi notizie in tempo reale, ma soprattutto consente di disporre di un database contenente un portafoglio di immobili ovunque disponibili  e aggiornato in tempo reale. I sistemi di comunicazione impiegati attraverso la piattaforma, consentono così alle informazioni di fluire con estrema rapidità attraverso tutta la rete, permettendo un’ottimizzazione del lavoro delle singole agenzie e favorendo la loro collaborazione. Vengono ad esempio forniti servizi on-line per accedere alle varie convenzioni, scaricare modulistica sempre aggiornata, ottenere tutte le informazioni aziendali, contattare i servizi di assistenza, chiedere pareri ad esperti professionisti. Ma vengono offerti anche servizi collaterali alla vendita degli immobili, finalizzati ad ottenere una maggiore fidelizzazione della propria clientela e ad ampliare ancor di più le possibilità di guadagno, con l’ottica di valorizzare una figura professionale globale, pronta a rispondere ad ogni esigenza del mercato immobiliare moderno. L’affiliato FRIMM, inoltre, ha a sua disposizione un vero e proprio ufficio acquisti che gli permette di usufruire di beni e servizi a condizioni estremamente convenienti, consentendogli di abbattere in maniera considerevole i costi di gestione e compensare ampiamente il costo dell’affiliazione. Si va, infatti, dalla consulenza finanziaria al sostegno assicurativo, dall’assistenza tecnico-legale fino al semplice trasloco, grazie a vantaggiosi accordi con partner di assoluto rilievo.

La cosa che in questa sede risulta di particolare interesse, è la circostanza per cui nel ventaglio di strumenti di cui si è parlato, si è scelto di offrire in convenzione agli affiliati, la possibilità di usufruire, fra gli strumenti della piattaforma informatica, del software Matrix che, come precedentemente esposto funziona in modalità ASP. Tale circostanza ha intanto giustificato l’interesse alla trattazione di questa specifica azienda come caso pratico, potendosi rilevare come la scelta operata dal franchisor di rendere disponibile in convenzione un software come Matrix, risulta essere un chiaro segno di come si reputi importante e strategica la corretta gestione delle Risorse Umane, al punto di indurre l’affiliato medio a servirsi di strumenti che compensino le (normalmente) scarse competenze in materia. In questo modo, inoltre, si è avuta la concreta possibilità di esemplificare l’utilizzo di uno strumento informatico, applicato ad un’analisi pratica, a completamento di un capitolo dedicato alle potenzialità dell’ICT nella gestione delle Risorse Umane. Un particolare ringraziamento è dovuto pertanto allo sviluppatore del software, responsabile della società che lo ha prodotto, il Dott. Andrea Castello, nell’averne permesso l’utilizzo “fuori convenzione”.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Selezione e Assessment center

L’analisi a priori: la selezione e l’assessment center

In questo caso, le leve operative proposte, hanno la finalità di analizzare la motivazione che un determinato soggetto ha a priori, ossia prima di iniziare la sua esperienza lavorativa, o di intraprendere una nuova attività o responsabilità. Un’analisi di questo tipo, condotta con tecniche preventive come la selezione e le sedute di assessment (insieme di tecniche basate su colloqui motivazionali e test situazionali), è utile nel momento in cui si voglia fare una previsione sul grado di accettazione dell’attività proposta al soggetto, e sul livello di competenze che “potenzialmente” sarà in grado di mettere in pratica sul campo. Il manager, fin dalla in fase di selezione e di pianificazione della prestazione, gode pertanto di una straordinaria opportunità: quella di stimolare il collaboratore a mettere in campo o modificare (nel caso di una risorsa già operante) certi comportamenti. L’accordo iniziale sulla prestazione è determinante ai fini del risultato, in quanto il collaboratore deve sapere su cosa e come sarà valutato. Il valore attribuito al risultato finale può rappresentare uno degli input motivazionali, che vanno evidenziati in una sorta di “patto iniziale” con se stessi e richiamati nei momenti di caduta della motivazione.

Una volta condivisi gli obiettivi il valutatore deve stimolare e verificare i cambiamenti e miglioramenti nell’anno con interventi di assessment, ma non è raccomandabile arrivare alla fine dell’anno per valutare quei comportamenti. In sede di assessment è importante esplicitare al dipendente qual è il risultato e il vantaggio, in termini di gratificazione, che lo sviluppo della competenza consentirà di conseguire. Secondo differenti indagini aziendali, infatti, sembra che la più comune causa di prestazioni insoddisfacenti da parte dei collaboratori non sia legata alle scarse competenze, o alla scarsa volontà del collaboratore, bensì alla poca chiarezza sugli obiettivi e sulle aspettative che i superiori hanno dai collaboratori stessi. Sempre riferendosi al modello prima esposto della prestazione, la selezione e altri strumenti come l’assessment sono finalizzati a capire anche se, per una data posizione, l’inadeguatezza di un soggetto sia da imputare ad un difetto di capacità o di motivazione. Ciò risponde ad almeno due necessità. In primo luogo orientare la formazione iniziale verso l’elemento che sia risultato carente, qualora tale elemento non sia da considerarsi strategico e per ciò stesso imprescindibile per lo svolgimento della specifica mansione. Inoltre, in questa maniera, è possibile rendere coerenti le valutazioni fatte a posteriori con quelle fatte a priori, così che misurino l’eventuale superamento del gap di quell’aspetto specifico precedentemente misurato. Questo lavoro di ancoraggio  tra competenza e risultato atteso (che ricorda le già esposte tecniche di PNL), può emergere dal processo di rilevazione del gap, in un processo che nella prassi viene definito mappatura delle competenze collegate alla performance di eccellenza, attraverso la diagnosi del gap individuale e la predisposizione di un piano di sviluppo, secondo una logica di “performance improvement”. Non bisogna quindi terminare l’intervista di valutazione senza stabilire chiaramente quali sono gli obiettivi di sviluppo per il prossimo periodo, ed il piano di azione per raggiungerli. Le sedute di assessment, costituiscono inoltre una sistematica verifica del grado di apprendimento ed integrazione nell’azienda, due variabili chiavi nel predire il livello di motivazione attuale e prospettico del lavoratore.

Come già anticipato questa fase dovrà concentrarsi su competenze di natura generica, che essendo tali possono adattarsi a qualsiasi attività lavorativa (sistemi di skill evaluation). Fra queste si hanno principalmente le intelligenze cognitive  (percezione ambientale, creazione di aspettative, progettazione comportamentale, etc), e le intelligenze emotive , che creano meccanismi di repulsione/attrazione classificando i fenomeni in piacevoli e dispiacevoli, e così via. In accordo con il fine di indagine del presente lavoro, si ritiene utile approfondire le caratteristiche dell’intelligenza emotiva, come dimensione della competenza più strettamente legata alla motivazione. L’intelligenza emotiva è la capacità di riconoscere, capire ed utilizzare con efficacia il potere delle emozioni trasformandolo in energia, empatia, informazione, affidabilità e creatività per arrivare ad un certo risultato. A questo riguardo è doveroso fare alcune precisazioni, che si ritengono importanti da un punto di vista manageriale. Il fatto di vedere soddisfatti i propri bisogni, o viceversa di incontrare degli ostacoli nel perseguire i propri scopi, suscita nel lavoratore delle emozioni. Pur essendo emozione e motivazione due processi fra loro interdipendenti, spesso il manager li confonde. Lo studio della motivazione cerca di spiegare il perché di un comportamento, lo studio dell’emozione descrive la reazione ad un cambiamento. Quindi non sempre un lavoratore che non manifesta in modo evidente una dose di emotività o empatia non ha motivazioni. Avrà delle motivazioni che si esternano con altre modalità. Simmetricamente se un lavoratore non reagisce a degli incentivi, non vuol dire che non è coinvolto o che il lavoro non gli da emozioni, ma può aver bisogno di altri tipi di incentivi, o ha delle motivazioni incoerenti con il tipo di incentivi che gli si sta proponendo per attivare il suo comportamento. Sempre in riferimento alla motivazione ed all’emozione bisogna fare ulterioriormente chiarezza. Tradizionalmente la motivazione viene considerata una “eccitazione organizzata”, ossia un’attività programmata e consciamente orientata alla realizzazione di un determinato scopo . L’emotività, invece, si ritiene a torto essere una forma di “eccitazione disorganizzata”, nel senso che non è funzionale ad un particolare obiettivo. In realtà esistono motivazioni non conosciute o non controllabili e persone che conoscono e controllano perfettamente il proprio stato emotivo. Nel lavoro, l’esperienza delle emozioni positive produce un valore che le organizzazioni devono essere pronte ad apprezzare ed utilizzare, in quanto rappresentano delle vere e proprie energie da incanalare, disporre e armonizzare in vista di mete, budget e obiettivi predefiniti. Fino a poco tempo fa essere emotivo sul lavoro era un segno di debolezza. Oggi le cose stanno cambiando, e le aziende ricercano sempre di più gente creativa, gente che apporti, ossia assertiva, né passiva, né aggressiva. Se prima era visto come un segnale di debolezza, adesso è visto come un segnale di forza. La motivazione, quindi, è una parte delle competenze personali dell’intelligenza emotiva. Le emozioni di un lavoratore, inoltre, accompagnano la sua esperienza cognitiva e anzi svolgono spesso una funzione adattiva, rappresentando, tra l’altro, una fonte propulsiva di altissimo valore. Gli effetti dannosi che talvolta si osservano, vanno più che altro imputati a inefficienze del processo di regolazione emozionale del soggetto. Essere emotivi non vuol dire dare briglia sciolta alle emozioni, vuol dire, invece, avere un’autoconsapevolezza, sapere che cosa si sente e, nel momento in cui si riesce a capire, imbrigliare questa energia e usarla nel migliore dei modi.

Le emozioni poi vengono ancora viste come appartenenti al mondo privato o comunque a quello del “non-lavoro” e la loro manifestazione è ben accetta, purché avvenga altrove rispetto all’ambiente produttivo. L’equilibrio, invece, tra lavoro e vita richiede che s’investa in emozioni per favorire l’apprendimento emotivo e recuperare un’educazione alla gestione delle emozioni. Ci si riferisce in particolare alle emozioni positive come l’entusiasmo, la sorpresa, la gioia, l’affetto, il sentirsi vitali, peculiari della motivazione. Educare alla gestione ed al riconoscimento delle competenze emozionali, significa per l’organizzazione migliorare le sue basi per il conseguimento degli obiettivi di crescita e per favorire la produzione di un benessere soggettivo e collettivo.

Tra gli approcci di nuova generazione nell’analisi della motivazione attraverso le competenze, hanno un grande rilievo i metodi “esperienziali” volti a capire quali elementi si presentano combinati nei casi di successo, raffrontati a quelli che si presentano o non si presentano nei casi di insuccesso. La tecnica utilizzata è un tipo di intervista che richiede di ricostruire e descrivere situazioni di successo e di insuccesso esplicitando ciò che si è fatto e con quali risorse. In quest’area lo strumento più affermato è il behavioral event interview (BEI) o “intervista del comportamento di evento”, realizzato da David McClelland , che fa parte dei più generici Competency Assessment Methods e delle più generiche “tecniche proiettive”, in cui si chiede all’intervistato quale comportamento metterebbe in atto in situazioni e circostanze simili a quelle del ruolo specifico . L’intervista narrativa o le altre tecniche di proiezione simulata del ruolo come il role playing e il business game, si basano sul presupposto che il comportamento umano ha modelli che si ripetono , per cui, attraverso un osservazione a ritroso, cerca di analizzare gli eventi critici nella vita e nella carriera di una persona, al fine di trarre alcuni fattori come gli atteggiamenti, le motivazioni, le intenzioni, l’immagine di sé, rilevabili in una determinata situazione lavorativa. L’idea è che il comportamento attuale, ma soprattutto quello passato, forniscono il migliore modello predittivo di quale sarà il comportamento futuro, a differenza delle normali interviste basate esclusivamente sulla formazione, sull’esperienza e sulle conoscenze, tutte informazioni già rilevabili nel documento curriculare. Quindi non solo quali competenze ha un candidato, ma “come” e “perchè” li mette in pratica. In questa maniera è possibile comprendere quali sono le abilità trasversali che qualificano le competenze tecniche del soggetto, le aree che maggiormente lo motivano, dal momento che hanno portato a risultati di successo e le aree che invece non gli procurano alcuna soddisfazione .

E’ però possibile una verifica a priori della rispondenza del candidato alla posizione, solo nella misura in cui, ancora prima dell’intervista, si è stabilito quali reazioni sarebbero da considerare performanti e quali comportamenti si ritiene che rivelino una forte motivazione al lavoro nei casi specifici che si chiederà di descrivere. Verrà quindi operato un confronto tra il modello teorico previsto e il racconto del candidato. Inoltre la tecnica dell’intervista sul comportamento di evento consente a posteriori di verificare quasi sul campo se, effettivamente, il candidato ha delle forti motivazioni al lavoro che lo spingono a profondere maggiore impegno, qualora gli si presentino situazioni analoghe a quelle che aveva descritto ed in cui ha la possibilità di dimostrare la sua coerenza di fondo. Infatti uno dei problemi maggiori di questo tipo di tecnica è quello delle così dette “vite inventate”. Il fatto cioè che, essendo ormai sempre più diffuso questo tipo di intervista, si corre il rischio che i candidati si preparino delle situazioni ipotetiche ad hoc per ogni tipologia di domanda, simulandole perfettamente durante il racconto, o, quantomeno, esagerando situazioni reali. Ciò succede intanto in conseguenza di un sempre più diffuso utilizzo dei media (soprattutto di internet) per promozionare l’immagine ed i valori aziendali. Questo fa sì che, il potenziale candidato, ha la possibilità di inventare delle situazioni da cui traspare l’idea di candidato ideale per una data società, o comunque, “aggiustando il tiro” di un’esperienza effettivamente avuta, orientandola verso l’idea di un’esperienza di successo, in conformità con le informazioni apprese su internet o con altri mezzi. Inoltre, soprattutto in ambito anglosassone, sia gli uffici di orientamento al lavoro di alcune università come quella di “Law and Economics”, sia le società specializzate in outplacement , allenano il candidato sulle più frequenti caratteristiche ricercate dai datori di lavoro e sulle tipologie di domande che verranno fatte durante l’intervista. Ma c’è di più. Non è infrequente, infatti, trovare dei forum o delle newsletter su internet in cui ex-candidati sottoposti ad intervista, abbiano avuto la pazienza e la bontà di pubblicare le domande che di solito vengono fatte nelle maggiori società come Hewlett-Packard, Nike, Microsoft, Intel, etc., dove vengono fatti centinaia di colloqui al giorno. Sono quindi necessarie delle contromisure per evitare di cadere in tranelli o lasciarsi affascinare da racconti fittizi. In primo luogo la semplice consapevolezza del problema (che non è così diffusa come si può pensare) mette in allerta l’intervistatore nel cercare evidenti segnali di bluff. Ad esempio, il fatto che non faccia neanche un secondo di pausa di riflessione prima di rispondere alla domanda, o che ha uno sguardo sicuro e diretto durante il racconto (quando invece di solito quando si parla pensando al passato si guarda altrove) è un indice del fatto che ha preparato quella domanda . In secondo luogo, per confermare l’autenticità della storia e degli esempi del candidato, gli intervistatori devono scendere nei particolari e richiedere aspetti specifici della storia, esibendo però un tono di curiosità e non da indagatore, cosa che altrimenti potrebbe bloccare il candidato. Un altro modo può essere quello di chiedere non solo cosa ha fatto, ma anche cosa ne pensava di quello che stava facendo, e cosa ne pensa ora a mente fredda. Diverse ricerche, infatti, dimostrano che è difficile per un falsificatore mantenere una coerenza costante fra tutti e tre i livelli di racconto. Inoltre il fatto che abbia preso una posizione di giudizio sia al tempo in cui stava svolgendo l’attività, sia al momento del racconto, indica che l’esperienza è effettivamente avvenuta, poiché ha lasciato un segno, tanto da indurre il soggetto ad una sua revisione critica.

Un’altra tecnica si basa sul principio che i candidati che sostengono di aver avuto dei successi significativi, devono imparare qualcosa dalle loro esperienze. Se può essere facile fabbricare un successo, lo è molto meno inventare esempi di che cosa si è imparato da un successo. Per cui domande tipo “cosa le ha insegnato l’esperienza” o “come applichi quello che hai imparato da allora” possono servire a individuare il candidato simulatore. Per concludere l’intervistatore puòfare alcune domande che richiedono al candidato di dimostrare quello che conosce, in tempo reale, e non evincendolo dalla descrizione delle cose di successo che ha fatto in passato. Alternativamente si può sempre prendere spunto da situazioni già raccontate, ma cambiando alcuni fattori interagenti o le variabili di azione, per vedere se la sua competenza di successo è ancora tale anche “cambiando il finale”. Questo tipo di domande, infatti, devono essere risposte sul momento, e non possono essere preparate .

Il vantaggio principale di questo metodo è la capacità di cogliere gli aspetti delle competenze specifici ad un particolare compito, aspetto importante sia ai fini della  formazione e dello sviluppo, sia per ricompensare le capacità e le competenze che hanno particolare valore in quel compito e che non sarebbero rilevanti in un approccio standardizzato, basato su metodologie classiche di intervista uguali per tutti. Uno svantaggio è il carattere statico, orientato al passato e poco evolutivo di un’analisi centrata sulle competenze che hanno mostrato di generare comportamenti efficaci, ma che nulla dice su quali altre combinazioni di competenze sarebbero state possibili e forse più efficaci, né quali altri comportamenti si sarebbero potuti generare con le stesse competenze. Un altro forte svantaggio, come si è detto, è la possibilità di comportamenti opportunistici. L’intervista basata sul comportamento, continua pertanto ad essere uno strumento efficace per selezionare i candidati che devono avere certe competenze e attitudini, tra cui la capacità di automotivarsi e la motivazione verso quella specifica mansione, ma le tecniche su cui si fonda dovranno evolversi, per tenere conto della maggiore preparazione dei candidati e della necessità di rilevare la dinamicità nel riformulare e ricombinare continuamente il proprio asset di competenze, in risposta ad un’elevata competitività. Ancora più complesso il caso in cui si utilizzino test strutturati allo stesso modo. In questi casi, l’appropriatezza della prestazione, come si evince dall’analisi del test, non costituisce un indicatore preciso o scientifico della presenza di motivazione. Come nel caso dell’istruzione programmata, in cui ciascuna conoscenza è distribuita in un piccolo gruppo di domande all’interno di test di verifica dell’apprendimento, se la risposta data dal soggetto è corretta, la medesima ricompensa, sarà attribuita anche a chi ha individuato la risposta giusta per caso, tirando ad indovinare, il che, tra l’altro, può finire per indebolire anche la motivazione estrinseca del candidato. L’ottenimento di quel posto, cioè, non costituisce più una sfida (vedasi la parte teorica in cui si è parlato di automotivazione).

 

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

 

 

Vita in ambienti confinati: aspetti psicologici e criteri di selezione del team

Vita in ambienti confinati: aspetti psicologici e criteri di selezione del team

 

Abstract

La vita in condizioni come quelle antartiche presenta una serie di difficoltà non comuni alla vita di tutti i giorni. Questo tipo di ambientazione ha spesso suscitato curiosità popolare e scientifica riguardo le difficoltà psicologiche attraversate dagli spedizionieri. L’intento di questo breve saggio è quello di mettere in evidenza le caratteristiche principali per la buona riuscita di una missione in questi territori, seguendo i più importanti esempi della letteratura scritta fino a questo momento.

 

1 – Introduzione

Le stazioni dell’Antartide in inverno sono luoghi isolati e solitari, spesso spazzate da forti venti, soggette a lunghi cicli solari, e fenomeni geomagnetici. Nonostante per molti versi l’Antartide sia simile all’Artide, nessun gruppo umano indigeno vi ha mai vissuto, contrariamente a quanto succede nel circolo polare Artico. Per questi motivi, per certi versi, le condizioni di vita all’interno di una stazione polare Antartica sono molto simili a quelli riscontrabili all’interno di capsule spaziali o sottomarini (Suefeld, Steel, 2000). Generalmente si ritiene, che nonostante la scelta di fare parte di questi luoghi per un periodo più o meno lungo sia volontaria, le caratteristiche da cui sono contraddistinti generi inevitabilmente situazioni di stress più o meno marcate. Le nuove condizioni a cui ci si deve abituare richiedono forti dosi di coping e capacità di adattamento personale.

Una delle difficoltà maggiori, sicuramente, è il fatto che questi ambienti espongano gli individui a condizioni di vita radicalmente differenti dalle normali abitudini quotidiane (Fischer, 1994) nonché il fatto che essi richiedano strategie di coping inusuali.

La salienza di queste caratteristiche ha generato numerosi studi sia riguardo gli agenti stressori ambientali, sia riguardo levariabili che influenzano le differenze di comportamento individuali, nella percezione dello stress, come nella gestione e nella resistenza allo stesso. Queste ultime includeranno, inoltre, fattori di gruppo, ambientali e di personalità.

Nel corso degli anni il design ambientale (Stuster, 1996), la selezione del personale (Taylor, 1987) e la composizione del gruppo e della leadership (Natani e Shurle, 1974) sono state le basi della ricerca psicosociale, dei test e delle disposizioni circa gli abitanti delle zone antartiche, nonché di ambienti simili, che definiremo “capsulari”.

Certamente, oggigiorno, le condizioni in cui versano le stazioni polari sono ben lontane da quelle che caratterizzarono l’epoca d’oro delle esplorazioni in Antartide, escludendo quindi l’insufficienza di cibo, riparo e cure mediche, così come il totale isolamento dal mondo esterno. Ciononostante, è certo che non tutti gli individui possiedono le risorse interne per affrontare un intero inverno in condizioni come quelle antartiche (Weiss et al., 2000).

Vari studi (i.e. Palinkas, 1986), nondimeno, hanno evidenziato come la maggioranza dei soggetti inviati in Antartide abbia completato con successo il proprio compito senza gravi problemi, specialmente a lungo termine, mostrando, al contrario, benefici a lungo termine per quanto riguarda lo stato di salute e il successo professionale.

 

2 – Il soggiorno in ambienti polari

Nell’analisi compiuta sui diari di alcuni esploratori britannici, scritti agli inizi del ventesimo secolo, Mocellin et al. (1991), hanno mostrato come le condizioni polari non siano necessariamente foriere di aumenti dello stato d’ansia. Nonostante le condizioni fossero obiettivamente più pericolose, le tecnologie meno avanzate, molti esploratori menzionano esperienze positive, persino nei periodi di soggiorno più difficili. Questi includevano commenti sulla grandiosa bellezza del paesaggio, episodi di serenità e rilassamento e sentimenti di crescita personale. Il livello di stress si era mantenuto sorprendentemente basso, anche durante il periodo di stallo che viene definito più che altro “noioso”.

Gli autori non hanno trovato nessuna differenza significativa, inoltre, nel livello di ansia di soggetti in Artide o in Antartide, nonostante, nel secondo ambiente, le condizioni meteorologiche siano notevolmente più difficili. Molti spedizionieri segnalavano, all’arrivo, sentimenti di eccitazione e durante il periodo di stallo i commenti diventavano maggiormente positivi, fatto probabilmente dovuto all’instaurazione di una routine all’interno del gruppo e della progressione positiva della missione.

Riguardo le condizioni generali dell’ambiente Suefeld (1998) afferma che i soggiorni polari, da questo punto di vista, potrebbero apparire simili ad altri ambienti difficili, molti dei quali possono apparire terribili visti dall’esterno ma con cui le persone trovano frequentemente buone strategie di fronteggiamento con risultati positivi nella maggior parte dei casi.

 

3 – Le interazioni all’interno del gruppo

Gli individui che si trovano in condizioni isolate e confinate devono necessariamente interagire frequentemente e strettamente con il gruppo di cui fanno parte. Secondo il modello di Olivetti Belardinelli (1987) gli assestamenti in questo tipo di interazioni sono raggiunti attraverso l’adattamento delle relazioni da interne ad esterne. L’Antartide è luogo più freddo, più sopraelevato. più secco, ventoso e meno accessibile di tutti i continenti terrestri (Cornelius, 1991): la sopravvivenza umana è possibile solo con l’aiuto di complessi supporti tecnologici, nonché di un ben strutturato piano di lavoro. La capacità di adattamento umano a questo ambiente, nonostante tutte le difficoltà che sembra presentare ad una prima analisi, si dimostra particolarmente efficace: molti autori (i.e. Latis, 1968, Law, 1960; Levesque, 1991; Palinkas, 1986) pongono l’accento sulla grande rilevanza di fattori psicologici, sociali e culturali nei processi di adattamento personali durante la permanenza.

Una ipotesi abbastanza comune è che gli ambienti esotici aumentino i conflitti interpersonali, la rabbia e l’irritabilità, che a loro volta influenzeranno la coesione all’interno del gruppo, ipotesi che sono state riscontrate da diversi autori (i.e. Gunderson e Nelson, 1963; Gunderson, 1966; Law, 1960; Palinkas, 1986). Le ostilità, comunque, sono viste in modo negativo (Lugg, 1977) in quanto pericolose per la coesione all’interno di questi gruppi e gli individui sviluppano una serie di pattern comportamentali che aiutano il contenimento dei conflitti (Harrison e Connors, 1984) come ad esempio evitare giochi altamente competitivi o la comunicazione emozionale. La cosa più importante è la conservazione dell’armonia all’interno del gruppo (Law, 1960). Una possibile spiegazione a questo fenomeno è che i conflitti tra membri potrebbero avere effetti devastanti per la sicurezza dell’intero gruppo in caso di eventi critici. Di conseguenza, la pressione sociale per l’adeguamento alle norme del gruppo e per il raggiungimento di obiettivi comuni diventa molto alta, così come l’importanza del groupthink può diventare particolarmente elevata in caso di situazioni di isolamento (Helmreich, 1983).

 

4 – Gli ambienti “capsula”

Suedfeld (2000) descrive gli ambienti “capsula” come isolati e confinati (ICE, isolated, confined environment), questa categoria si incrocia, poi, con la categoria degli ambienti estremi e inusuali (EUE, extreme, unusual environments), in genere esotico, anormale o particolarmente stressante. Si noti che la definizione dipende dall’occhio dell’osservatore: così come la tundra artica parrebbe strana e pericolosa ad un abitante di New York, Times Square potrebbe dare la stessa impressione ad un cacciatore Inuk

che vi si trovi improvvisamente.

Di fatto, però, si può indicare con il termine estremo qualsiasi ambiente i cui parametri siano sostanzialmente al di fuori da quelli ottimali per la sopravvivenza umana, nonostante comunque vi possano vivere gruppi, e inusuale per denotare condizioni che siano fortemente devianti rispetto a quelle dei più, anche se non per la totalità delle comunità umane. Alcuni ambienti si possono classificare EUE anche solo temporaneamente, ad esempio nel caso di una guerra o di una calamità naturale. Molti EUE comprendono non solo la lontananza fisica dal resto della popolazione, ma anche la difficoltà di accesso alle risorse esterne, oltre ad un range spaziale ben definito.

Vi possono essere ICE in luoghi non EUE, come ad esempio nel caso di prigioni, campi di prigionia, comunità che lavorano per certi periodi nelle miniere o sulle piattaforme petrolifere, abitanti di eremi, gli equipaggi nelle navette spaziali e in simulatori simili, il personale delle aree di controllo missilistiche e vari altri. ICE locati in zone EUE possono includere deserti caldi o freddi, isole disabitate, picchi montuosi, capsule.

Le capsule hanno la particolarità di essere lontane da altre comunità, locate in condizioni estreme per la sopravvivenza umana, e difficili da raggiungere o lasciare. Sono inoltre abitate da gruppi , composti artificialmente, di persone che vengono allontanate dalla loro normale vita quotidiana e che si trovano in quella situazione per completare un compito o un obiettivo ben preciso. le escursioni all’esterno sono rare e disagevoli, oltre che frequentemente pericolose. Importanti all’interno della capsula sono gli spazi

lavorativi, le zone living così come zone ricreative, infermeria, zone per la preparazione e la consumazione dei cibi e comunicazione con l’esterno.

All’interno di questi ambienti, le indagini di tipo psicologico sono piuttosto dispendiose. Piuttosto che direttamente in loco, spesso si preferisce l’uso di simulazioni, meno costose, più sicure e facilmente accessibili. I metodi utilizzati sono i più vari: test psicometrici, interviste, esperimenti in laboratorio, osservazione partecipativa, studi sul campo simulazioni e metodi qualitativi, con analisi di contenuto. I dati raccolti nelle capsule, per ovvie ragioni situazionali, forniscono dati di piccoli campioni, sicuramente non raccolti a caso, e quindi non necessariamente rappresentativi dell’intera popolazione. I dati raccolti finora, però, presentano una grande concordanza interna, essendo stati replicati in diversi ambienti, in diversi gruppi e in più di un ambiente capsula, cosa che accresce notevolmente la credibilità delle conclusioni che sono state fatte sinora (Suefeld e Steel, 2000).

L’immagine che spesso viene enfatizzata della vita nella capsula è quella della deprivazione, della fatica, di forti stress e pericoli. Molto spesso l’accento è posto sulle difficoltà nell’interazione fra membri del gruppo, negli scontri interpersonali, nelle discordi riguardo le procedure da seguire sia con l’organizzazione centrale che con i capi, con menzioni di frequenti ammutinamenti e ribellioni. Quello che non viene menzionato, spesso, è la frequenza di comportamenti simili in caso di ambienti noiosi, monotoni, ma familiari (Douglas, 1991).

Secondo Suefeld (2000) è importante concentrarsi, invece, sugli aspetti positivi e salutari dell’esperienza della vita in capsula, oltre ovviamente ad analizzare gli aspetti negativi.

Per molti dei soggetti che passano un certo periodo in un ambiente capsulare, almeno per quelli per cui il soggiorno non si è trasformato in un disastro completo, l’esperienza è diventata una parte importante della vita, percepita come un stimolo alla crescita, al rafforzamento personale all’approfondimento della propria psiche, da ricordarsi con orgoglio e piacere.

 

5 – Aspetti psicologicamente rilevanti dell’ambiente-capsula

In passato la psicologia ha occupato un posto di minore importanza nelle scienza polari, rispetto alle altre discipline (Suefeld, 1991). Il Comitato Scientifico sulle Ricerche Antartiche (sigla inglese SCAR), un’associazione non governativa che coordina e monitora tutte le ricerche antartiche grazie agli accordi internazionali, ha approvato solo nel 1987 l’aggiunta di un rappresentante dell’Unione Internazionale delle Scienze Psicologiche all’interno dell’organico. Attualmente, il ruolo della ricerca psicologica in

questo campo è riconosciuta e presa in considerazione nella creazione degli obiettivi e nelle attività attuali dei gruppi che affrontano un periodo nelle zone polari.

Suefeld e Steel (2000) pongono una lista di diversi aspetti che possono essere potenzialmente stressori in un ambiente particolare come quello della capsula. Come vedremo, questa lista presenta una serie di caratteristiche spesso intrinseche alla vita nella capsula, che possono essere moderate e rese meno cruciali, se non, dove possibile, evitate completamente.

Si ritiene particolarmente importante la riduzione dello stress dove possibile perché questo non potrà che migliorare il clima all’interno del gruppo e favorire la cooperazione per portare avanti obiettivi comuni, oltre a mantenere alto il livello di motivazione personale.

La letteratura popolare e professionale riguardo gli ambienti polari ha a lungo parlato della “sindrome dell’inverno”. Molti membri degli equipaggi inviati durante l’inverno polare hanno dimostrato combinazioni di depressione, irritabilità, danni cognitivi, disturbi del sonno e stati di coscienza alterati (Palinkas e Browner, 1995). Altri sintomi riportati durante questo periodo sono apatia, problemi psicosomatici e mancanza di igiene personale tra alcuni membri del gruppo (e.g. Taylor, 1987).

Suefeld e Steel (2000) individuano diverse fonti negli ambienti-capsula che accrescono lo stress. Queste fonti vengono divise in quattro categorie principali di seguito riportate: stressori fisici; fattori psicoambientali, che sono determinati dalle reazioni degli individui alle condizioni ambientali; fattori sociali, legati alle relazioni interpersonali; fattori temporali, relativi al passare del tempo.

 

5.1 – Stressori fisici

La natura pericolosa dei luoghi in cui vengono installate le capsule fa sì che si ponga un particolare accento sull’identificazione dei pericoli che possono incorrere. Nella regione Antartica gli imprevisti deterioramenti delle condizioni climatiche, la mancanza di un adeguato equipaggiamento (ad esempio una radio) o abbigliamento durante le escursioni in esterni sono i motivi di maggiore preoccupazione.

Molti di questi pericoli, comunque, vengono considerati solo moderati, anche perché molti degli spedizionieri ritengono di essere in grado si fronteggiarli con successo.

L’eziologia di alcuni effetti avversi è incerta: per esempio, c’è stata un’inattesa riattivazione di virus latenti (herpes ed Epstein-Barr) tra il personale di spedizioni in Antartide e nello spazio (Suedfeld e Steel, 2000). Questo fenomeno potrebbe essere legato allo stress, ma potrebbe anche essere imputato alla mancanza di difese immunitarie durante l’incapsulamento dell’equipaggio.

Un altro problema è il rumore. Il rumore costante, monotono e le vibrazioni dei macchinari può interferire con il riposo e la concentrazione. Le tempeste polari sono inoltre fonti di rumore forte e persistente, che alla lunga può innervosire notevolmente. Ovviamente, il rumore può anche trasformarsi in piacere quando riguarda il suono di radio, musica e televisione, oltre che si suoni piacevoli della natura.

 

5.2 – Fattori Psico-Ambientali

Densità: le capsule tendono ad essere piccole per ragioni di tipo pratico (costi di costruzione, maggiore efficienza, minore dispersione termica, composizione limitata del gruppo). Questa condizione non si può applicare alle stazioni antartiche in inverno, in quanto la portata del gruppo si riduce drasticamente, ma lo sono in estate, quando il gruppo è più numeroso. Molte capsule in questa stagione non permettono all’equipaggio di avere spazi personali, la privacy necessaria e la distanza minima dalle altre

persone. Queste condizioni disturbano la necessità di avere un luogo dove poter stare soli occasionalmente. Probabilmente il letto è l’unico spazio privato di cui ogni membro dell’equipaggio dispone. Curiosamente una possibile soluzione potrebbe venire da un noto programma televisivo “Grande Fratello”: all’interno della casa, dove vi è alta densità di abitanti e mancanza di spazi privati viene istituito il “confessionale” dove è possibile passare del tempo in solitudine, magari sfogandosi dei

propri problemi in un dialogo solitario oppure (nonostante questo non venga messo in onda) con uno psicologo che interagisca con chi parla.

L’isolamento all’interno della capsula: L’isolamento può portare a reazioni nevrotiche, apatia, disordini del sonno, stress psicologico risultante dalla stanchezza, dalla mancanza di informazioni e dalla sindrome ipomaniacale da post-isolamento.

Confinamento: Percepito maggiormente durante le spedizioni aerospaziali, la sensazione di essere confinati e non potersi muovere dalla capsula si può evitare con l’interruzione della monotonia, ad esempio inserendo all’interno della capsula piante o animali da curare che aiutano l’equipaggio a ridurre stress e noia. I fattori che accompagnano frequentemente la sensazione del confinamento sono la mancanza di esercizio fisico, e il conseguente decondizionamento.I soggetti provano stato di sonnolenza, depressione e declino generalizzato dell’umore; comportamenti compulsivi, problemi psicosomatici ed ipodinamia, la conseguenza dell’insufficienza di attività motoria. Questa condizione

può portare ad atrofia muscolare e a minori performance cognitive e motorie. Monotonia: la mancanza di novità e di variazione a livello sensoriale, la mancanza di cambiamenti all’interno come all’esterno, sia del paesaggio che dei compiti da svolgere, possono portare a sensazioni di noia, depressione, minor reattività.

 

5.3 – Fattori sociali

Monotonia sociale: il fatto di dover stare insieme forzatamente e la monotonia sociale sono sicuramente tra i fattori maggiori di stress (Suefeld, Steel, 2000). Smith (1969) conclude che dopo 2 o più settimane di confinamento, i più irritanti comportamenti erano considerati l’inadeguatezza della leadership e il comportamento degli altri. L’arrivo di visitatori o i rimpiazzi possono essere buoni alleati per spezzare la monotonia sociale. Questo rimedio, comunque, presenta una doppia faccia, se da un lato interrompe la monotonia pone anche nuovi compiti al gruppo: i nuovi arrivati hanno bisogno di attenzioni, rompono la routine del gruppo e pongono problemi di integrazione all’interno del team già esistente.

Conflitti: i conflitti possono accendersi tra membri dell’equipaggio così come tra superiori e membri.

L’ammiraglio Bird (1938) preferì passare l’inverno Artico da solo piuttosto che rischiare di essere accompagnato da qualcuno che avrebbe potuto diventare insopportabile per il modo che aveva di masticare! Il conflitto può essere scatenato anche dalle caratteristiche personale dei soggetti che compongono il gruppo. Come si vedrà più avanti nell’articolo (vedi: La selezione dell’equipaggio: il modello giapponese) alcune nazioni insistono sulla selezione di un gruppo armonioso piuttosto che sull’individuo in se.

Ruoli Sociali: Al momento dell’arrivo nella postazione l’individuo si trova di frequente in mezzo a persone sconosciute e deve di conseguenza ricostruire un ruolo sociale all’interno del nuovo gruppo.

L’autostima e la valutazione di sé diventano in questo momento cruciali, in quanto il soggetto si trova analizzato e scrutato da persone quasi o totalmente sconosciute. La creazione di una nuova identità all’interno del gruppo, la nascita di una micro cultura, o peggio, di più microculture, la creazione di nuovi concetti di se in relazione agli altri sono ulteriori fonti di stress. Ruoli incompatibili (ad esempio il personale militare e gli scienziati civili) possono portare conflitti, generalmente sulla base del diverso centraggio della missione o sulle differenti priorità della stessa.

Queste tensioni possono portare a divisioni all’interno del gruppo con la conseguente formazione di sottogruppi o addirittura di un intero gruppo contro un solo individuo. Creare chiarezza nei ruoli, da parte della direzione, può essere un modo per facilitare il processo iniziale e creare minori conflitti.

Comunicazione: All’interno della capsula la comunicazione interpersonale viene accentuata. Altman e Haytorn (1965, 1967) hanno mostrato come il confinamento in questo particolare ambiente aumenti l’intimità e l’apertura verso gli altri. I soggetti che si sono inizialmente aperti agli altri, però, potrebbero pentirsi di averlo fatto, in un momento successivo. Facilmente, infatti, si verificano perdite di informazioni, pettegolezzi tra compagni che possono portare a numerosi sentimenti negativi.

Mantenere la segretezza di alcune informazioni diventa quasi impossibile. In particolare, nei gruppi a prevalenza maschile, le donne sono spesso oggetto di pettegolezzi riguardanti la loro (supposta) disponibilità sessuale (Rothblum et al., 1998). In un contesto così isolato la comunicazione diventa comunicazione è non solo nei messaggi con la base, che fornisce ovviamente importanti informazioni e consigli utili, ma anche con la famiglia, gli amici e i colleghi, capace di risollevare l’umore e provocare sensazioni positive e di sollievo a molti dei soggetti in isolamento.

D’altro canto, la mancanza di informazioni, o ancora peggio, cattive notizie da casa, possono essere foriere di rabbia, depressioni e frustrazione in caso il soggetto si senta impotente nell’aiutare o partecipare a ciò che succede in famiglia.

Sesso: Molti programmi in Antartide, sia americani che russi, includono regolarmente membri femminili nell’equipaggio. I risultati sono generalmente buoni, anche se si è verificato l’insorgere di alcune gelosie o competizioni sessuali, mentre alcune donne hanno trovato l’eccesso di attenzioni scomodo e difficile.

Nonostante la NASA non abbia riscontrato articolarti differenza nelle performance tra i due sessi, in caso di missioni spaziali, in Russia è stato notato che “per alcune delle mansioni a bordo che richiedono attenzione e accuratezza, le donne si sono dimostrate capaci di agire in modo più efficiente rispetto agli uomini” (Gubarev, 1983, p. 38 in Suefeld e Steel, 2000).

 

5.4 – Fattori Temporali

Durata: uno degli aspetti critici della permanenza in capsula è la durata del periodo. Il fattore tempo impatta tutte le variabili fisiche e psicologiche che abbiamo precedentemente menzionato, in virtù del fatto che molti degli stressori non sono particolarmente gravi, ma possono diventarlo accumulandosi con il tempo, mentre l’equipaggio potrebbe non rendersi conto della loro presenza fino a che siano diventati ormai gravi. Per questo motivo è molto importante un costante monitoraggio dei primi sintomi di stress in modo da adottare per tempo le appropriate contromisure.

Con il passare del tempo, inoltre, è possibile che la motivazione e il morale subiscano un declino, mentre, in particolare per gli spedizionieri in Antartide, eventuali lacune nella preparazione venono riconosciute aumenta la preoccupazione per eventuali pericoli durante le spedizioni polari, il lavoro e persino l’attività ricreativa.

Ciononostante, vi sono anche aspetti positivi in una durata lunga ma ragionevole di una missione polare. Le capacità di coping e le confidenza tra membri aumentano con il passare del tempo, mentre si riduce l’apprensione per la difficoltà dei compiti da affrontare.

Cicli: I ritmi circadiani, in particolare il ciclo sonno-veglia, se alterati, possono dare luogo a situazioni critiche. Molti individui possono essere soggetti ad aumenti di stress, sia fisiologico che psicologico, significativi nel caso i loro ritmi naturali non vengano rispettati. Programmazione: la divisione del tempo lavorativo e del tempo ricreativo ha una grande importanza. A volte l’eccesso di lavoro può essere stressante, ma quello che spesso passa inosservato è il contrario:

l’eccessivo tempo libero, in una situazione come quella Antartica può essere ugualmente nocivo.

Durante il tempo libero, infatti, difficilmente si trova distrazione da quelli che sono gli aspetti negativi della capsula: l’isolamento, la mancanza di spazi privati, le condizioni climatiche esterne (specialmente durante l’inverno). Stati di coscienza alterati, eccessiva sonnolenza, percezione rallentata del passare del tempo e rallentamento delle funzioni cognitive, sono i sintomi più diffusi, spesso erroneamente confusi come sintomi di deterioramento mentale. Importante da questo punto di vista è la presenza di un adeguato numero di distrazioni per i tempi morti da affrontare durante la permanenza.

Le seguenti tabelle propongono un riassunto dei principali fattori di stress, con le cause, i sintomi, le conseguenze sullo stato psicologico e fisiologico e le possibili precauzioni per evitare conseguenze negative.

 

 

6 – Caratteristiche principali per la bona riuscita della missione

6.1 – L’importanza dell’armonia all’interno del gruppo di lavoro

Come abbiamo visto precedentemente la compatibilità tra membri del gruppo è una caratteristica estremamente importante per la buona riuscita del compito. Shears e Gunderson (1966) la considerano come una delle condizioni più importanti per l’efficacia di una stazione antartica, importante quasi come la performance lavorativa, per un adattamento effettivo all’ambiente antartico.

Peri e Tortora (1989) sono stati tra i primi in Italia ad investigare questa particolare area, purtroppo con risultati iniziali scarsi, a causa dell’insufficiente partecipazione da parte dei soggetti ai test utilizzati. La difficoltà ad ottenere appoggio dall’equipaggio è dovuta alla scarsa considerazione dell’aspetto psicologico di tali missioni, diffuso specialmente in passato. Attualmente le condizioni sono cambiate e Peri et al. (2000) hanno potuto condurre felicemente un’indagine volta a studiare l’evoluzione delle relazioni umane durante il soggiorno in Antartide, che tenesse in conto le dinamiche intra- ed interpersonali utilizzando una versione italiana del MIPG (Matrix of Intra and Interpersonal Processes in

the Group), meno personale ed invasivo rispetto ad altri metodi e quindi risultato più accettabile dai soggetti. Si noti che l’esperimento metteva a confronto le modificazioni avvenute in una campagna di due mesi in Antartide da parte di due diversi gruppi, il primo più numeroso (40 elementi) e il secondo più ridotto (solo 15 soggetti). Nonostante i due gruppi non presentassero particolari disparità all’inizio della campagna, le differenze finali risultano essere notevolmente accentuate dal soggiorno stesso. Il gruppo che inizialmente presentava una maggiore ansia e minore armonia interpersonale ha registrato un aumento finale dell’ansia e un’ulteriore diminuzione dell’armonia; il gruppo meno ansioso e più

armonico ha registrato invece una maggiore armonia e un calo dei livelli dell’ansia. Peri et al. (1991) ipotizzano che l’ambiente Antartico abbia la capacità di intensificare le caratteristiche delle relazioni umane, siano esse positive o negative. Un’altra risorsa importante, che ha il potere di condizionare positivamente il gruppo è il grado di apertura e di chiusura tra i membri stessi e tra i membri e i leader.

Questa caratteristica nell’esperimento è rimasta costante per l’intero periodo all’interno del gruppo, nonostante ciò, gli autori precisano che verso la fine del progetto in uno dei due gruppi appariva un umore irritabile che è rimasto latente, ma che forse sarebbe potuto sbocciare con l’andare del tempo.

 

6.2 – La selezione dell’equipaggio: il modello giapponese

Weiss et al. (2000) hanno condotto uno studio sulle caratteristiche del gruppo di lavoro giapponese per le missioni in Antartide, nella stazione polare di Asuka, al fine di individuare eventuali differenze con i team occidentali. Il processo di selezione, effettuati per il Japanese Antartic Resarch Expedition (o JARE), come primo punto era particolarmente centrato sull’abilità personale di completare i compiti assegnati all’individuo, con un occhio di riguardo alla composizioni di gruppi che potessero lavorare insieme in modo efficiente e privo di particolare difficoltà. In quelli che sono i criteri standard della selezione degli equipaggi per le missioni in Antartide, abilità, compatibilità e stabilità (Gunderson,

1974), i primi due sono considerati i più importanti, in contrasto con lametodologia comunemente adottata in Europa che considera la prima e l’ultima come le caratteristiche più rilevanti.

Non è solo questo però, secondo gli autori, a rendere intrigante e degna di nota la metodologia giapponese. Nonostante la ricerca psicologica non sia tra le priorità del JARE ci son state indagini sulle modalità in cui il popolo giapponese si adatta alle condizioni polari (i.e. Takami, 1991). Generalmente le condizioni di vita giapponesi sono caratterizzate da forte affollamento e mancanza di spazi personali, condizioni che hanno sviluppato nella popolazione strumenti difensivi che permettono di convivere fortunatamente con queste condizioni (e.g. vedi Raybeck, 1992).

Il senso del gruppo, inoltre, è molto forte in netto contrasto con la mentalità individualista occidentale, e fin da piccoli i bambini imparano a far parte di gruppi in modo armonioso e a collaborare per raggiungere scopi comuni. I risultati dell’indagine di Weiss et al. (2000) compiuta nell’arco di tre anni su un campione di 107 maschi giapponesi, la maggioranza di cui non era mai stata in Antartide prima, ha messo in luce che gli spedizionieri avevano alti livelli di resistenza allo stress, erano più orientati allo scopo e meno orientati verso emozioni negative rispetto ad un campione di nordamericani studiato precedentemente durante l’estate Artica, già di per se meno difficoltosa dell’inverno nella stessa regione.

Il fatto che non siano stati rilevati cambiamenti significativi nei tratti di personalità stabili durante il periodo in studio, potrebbe inoltre suggerire che il metodo di selezione e di allenamento giapponese per i gruppi di lavoro nell’inverno polare sia particolarmente efficace e consistente nell’usare criteri affidabili nel produrre team che possano resistere e fronteggiare con successo con le condizioni ambientali e sociali artiche.

 

6.3 – Criteri di selezione dei candidati

Per motivi di ovvietà, abbiamo preferito non menzionare il primo screening di selezione dei candidati, basato sulle capacità fisiche, sull’assenza di patologie psicologiche potenzialmente pericolose per il candidato e per gli altri, insufficiente sopportazione dello stress, per passare direttamente alla seconda fase del processo di selezione, ovvero, tra i migliori, scegliere chi è davvero qualificato per questo tipo di missioni.

Diversi criteri sono stati formulati per questo processo:

Gunderson (1973) propone una triarchia di caratteristiche quali: l’abilità nel compito, socievolezza e stabilità emotiva. Il programma spaziale sovietico utilizza, invece, una massiccia batteria di test ed interviste, di cui un test per la resistenza allo stress richiede ad un gruppo di candidati di guidare una piccola vettura attraverso la campagna. Come suggerisce questa attività, lo scopo delle selezioni non è di selezionare un individuo ma un gruppo di persone, sulla base di come lavorano e si coordinano vicendevolmente, la compatibilità di gruppo è considerata, come abbiamo visto nell’esempio giapponese, la caratteristica principale nel programmare una missione. Alcuni tratti personali

importanti, che esulano leggermente dagli standard ufficiali, sono il senso dell’umorismo, la sensibilità culturale e la tolleranza (Burrough, 1998).

Tra gli approcci di tipo personalistico il modello “Big Five” (Costa e McCrae, 1992) è stato considerato particolarmente valido per i programmi di selezione degli equipaggi da inviare in capsula.

Generalmente, i candidati da inviare in Artide e Antartide hanno punteggi più alti in tutti i settori rispetto alla norma, eccetto che nel fattore nevroticismo, ovvero la summenzionata “stabilità emotiva” di Gunderson.

 

7 – Conclusioni

Numerosi studi si sono occupati delle condizioni psicologiche dei gruppi di lavoro in Antartide. Come abbiamo visto, questo tipo di ambiente presenta una notevole serie di caratteristiche che lo rendono unico e interessante dal punto di vista dell’andamento psicologico dei soggetti che vi affrontano un periodo più o meno lungo. Gli studi che sono stati compiuti hanno evidenziato le numerose caratteristiche possono portare a situazioni di stress, più o meno acute.

Quello che risulta cruciale è l’attenzione che viene posta, nei criteri di selezione, dalla scelta di una squadra piuttosto che ad una serie di individui dotati. Questo approccio potrebbe essere la chiave di un successo ancora maggiore nelle missioni in Antartide. Creare un gruppo in base alle caratteristiche personali di compatibilità e testare il gruppo, piuttosto che l’individuo, può diventare un criterio fondamentale che permetta missioni a contenuti livelli di stress e aumentata armonia, condizioni che non possono che favorire la buona riuscita della missione.

 

Bibliografia

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© Vita in ambienti confinati: aspetti psicologici e criteri di selezione del team – Anna Rosso

Strumenti di Assessment

Gli strumenti di assessment che proponiamo al momento sono:

 

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Articolo 9 – Lo stress lavoro correlato: Prospettive di intervento – Valutare l’organizzazione – Questionari

Questionari rivolti all’identificazione delle sorgenti di stress da lavoro e alla valutazione dell’organizzazione del lavoro:

 

Rispetto a questa prima classificazione l’autore identifica:

    • L’Occupational Stress Indicator (OSI) il questionario sviluppato da Cooper (1988) che, come dalla tabella riportata, è disponibile anche in italiano. Si tratta di uno strumento voluminoso, la cui auto-somministrazione richiede circa un paio d’ore. Le sue dimensioni fanno sì che esso sia frequentemente applicato in modo parziale. Il questionario indaga oltre ai fattori intrinseci al lavoro (fonti dello stress: relazione con altre persone, carriera e riuscita, interfaccia casa lavoro,…), le caratteristiche dell’individuo (stato di salute, locus of control,…) le strategie di capitolo quarto coping (supporto sociale, orientamento al compito, relazione casa lavoro,…) e gli effetti dello stress (soddisfazione per il lavoro, soddisfazione per l’impostazione e la struttura organizzativa,…). Gli elementi di disagio vissuto sono considerati possibili indicatori di criticità organizzativa.
    • Il questionario sui fattori di stress da lavoro (QFSL). Si tratta di uno strumento composto da 40 domande, a ciascuna delle quali la risposta è fornita mediante una scala Likert in 5 punti; fornisce un  punteggio complessivo, espressione del complessivo “strain” occupazionale, e sei sub-scale, corrispondenti a ciascuna delle classi di fattori di stress a cui fa riferimento. Tale strumento si basa sulla classificazione dei fattori di stress proposta da Raja Kalimo (1980) e riferita ai precedenti studi di Cooper et al. (1976), in sei categorie: fattori legati al ruolo nell’organizzazione, fattori intrinseci al lavoro, rapporti con gli altri, clima e struttura organizzativa, carriera, interfaccia con l’esterno. Il questionario fornisce una rappresentazione esaustiva dei fattori di stress professionale e si è rivelato efficace per identificare ed elencare tutti i fattori di stress potenzialmente presenti in una determinata situazione lavorativa.

Magnavita (2007) ha condotto uno studio allo scopo di verificare i risultati dell’applicazione del questionario. Il questionario è stato somministrato a 371 lavoratori della sanità. I risultati mostrano che la consistenza interna del questionario, che esprime la capacità di spiegare correttamente la varianza dei fattori di stress occupazionali rispetto all’ipotetica varianza reale di tutti i fattori di stress presenti nel luogo di lavoro, misurata mediante il coefficiente alfa di Cronbach, è risultata molto buona, cioè largamente superiore al livello convenzionale dell’80%, alfa=0,9284.

Tuttavia, l’autore sostiene che le categorie di fattori di rischio presentano evidenti sovrapposizioni e la lunghezza del questionario ne limita l’applicazione congiunta con altri strumenti di misura.

L’autore propone inoltre, sempre all’interno di questa categoria, alcuni questionari utili alla valutazione dell’organizzazione del lavoro, quali:

    • Il Questionario per la Valutazione dell’Organizzazione del Lavoro (WOAQ – Work Organisation Assessment Questionnaire) è uno strumento che è stato sviluppato dai ricercatori dell’Università di Nottingham nel quadro di un progetto per la valutazione e la riduzione dei rischi da lavoro nel settore dell’industria. Il WOAQ è costituito da 28 domande relative ai possibili rischi inerenti al design e al management del lavoro, ciascuna associata a cinque possibili risposte. Agli addetti viene richiesto di indicare, sulla base della propria esperienza e conoscenza, quanto sia problematico (o soddisfacente) ciascun aspetto del proprio lavoro, mediante una scala a cinque punti tipo Likert. La formulazione delle domande è di tipo situazionale più che psicologico. Ad esempio, si chiede “quanto pensa che questo aspetto del suo lavoro sia buono (o cattivo)?” piuttosto che “quanto è stressato da questo aspetto del suo lavoro?”. La direzionalità delle scale è stata variata al fine di ridurre la probabilità di risposte perseveranti. Nella versione originale inglese, l’esame della struttura fattoriale non ruotata ha indicato che una percentuale significativa della varianza del questionario è spiegata da un singolo fattore; viceversa, mediante rotazione Varimax sono stati identificati cinque fattori, relativi rispettivamente: alla qualità delle relazioni con il management; a ricompense e riconoscimenti; al carico di lavoro; alla qualità delle relazioni con i colleghi; alla qualità dell’ambiente fisico. La versione italiana del WOAQ conserva le caratteristiche dell’originale e manifesta relazioni coerenti con variabili correlate all’organizzazione del lavoro, come il sostegno sociale (col quale si correla positivamente), lo stress da lavoro e il malessere psico-fisico dei lavoratori (con i quali si correla in senso negativo). Il WOAQ si conferma quindi, per l’autore, uno strumento utile per la valutazione dell’organizzazione del lavoro.
    • Il questionario M_DOQ10 (Majer_D’Amato Organizational Questionnaire_10), è composto da 70 item su scala Likert a 5 punti e misura 10 dimensioni centrali dei fenomeni organizzativi: comunicazione, autonomia, coerenza, chiarezza dei ruoli, coinvolgimento nel lavoro, equità, relazioni e comunicazioni con i superiori, innovatività, dinamismo. Il questionario viene elaborato per via informatica mediante un programma dedicato. Il questionario indaga le caratteristiche dell’organizzazione aziendale e si è rivelato, più propriamente, un valido strumento di misura del clima organizzativo.

Tangredi et al., (2007) hanno condotto uno studio, allo scopo di sperimentare e validare un criterio per l’identificazione delle cause dello stress lavoro correlato, mettendo a punto un modello di valutazione del rischio, basato sul raffronto della rilevazione delle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro, effettuata attraverso un questionario somministrato al responsabile e, la rilevazione della percezione soggettiva attraverso un questionario specifico somministrato al gruppo degli esposti. Il modello di valutazione del rischio, oggetto del presente studio, è stato sperimentato in un campione composto 268 lavoratori di 13 Amministrazioni Comunali appartenenti a categorie note per il rischio stress appartenenti a 23 strutture organizzative omogenee (agenti di polizia locale ed educatrici di asilo nido).

Il modello di valutazione del rischio sperimentato è basato sulla identificazione di “aree chiave” (possibili fonti di pericolo) nella organizzazione del lavoro, rilevate attraverso la somministrazione di un’intervista semistrutturata per la rilevazione degli elementi caratterizzanti l ’organizzazione del lavoro, al responsabile dell’organizzazione dell’attività lavorativa, accompagnata dalla verifica della relativa documentazione (procedure, mansionario, schede di autovalutazione,…) presente presso il luogo di lavoro. Le criticità rilevate nell’organizzazione del lavoro (es. poca chiarezza nelle mansioni, assenza di procedure operative e dell’autocontrollo sull’attività svolta, scarsa possibilità di chiarimenti da parte dell’organizzazione, …) sono, secondo il modello proposto, riconducibili alle cosiddette “aree chiave” (possibili fonti di pericolo per stress) per la determinazione dei gradi di probabilità di rischio.

La valutazione del rischio è stata completata con la rilevazione della percezione soggettiva del clima organizzativo nel gruppo degli esposti, attraverso la somministrazione del questionario MDOQ_10 (Majer_D’Amato Organizational Questionnaire_10). I fattori dell’organizzazione indagati con i due strumenti di rilevazione (fase 1: intervista e MDOQ_10) sono gli stessi: team, comunicazione, coerenza, valutazione della soddisfazione del lavoratore, valutazione della soddisfazione dell’azienda, carichi di lavoro, orari di lavoro, retribuzione e carriera, mansioni e procedure, autonomia, responsabilità, innovatività, formazione. Pertanto,il questionario MDOQ_10, complessivamente analizzato nel gruppo, è stato integrato nel modello di valutazione, con le rispettive variabili appaiate per analogia ai fattori caratterizzanti l’organizzazione del lavoro e riconducibili alle quattro aree chiave individuate (relazioni con il lavoro, vita lavorativa, processi di gestione, cambiamento).

Così come per gli aspetti dell’organizzazione del lavoro rilevati con l’intervista al responsabile, anche per gli aspetti della percezione del clima organizzativo da parte del gruppo degli esposti, le criticità emerse sono state considerate come campi di interventi correttivi specifici della realtà lavorativa presa in esame.

La valutazione del rischio (fase 2) è stata parallelamente integrata da un’indagine epidemiologica (fase 3) sugli effetti che il clima organizzativo può avere determinato sui lavoratori (intesi come vissuto personale di condizioni stressogene), attraverso la somministrazione di:

    • un questionario per la valutazione dello stress occupazionale (OSI) che, come abbiamo osservatosopra, indaga i fattori intrinseci al lavoro. Gli elementi di disagio vissuto sono considerati possibili indicatori di criticità organizzativa.
    • un questionario per la raccolta dei disturbi somatiformi (stress correlabili. L’indagine epidemiologica dei disturbi somatiformi costituisce un’utile integrazione al monitoraggio dello stato di benessere psico-fisico nel gruppo degli esposti.

In questa fase di indagine la Valutazione del rischio stress è stata caratterizzata dall’attività integrata del medico competente, della psicologa e del tecnico della prevenzione.

Per entrambe le categorie l’analisi delle aree chiave ha portato a risultati complessivamente concordanti, anche a conferma della corrispondenza dei fattori organizzativi presi in esame dai due strumenti di rilevazione utilizzati (intervista e questionario MDOQ_10).

Lo studio ha evidenziato come, sia pur a fronte di organizzazioni lavorative strutturate e di una percezione generalmente positiva del clima organizzativo, nei due gruppi emerga un vissuto di tensione relativamente ad alcuni aspetti dell’attività lavorativa (“relazioni con altre persone” e “ruolo manageriale” per le educatrici e “carriera e riuscita e “clima e struttura organizzativa” per gli agenti di polizia locale).

Gli autori con presente studio hanno inteso promuovere l’utilità di un modello integrato nella valutazione dei rischi che prevede la valutazione dell’organizzazione e valutazione della percezione del singolo.

Inoltre, i risultati hanno evidenziato che una valutazione integrata permette di rilevare più facilmente “aree di criticità”, anche quando apparentemente l’organizzazione è ben strutturata; o viceversa rilevare una buona percezione del clima organizzativo da parte dei lavoratori anche quando dall’analisi dell’organizzazione (intervista al responsabile) emergono invece criticità.

Gli autori ritengono che il metodo utilizzato abbia raggiunto gli obiettivi prefissati rivelandosi un buon modello da proporre ai soggetti coinvolti nella prevenzione e tutela del benessere psicofisico dei lavoratori, soddisfacendo esigenze di rilevazione sia oggettiva ché soggettiva.

Sottolineano, inoltre, l’utilità dell’approccio multidisciplinare (tecnico, medico, psicologo) sia nella fase di impostazione degli strumenti di studio, sia nelle fasi di valutazione e adozione dei provvedimenti, oltre che per un migliore controllo dello stato di salute dei lavoratori.

Concludendo gli autori auspicano per la valutazione dei fattori di rischio spico-sociali e dello stress lavoro correlato, nella pratica, l’uso di metodi integrati ed un approccio multidisciplinare.

Nella rassegna proposta da Magnavita (2008) non viene incluso un questionario che merita di essere citato:

    • Il questionario multidimensionale della salute organizzativa MOHQ inserito invece nella tabella proposta da Tabanelli et al. (2008). Il questionario consente di definire “lo stato di salute” dell’organizzazione e di individuare le aree sulle quali intervenire per promuovere migliori condizioni di lavoro. Si basa sul costrutto di “salute organizzativa” definita come “l’insieme dei nuclei culturali e delle pratiche organizzative che animano la convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando il benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative”  (Avallone e Paplomatas, 2005). Come si può desumere dalla definizione l’oggetto di misurazione diventa la salute dell’organizzazione e dell’intera comunità lavorativa. L’obiettivo, infatti, nell’impiego di questo strumento è quello di desumere, attraverso l’analisi della relazione indivio-contesto, elementi di salute organizzativa piuttosto ché individuale.

Rispetto a molti altri strumenti presi in esame l’MOHQ dedica poca attenzione a variabili di tipo individuale, riservando un’unica scala, quella dei disturbi psicosomatici, tesa a cogliere le conseguenze sulla salute dell’individuo. Il questionario si costituisce di nove parti, ognuna della quali indaga diverse dimensioni:

    1. dati socio anagrafici
    1. costituita da otto item per valutare il “confort dell’ambiente di lavoro” (es. temperatura, silenziosità) percepito dai lavoratori
    1. costituita da quaranta item volti ad indagare dieci differenti dimensioni della salute organizzativa (es. chiarezza degli obiettivi, valorizzazione delle competenze, relazione interpersonali collaborative, fattori di stress, equità organizzativa ecc..)
    1. costituita da una scala composta da nove item valuta la “sicurezza del lavoro”
    1. costituita da scala composta da dieci item valuta le caratteristiche del lavoro e la “tollerabilità dei compiti assegnati”
    1. composta da dieci item relativi agli “indicatori positivi” (es. fiducia nel management) e quattordici item relativi ad “indicatori negativi” (es. insofferenza nell’andare al lavoro) per la valutazione delle sensazioni vissute nell’ambiente di lavoro
    1. composta da nove item relativi ad una sola scala quella dei disturbi psicosomatici
    1. costituita da una scala di nove item per indagare “l’apertura all’innovazione”
    1. costituita da un elenco di suggerimenti migliorativi.

Gli item sono formulati sotto forma di affermazioni sulle quali i soggetti esprimono il loro parere circa la frequenza, da mai a spesso, su scala Likert, con cui la situazione descritta nella frase si verifica all’interno della propria organizzazione.

Questo questionario è stato utilizzato all’interno di un ampia ricerca condotta, fra il 2002 ed il 2003, nella pubblica amministrazione (otto comuni e due ministeri e l’Inpdap) ed è stato somministrato ad oltre tremila soggetti. I risultati hanno mostrato, in sintesi, delle differenze nelle percezioni del campione indagato fra addetti comunali e ministeriali. L’organizzazione “comunale” si è configurata come un ambiente tendenzialmente positivo dal punto di vista della salute organizzativa indicando come dimensioni di criticità e possibile miglioramento l’area dell’equità organizzativa e la percezione di “sovraccarico lavorativo” che conduce spesso alla percezione da parte degli addetti di stress lavorativo. L’organizzazione “ministeriale” invece ha presentato una percezione globale di salute organizzativa critica anche se, rispetto all’organizzazione comunale, le percezioni degli intervistati rispetto alle dimensioni di tollerabilità dei compiti e di percezione di stress si sono rivelate tendenzialmente positive. Il basso livello di stress percepito dagli addetti ministeriali potrebbe essere messo in relazione e spiegato dal profilo dei compiti descritto dagli stessi come eccessivamente monotoni e noiosi a causa della rigidità di norme e procedure, questo però non sembra compensare lo scarso senso di coinvolgimento emotivo e cognitivo nel proprio lavoro ed il basso livello di salute organizzativa che tali caratteristiche dei compiti contribuiscono a determinare. Rispetto all’intero campione la soddisfazione per le relazioni personali costruite sul lavoro e vissute come fonte di supporto sembrano costituire il maggior collante organizzativo (Avallone e Paplomatas, 2005).

Come si può evincere da questi dati il questionario consente l’esame dell’insieme dei processi e delle pratiche organizzative che incidono sul benessere della comunità lavorativa. Nel modello di valutazione proposto dal MOHQ, infatti, l’attenzione è principalmente all’organizzazione, ai processi ed alle relazioni che contribuiscono alla sua definizione ed il rischio è connesso al tipo di convivenza che si realizza all’interno dell’organizzazione stessa.

LA VALUTAZIONE DELLO STRESS LAVORO CORRELATO: PROSPETTIVE DI INTERVENTO A PARTIRE DAL DECRETO LEGISLATIVO DEL 9 APRILE 2008, N°81 – © Serena Molari

 

Assessment Center

Assessment center

È una metodologia utile ad individuare il possesso delle capacità necessarie a svolgere ogni tipo d’attività professionale. Una capacità è fondata su comportamenti che consentono di raggiungere risultati in collaborazione con altre persone, di affrontare temi complessi, di presidiare specifiche situazioni complesse, di tenere sotto controllo tensioni interpersonali, di innovare.

La verifica del possesso di tali capacità avviene attraverso i comportamenti che si manifestano sia nella realtà sia nella simulazione.

L’Assessment Center impiega simulazioni di situazioni organizzative che consentono la rilevazione, da parte degli osservatori opportunamente addestrati, dei comportamenti fondamentali che dovranno essere messi in atto dalle persone valutate.

Tali esercitazioni, richiamando il più possibile la realtà aziendale, agiscono da stimolo per attivare i comportamenti che si vogliono osservare e vagliare.

Le esercitazioni dell’assessment center, vengono molto spesso create ad hoc, per simulare la realtà operativa, in modo da consentire la raccolta di indicazioni affidabili sul possesso di una vasta gamma di capacità. Le esercitazioni possono dividersi in individuali o di gruppo (quest’ultime possono essere competitive o cooperative, a ruoli liberi o assegnati); possono inoltre, simulare situazioni e finalità diverse quali ad esempio: analizzare e risolvere uno o più problemi; valutare alternative; prendere delle decisioni; organizzare delle attività; impostare un progetto; impostare e svolgere un negoziato; presentare dati e proposte.

I campi d’applicazione dell’Assessment Center sono:

    • verifica del grado di copertura del ruolo nell’organigramma aziendale;
    • verifica e possibilità di un adeguamento rispetto ad un ruolo, o diversi ruoli, di medesima o maggiore complessità;
    • valutazione del potenziale;
    • analisi estemporanea delle risorse disponibili per la verifica del possesso di determinate capacità in momenti di forte e improvvisa necessità di copertura di nuovi ruoli o di ruoli critici;
    • individuazione dei bisogni formativi in modo mirato;
    • verifica del possesso delle capacità necessarie per ricoprire posizioni diverse (orientamento,sviluppo, piani di carriera, rotazioni);
    • processi di selezione interni/esterni;
    • processo di verifica dell’architettura organizzativa dell’impresa;
    • audit a seguito d’esigenze derivanti da ristrutturazioni, fusioni, acquisizioni, collocazione di personale ed esuberi.

Nello specifico cos’è un assessment center?

È una metodologia di valutazione del potenziale, si tratta di un insieme di diversi test cosiddetti situazionali che richiedono alla persona di eseguire uno o più compiti che si propongono di misurare gli aspetti emotivi del comportamento.

L’Assessment center è oggi uno degli strumenti più utilizzati in azienda per la valutazione del potenziale e la valutazione delle attitudini dei dipendenti, cioè le sue possibilità di crescita e di sviluppo.

Si tratta di uno strumento predittivo utile per individuare quell’insieme di caratteristiche attitudinali e comportamentali che rappresentano il substrato personale di un individuo rispetto alla copertura ottimale di un ruolo organizzativo e quindi che possono permettere di valutare la possibilità di una persona di ricoprire una posizione organizzativa più complessa.

Il focus di osservazione non è il comportamento in sé, ma quello che sottintende in termini di caratteristiche personali e potenzialità.

Obiettivo è infatti quello di scoprire e valutare le caratteristiche a disposizione di un individuo, aldilà di quelle richieste per soddisfare gli obiettivi del ruolo già ricoperto.

Le aree osservate sono quattro:

  1. area dei rapporti con la variabilità: come si impara e la motivazione e come ci si adatta al cambiamento;
  2. area intellettuale: soluzione dei problemi complessi; soluzione dei problemi operativi; flessibilità di pensiero; innovatività;
  3. area manageriale: rapidità e frequenza di decisione; decisionalità ad elevato rischio; capacità realizzativa; capacità organizzativa;
  4. area relazionale: gestione e sviluppo dei collaboratori; gestione di situazioni di influenza; capacità di integrazione e gestione del rapporto interfunzionale.

 

Gli strumenti dell’assessment center

Gli strumenti (cioè le prove e i test) devono simulare la realtà (quindi richiamare contenuti aziendali) e devono avere un obiettivo esplicito. E’ importante che chi guida l’assessment (il valutatore) non pre-assegni la leadership (cioè non decida a priori e quindi non comunichi al gruppo – che deve guidare il gruppo nella prova: è una cosa che deve emergere dal gruppo e di cui poi il valutatore deve tenere nota!).

Vi sono prove di gruppo e prove individuali.

Di gruppo:

Dinamica di gruppo: è una Discussione in gruppo di un caso (generalmente aziendale, ma parimenti utilizzati sono i famosi Allunaggio, Sopravvivenza nel deserto, Naufragio, ), ed ha una durata fra i 45 e i 90′.

Se ci sono più esercizi di gruppo i valutatori devono ruotare fra i vari esercizi in modo da non osservare mai gli stessi candidati. A conclusione della dinamica è utile far compilare al partecipante una scheda in cui egli esprima le sue percezioni della performance propria e del gruppo

Individuali:

In-basket: caso aziendale che richiede di affrontare problemi e prendere decisioni in merito a problemi trovati sulla scrivania sotto forma di posta in arrivo, memo e messaggi telefonici

Case Presentation: caso di strategia aziendale da elaborare individualmente e successivamente esporre in pubblico. Può essereseguito da un Change Announcement (cambiare le carte in tavola) per verificare capacità di flessibilità e gestione del cambiamento

Targeted Interview: intervista mirata a rilevare alcune specifiche competenze (comportamenti) – si basa su casi concreti (non su impressioni)

Questionari comportamentali/test di personalità utili per avere più informazioni sulla persona (a usare in termini di counseling nel feed-back del profilo)

Checklist (auto)valutativa: presenta una serie di quesiti comportamentali basati sulle competenze da indagare.

 

© Andrea Castello – Irene Borgia

 

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Burnout

BURNOUT

Uno sguardo al fenomeno

Il burnout è generalmente definito come una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e derealizzazione personale, che può manifestarsi in tutte quelle professioni con implicazioni relazionali molto accentuate (possiamo considerarlo come un tipo di stress lavorativo). Generalmente nasce da un deterioramento che influenza valori, dignità, spirito e volontà delle persone colpite.

È una malattia in costante e graduale aumento tra i lavoratori dei paesi occidentalizzati a tecnologia avanzata, ciò non significa che qualcosa non funziona più nelle persone, bensì che si sono verificati cambiamenti sostanziali e significativi sia nei posti di lavoro sia nel modo in cui si lavora.

Storia del burnout

Il termine burnout in italiano si può tradurre come “bruciato”, “scoppiato”, “esaurito”, è apparso la prima volta nel mondo dello sport, nel 1930, per indicare l’incapacità di un atleta, dopo alcuni successi, di ottenere ulteriori risultati e/o mantenere quelli acquisiti.

Il termine è stato poi ripreso dalla psichiatra americana C. Maslach nel 1975, la quale ha utilizzato questo termine per definire una sindrome i cui sintomi evidenziano una patologia comportamentale a carico di tutte le professioni ad elevata implicazione relazionale.

La Maslach definisce il burnout come una perdita di interesse vissuta dall’operatore verso le persone con le quali svolge la propria attività (pazienti, assistiti, clienti, utenti, ecc), una sindrome di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione e riduzione delle capacità personali che può presentarsi in persone che, per professione, sono a contatto e si prendono cura degli altri.

Il contatto costante con le persone e con le loro esigenze, l’essere a disposizione delle molteplici richieste e necessità, sono alcune delle caratteristiche comuni a tutte quelle attività che hanno obiettivo professionale il benessere delle persone e la risoluzione dei loro problemi, come nel caso di medici, psicologi, infermieri, insegnanti, ecc..

Negli anni nella sindrome del Burnout sono state incluse altre categorie di lavoratori, tutti quei professionisti o lavoratori che hanno un contatto frequente con un pubblico, con un’utenza, quindi non più solo gli “helper” …, possono quindi far parte di tali categorie tanti liberi professionisti o dipendenti: l’avvocato, il ristoratore, il politico, l’impiegato delle poste, il manager, la centralinista, la segretaria ecc..

Il burnout viene considerato, da molti studiosi, non solo un sintomo di sofferenza individuale legata al lavoro (stress lavorativo), ma anche come un problema di natura sociale provocato da dinamiche sia sociali, sia, politiche, sia economiche; la sindrome può infatti interessare il singolo lavoratore, lo staff nel suo insieme e anche istituzioni (per esempio l’organizzazione dei soccorsi in situazioni di crisi come i Vigile del Fuoco, i Militari, le Forze dell’Ordine ecc.).

Le caratteristiche del burnout

La sindrome del burnout ha maggiore probabilità di svilupparsi in situazioni di forte divario tra la natura del lavoro e la natura della persona che svolge quel lavoro.

Molti contesti lavorativi richiedono una forte dedizione ed un notevole impegno, sia in termini economici sia in termini psicologici e, in certi casi, i valori personali sono messi in primo piano a scapito di quelli lavorativi. Le richieste quotidiane rivendicate dal lavoro, dalla famiglia e da tutto il resto consumano l’energia e l’entusiasmo del lavoratore.

Quando poi successo, conquista ed obiettivi (spesso troppo ambiziosi) sono difficili da conseguire, molte persone perdono la dedizione data a quel lavoro, cercano di tenersi a distanza pur di non farsi coinvolgere e, spesso, diventano cinici.

Il burnout ha manifestazioni specifiche:

    • Un deterioramento progressivo dell’impegno nei confronti del lavoro. Un lavoro inizialmente importante, ricco di prospettive ed affascinante diventa sgradevole, insoddisfacente e demotivante.
    • Un deterioramento delle emozioni. Sentimenti positivi come per esempio l’entusiasmo, motivazione e il piacere svaniscono per essere sostituiti dalla rabbia, dall’ansia, dalla depressione.
    • Un problema di adattamento tra la persona e il lavoro. I singoli individui percepiscono questo squilibrio come una crisi personale, mentre in realtà è il posto di lavoro a presentare problemi.

In sintesi le dimensioni tipiche del burnout sono:

    • Esaurimento. E’ la prima reazione allo stress prodotto da eccessive richieste di lavoro o da cambiamenti significativi. Quando una persona sente di aver oltrepassato il limite massimo sia a livello emozionale sia fisico: si sente prosciugata, incapace di rilassarsi e di recuperare, manca energia per affrontare nuovi progetti, nuove persone, nuove sfide.
    • Cinismo. Quando una persona assume un atteggiamento freddo e distaccato nei confronti del lavoro e delle persone che incontra sul lavoro, diminuisce sino a ridurre al minimo o ad azzerare il propriocoinvolgimento emotivo nel lavoro e può abbandonare persino i propri ideali/valori. Tali reazioni rappresentano il tentativo di proteggere se stessi dall’esaurimento e dalla delusione, si pensa di essere più al sicuro adottando un atteggiamento di indifferenza, specialmente quando il futuro è  incerto, oppure si preferisce ritenere che le cose non funzioneranno più come prima, piuttosto che vedere svanire in seguito le proprie speranze. Un atteggiamento così negativo può compromettere seriamente il  benessere di una persona, il suo equilibrio psico-fisico e la sua capacità di lavorare.
    • Inefficienza. Quando in una persona cresce la sensazione di inadeguatezza, qualsiasi progetto nuovo viene vissuto come opprimente. Si ha l’impressione che il mondo trami contro ogni tentativo di fare progressi, e quel poco che si riesce a realizzare, appare insignificante, si perde la fiducia nelle proprie capacità e in sé stessi.

Le cause del burnout

In genere (ma superficialmente) si ritiene che il burnout sia in primo luogo un problema dell’individuo, le persone manifesterebbero tale disturbo a causa di difetti/caratteristiche del loro carattere, del loro comportamento o nella loro capacità lavorativa (vedi per esempio competenze). In base a questo punto di vista, sono gli individui a rappresentare il problema, e la soluzione sta nel lavorare su di loro o nel sostituirli.

Vari studi hanno dimostrato invece che il burnout non è un problema dell’individuo in sé, ma del contesto sociale nel quale opera. Il lavoro (contesto, contenuto, struttura, ecc) modella il modo in cui le persone interagiscono tra di loro e il modo in cui ricoprono la propria mansione. Quando l’ambiente di lavoro non riconosce l’aspetto umano del lavoro, il rischio di burnout aumenta.

La difficoltà di misurarsi con le proprie emozioni e di conseguenza il non riconoscere il problema con conseguente sentimento di rassegnazione rispetto alla vita sono manifestazioni ben evidenti.

Inoltre il burnout non è affatto un problema che riguarda solo chi ne è affetto, ma è una “malattia” contagiosa che si propaga in maniera altalenante dall’utenza all’èquipe, da un membro dell’èquipe all’altro e dall’èquipe agli utenti e può riguardare quindi l’intera organizzazione.

Alcune delle cause specifiche sono:

    • sovraccarico di lavoro
    • mancanza di controllo
    • gratificazioni insufficienti
    • crollo del senso di appartenenza
    • assenza di equità
    • valori contrastanti
    • scarsa remunerazione.

Maslach e Leiter (1997) hanno elaborato un nuovo modello interpretativo che si focalizza principalmente sul grado di adattamento/disadattamento tra persona e lavoro. Secondo questi autori la sindrome del burnout ha maggiori probabilità di svilupparsi quando è presente una forte discordanza tra la natura del lavoro e la natura delle persone che svolgono tale lavoro.

Queste discrepanze sono da considerarsi come i più importanti antecedenti del burnout e sono sperimentabili in sei ambiti della vita organizzativa: carico di lavoro, controllo, ricompense, senso comunitario, equità, valori. Maslach e Leiter (1997) hanno ridefinito il burnout come una erosione dell’impegno nel lavoro. Quest’ultimo, secondo gli autori, sarebbe caratterizzato da tre fattori (energia, coinvolgimento ed efficacia) che rappresentano i poli opposti delle dimensioni del burnout: impegno e burnout non sono altro che le due estremità opposte di un continuum.

Fattori che possono determinare la sindrome

Fattori individuali

Caratteristiche di personalità

  • introversione (incapacità di lavorare in équipe)
  • tendenza a porsi obiettivi irrealistici
  • adottare uno stile di vita iperattivo
  • personalità autoritaria
  • abnegazione al lavoro, inteso come sostituzione della vita sociale
  • concetto di se stessi come indispensabili
  • motivazione ed aspettative professionali

Inoltre esiste un tratto di personalità che è correlato alla sindrome (il tipo A: ambizioso, competitivo, esigente sia con se stesso che con gli altri, puntuale, frettoloso, aggressivo )

Fattori socio-demografici

    • differenza di genere (donne più predisposte degli uomini)
    • età (primi anni si carriera si è più predisposti)
    • stato civile (persone senza un compagno stabile più predisposte)

Struttura organizzativa

Struttura di ruolo: distribuzione dei compiti e delle funzioni all’interno di una organizzazione

Le tensioni sono generate da:

    • Ambiguità di ruolo: insufficienza di informazioni in relazione ad una determinata posizione
    • conflitto di ruolo:  esistenza di richieste che l’operatore ritiene incompatibili con il proprio ruolo professionale
    • Sovraccarico:  quando all’individuo viene assegnato un eccessivo carico di lavoro o un’eccessiva responsabilità, che non gli permettono di portare avanti una buona prestazione lavorativa
    • Mancanza di stimolazione: si riferisce alla monotonia dell’attività lavorativa
    • Struttura di potere: riguarda il modo in cui si stabiliscono i processi decisionali e di controllo nell’ambito lavorativo, ovvero la possibilità dell’individuo di partecipare alla presa di decisione
    • Turnazione Lavorativa: La turnazione e l’orario lavorativo possono favorire l’insorgenza della sindrome; questo avviene più frequentemente nel personale infermieristico, essendo questo più soggetto ad un dispendio di energie psicofisiche, rispetto al personale medico.
    • Retribuzione inadeguata

La sintomatologia

La sindrome è caratterizzata da manifestazioni quali nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, ostilità delle persone, sia tra di loro sia verso terzi; si distingue dallo stress, (concausa del burnout), così come si distingue dalla nevrosi, in quanto non disturbo della personalità ma del ruolo lavorativo. Dal punto di vista clinico (psicopatologico) i sintomi del burnout sono molteplici, richiamano i disturbi dello spettro ansioso-depressivo, e sottolineano la particolare tendenza alla somatizzazione e allo sviluppodi disturbi comportamentali.

Il soggetto colpito da burnout manifesta:

    • Sintomi aspecifici (stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo, irrequietezza, insonnia)
    • Sintomi somatici: insorgenza di patologie varie(ulcera, cefalea, disturbi cardiovascolari, difficoltà sessuali ecc.)
    • Sintomi psicologici: rabbia, risentimento, irritabilità, aggressività, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, negativismo, indifferenza, depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, isolamento, sensazione di immobilismo, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti e critico nei confronti dei colleghi.

Tale situazione di disagio molto spesso porta il soggetto ad abuso di alcool, di psicofarmaci o fumo.

Da un punto di vista psicopatologico la sindrome del burnout si differenzia dalla sindrome da disadattamento (sociale o lavorativo o familiare o relazionale), si verifica all’interno del mondo emozionale della persona ed è spesso scatenata da una vicenda esterna.

Per evitare che la sindrome del burnout, deteriori sia la vita lavorativa, sia la vita privata della persona, bisogna intervenire con efficacia.

SEGNI E SINTOMI DELLO STRESS LAVORATIVO

  • Alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno
  • sensazione di fallimento
  • rabbia e risentimento
  • senso di colpa e disistima
  • scoraggiamento ed indifferenza
  • negativismo
  • isolamento e ritiro (disinvestimento)
  • senso di stanchezza ed esaurimento tutto il giorno
  • guardare frequentemente l’orologio
  • notevole affaticamento dopo il lavoro
  • perdita di sentimenti positivi verso gli utenti
  • rimandare i contatti con gli utenti, respingere le telefonate dei clienti e le visite in ufficio
  • avere un modello stereotipato degli utenti
  • incapacità di concentrarsi o di ascoltare ciò che l’utente sta dicendo
  • sensazione di immobilismo
  • cinismo verso gli utenti; atteggiamento colpevolizzante nei loro confronti
  • seguire in modo crescente procedure rigidamente standardizzate
  • problemi d’insonnia
  • evitare discussioni di lavoro con i colleghi
  • preoccupazione per sé
  • maggiore approvazione di misure di controllo del comportamento come i tranquillanti
  • frequenti raffreddori ed influenze
  • frequenti mal di testa e disturbi gastrointestinali
  • rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento
  • sospetto e paranoia
  • eccessivo uso di farmaci
  • conflitti coniugali e famigliari
  • alto assenteismo

Sintomi fisici

  • stanchezza
  • necessità di dormire
  • irritabilità
  • dolore alla schiena
  • cefalea
  • stanchezza agli arti inferiori
  • dolori viscerali
  • diarrea
  • inappetenza
  • nausea
  • vertigini
  • dolori al petto
  • alterazioni circadiane
  • crisi di affanno
  • crisi di pianto

Sintomi psichici

  • stato di costante tensione
  • irritabilità
  • cinismo
  • depersonalizzazione
  • senso di frustrazione
  • senso di fallimento
  • ridotta produttività
  • ridotto interesse verso il proprio lavoro
  • reazioni negative verso familiari e colleghi
  • apatia
  • demoralizzazione
  • disimpegno sul lavoro
  • distacco emotivo

Cosa fare praticamente

Riconoscere la sindrome del burnout non è così facile, spesso si tende a ricondurre il tutto come un problema dell’individuo e non del contesto lavorativo nel suo insieme.

Le organizzazioni quasi sempre ignorano questo problema e questo rappresenta un errore molto pericoloso, in quanto il burnout può incidere pesantemente sull’economia dell’intera organizzazione.

La risoluzione del fenomeno burnout dovrebbe essere affrontata sia a livello organizzativo che a livello individuale, l’organizzazione che si assume la responsabilità di affrontare il burnout, lo può gestire in modo garantirsi il proprio personale produttivo nel tempo.

Un’organizzazione che agisce a sostegno dell’impegno nel lavoro è un’organizzazione forte.

L’aiuto maggiormente efficace per la singola persona è sicuramente un intervento da parte di un professionista competente in materia che possa fornire strumenti cognitivi, favorire una maggiore comprensione/consapevolezza del problema, aiutare a comprendere le relazioni esistenti tra il comportamento personale, il proprio vissuto ed il contesto di vita e lavorativo, modificare il proprio comportamento e i propri atteggiamenti in coerenza con quanto acquisito.

Ma tali interventi sul singolo non sono semplici: il singolo può avere difficoltà a rivolgersi ad uno psicologo per farsi aiutare, ciò a causa sia di pregiudizi verso la categoria di professionisti che si occupa di tali problematiche, sia perché spesso non è in grado di chiedere aiuto e/o si imbatte in altre categorie di professionisti non competenti in tali materie. Purtroppo ancor oggi molti preferiscono pensare di avere un problema organico invece di accettare l’idea di poter avere un problema psicologico anche se causato da fattori esterni.

Interventi per fermare/ affrontare/superare/prevenire il burnout

In letteratura ci sono molte strategie per la prevenzione del burnout. Anche la Maslach indica la necessità di focalizzarsi sia sull’individuo sia sul luogo di lavoro.

Oggi il burnout rappresenta un rischio troppo elevato per ogni contesto organizzativo: i costi economici, la produttività ridotta, i problemi di salute e il generale declino della qualità della vita personale o lavorativa (tutte possibili conseguenze di questa sindrome) sono un prezzo troppo alto da pagare.

E’ dunque consigliabile l’adozione di un approccio preventivo per affrontare il problema burnout.

Il modo migliore per prevenire il burnout è sicuramente puntare sulla promozione dell’impegno nel lavoro. Ciò non consiste semplicemente nel ridurre gli aspetti negativi presenti sul posto di lavoro, ma anche nel tentare di aumentare quelli positivi. Le strategie per aumentare l’impegno sono quelle che accrescono l’energia, il coinvolgimento e l’efficacia, sostenendo i lavoratori, permettendo loro di affermarsi tra i loro colleghi, lasciando loro dell’autonomia nelle decisioni da prendere ed offrendo loro un’organizzazione del lavoro chiara e coerente, ecc.

Esempi di azioni :

Azioni possibili a livello individuale:

  • porsi degli obiettivi realistici
  • variare la routine
  • fare delle pause
  • prevenire il coinvolgimento eccessivo nei problemi della vittima
  • favorire il benessere psicologico e bilanciare frustrazione e gratificazione
  • applicare tecniche di rilassamento fisico e mentale
  • separare lavoro e vita privata, per evitare la propagazione del malessere nella vita familiare

Azioni possibili a livello sociale:

  • rafforzamento della relazione con amici e familiari allo scopo di compensare i sentimenti di fallimento e frustrazione legati alla vita lavorativa,volontariato,ecc.
  • rafforzamento delle relazioni positive con altri soccorritori da cui possono derivare riscontri positivi,sostegno,utili confronti.

Azioni possibili a livello istituzionale:

  • incontri con il personale dei diversi livelli per fluidificare i rapporti e risolvere le conflittualità
  • riorganizzazione del lavoro per renderlo più vario ed interessante
  • promuovere il confronto tra le aspettative delle vittime e gli obiettivi del servizio, per evitare equivoci.

Altri esempi … (.. dimensioni su cui influire per prevenire lo stress..)

  • Caratteristiche dell’ambiente nel quale il lavoro si svolge
  • Chiarezza degli obiettivi organizzativi e coerenza tra enunciati e pratiche organizzative
  • Riconoscimento e valorizzazione delle competenze
  • Comunicazione intraorganizzativa circolare
  • Circolazione delle informazioni
  • Prevenzione degli infortuni e dei rischi professionali
  • Clima relazionale franco e collaborativo
  • Scorrevolezza operativa e supporto verso gli obiettivi
  • Giustizia organizzativa
  • Apertura all’innovazione
  • Stress e conflittualità.

A livello organizzativo sono necessarie strategie volte a promuovere l’impegno professionale e l’armonia tra operatore e posto di lavoro, di seguito alcuni esempi:

  • condividere la gestione del carico di lavoro con il gruppo
  • creare e alimentare il senso di squadra
  • partecipare attivamente al processo decisionale: personalizzazione dello stile, adattamento degli orari
  • comunicare: chiarezza dei messaggi; obiettivi realistici e credibili
  • riconoscere una ricchezza nelle diversità: cogliere le potenzialità positive nell’incontro con alunni, operatori e colleghi
  • crescere professionalmente: formazione e cultura dell’approfondimento

Dr. Andrea Castello – Dr.ssa Irene Borgia

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Clima Aziendale


ANALISI DEL CLIMA AZIENDALE

Premessa

La grande sfida della psicologia del lavoro consiste nel valorizzare il rapporto tra organizzazione e persone, evidenziando come organizzare un lavoro non voglia dire solamente renderlo più produttivo, ma anche più gradevole, è puntando anche sugli aspetti impliciti, informali, simbolici, latenti nelle organizzazioni che si può valorizzare e rendere più dignitoso il lavoro stesso come fonte di soddisfazione e benessere e come uno dei mezzi atti a migliorare la qualità  della vita.

1. CHE COSA È IL “CLIMA ORGANIZZATIVO”

 Il “clima organizzativo”, chiamato anche “clima interno” o “clima aziendale” è un tema che è stato oggetto di molti libri e studi di teoria organizzativa, a partire dalla metà degli anni ’60.

Già Kurt Lewin circa un secolo fa notava che: “un divieto o un obiettivo da raggiungere possono avere un ruolo essenziale nello stato psicologico dell’individuo, senza tuttavia essere chiaramente presenti nella coscienza”.

I vari orientamenti teorici hanno elaborato numerose definizioni di tale concetto, diversi a seconda che prediligano maggiormente gli aspetti psicologici o gli aspetti organizzativi.

Indipendentemente dalle varie scuole di pensiero, il clima identifica una caratteristica non strutturale o “soft” delle organizzazioni, contrapposta a quelle strutturali o “hard”.

Il clima può essere considerato come un insieme di percezioni condivise e correlate tra loro relative alla realtà lavorativa/organizzativa, cioè il modo in cui i soggetti percepiscono e interpretano l’azienda e le sue caratteristiche. È la sintesi di vari fattori quali per esempio le rappresentazioni soggettive, le mappe cognitive di ogni persona coinvolta, le percezioni individuali, le interazioni tra i soggetti, il contesto organizzativo e la cultura ivi presente.

2. GLI APPROCCI TEORICI

 La definizione del concetto di clima organizzativo risale alla metà degli anni ’60 e nel tempo si sono avvicendati periodi di interesse ad altri di sfiducia e abbandono (costrutto considerato da molti ambiguo e confuso).

Gli approcci teorici relativi allo studio del clima sono numerosi e i principali sono:

    • l’approccio strutturale, che considera il clima come una manifestazione oggettiva della struttura organizzativa che gli individui incontrano ed recepiscono;
    • l’approccio percettivo, che definisce il clima come il risultato di elaborazioni percettivo cognitive delle persone, i quali reagiscono ed interpretano le variabili organizzative sulla base degli aspetti psicologicamente, per loro, più significativi;
    • l’approccio interattivo, che illustra il clima come un effetto creato dall’interazione tra i membri di un gruppo;
    • l’approccio culturale, il quale prende in considerazione il concetto di cultura organizzativa che influenza, assieme al clima, le relazioni tra imembri della organizzazione.

Mentre i primi tre approcci sono ciascuno l’estensione concettuale del precedente, l’ultimo si distingue per il fatto di tenere conto di un altro concetto, quello della cultura organizzativa.

Possiamo quindi affermare che la rilevazione del clima organizzativo è paragonabile a un check-up diagnostico: si rilevano e misurano diversi indicatori allo scopo di ottenere un quadro della situazione. La definizione operativa del clima può essere diversa a seconda del modello teorico adottato.

Oggi si distingue fra clima psicologico, ossia individuale, e clima organizzativo vero e proprio. Quest’ultimo si riferisce alla dimensione condivisa della percezione e ai fattori comuni che la rappresentano.

Alcune delle variabili più usate sono:

–    qualità dei rapporti con i colleghi

–    qualità dei rapporti con i superiori

–    qualità del rapporto con tutta l’azienda

–    senso di appartenenza

–    coesione del gruppo di lavoro

–    collaborazione

–    dinamiche di comunicazione

–    stili di leadership

–    sistema di riconoscimenti e incentivi

–    ambiente fisico, comfort (ergonomia)

–    sicurezza (Dlgs 81/2008)

–    disponibilità fluidità delle informazioni

–    chiarezza della propria funzione

–    soddisfazione relativa alla funzione

–    soddisfazione relazionale

–    soddisfazione materiale

–    motivazione

–    responsabilità e autonomia

–    libertà  di espressione

Siccome il clima è un fenomeno percettivo, dovranno essere assenti dalla misurazione le seguenti variabili oggettive:

–    assenteismo

–    ritardi

–    incidenti sul lavoro

–    produttività

Queste variabili non entreranno a far parte della definizione di clima ma serviranno da confronto per valutare l’efficienza e l’efficacia delle azioni prese nelle fasi successive alla rilevazione.

La rilevazione viene condotta facendo uso di questionari standard oppure espressamente costruiti, a seconda degli obiettivi desiderati e della dimensione dell’organizzazione.

La dimensione e la composizione del campione potrà variare, ma dovrà in ogni caso trattarsi di un campione rappresentativo, ovvero contenere distribuzioni percentuali dei soggetti il più possibile uguali a quelle reali.

In ultima analisi, per essere veramente efficace una rilevazione del clima dovrebbe includere tutti i dipendenti senza distinzioni, poichè ciò consente di far sentire tutti partecipi e ugualmente importanti.

3. GLI OBIETTIVI DI UN’ANALISI DEL CLIMA ORGANIZZATIVO

 L’analisi del clima permette di rilevare come l’organizzazione e, in particolare, alcune sue caratteristiche sono percepite dai suoi membri e, quindi, permette di:

–    rilevare ed evidenziare gli eventuali punti critici presenti in un’organizzazione;

–    progettare, pianificare ed eseguire opportuni interventi migliorativi;

–    valutare e monitorare i risultati ottenuti, procedendo ad una nuova analisi del clima.

La diagnosi che ne consegue, rappresenta il punto di partenza per avviare un processo di cambiamento organizzativo che può riguardare atteggiamenti, modalità di lavoro interno, tipo di relazioni esistenti, ecc, pertanto può costituire, da un lato, uno spunto di riflessione da parte del management, dall’altro, può rappresentare uno strumento di coinvolgimento del personale, in quanto è un segnale d’ascolto da parte dei vertici aziendali, che dimostrano di essere interessati a conoscere l’opinione dei propri collaboratori sui temi oggetto della rilevazione.

4. IL MODELLO D’INDAGINE: METODOLOGIA PER LA SUA COSTRUZIONE

 La premessa per costruire un modello di analisi di clima è la definizione del concetto di clima organizzativo stesso, al fine di individuare le variabili che saranno oggetto della rilevazione.

Un’altra decisione importante nell’elaborazione di un modello d’indagine del clima interno

riguarda lo strumento diagnostico, che, tipicamente, può essere:

–    un questionario o

–    un’intervista in profondità.

Abitualmente viene utilizzato il questionario in quanto risulta essere più funzionale all’indagine del clima ed alla sua ripetizione nel tempo e garantisce maggiormente l’anonimato di coloro che lo compilano.

La principale differenza tra i due strumenti diagnostici riguarda il tipo di dati ottenibili: di natura quantitativa con il questionario e quella qualitativa con l’intervista in profondità.

Questionario

La preparazione di un questionario, indirizzato a rilevare il clima interno, richiede un lavoro metodologicamente rigoroso e complesso da parte di persone competenti. I questionari relativi a tale tema sono numerosi, le differenze riguardano non solo la struttura dei questionari (ad es. il numero di items, l’inserimento o meno di domande aperte o chiuse, l’utilizzo o meno del “tu”, ecc..), ma anche il tipo di scale di valutazione adottate, il loro grado di attendibilità, di coerenza e di stabilità interna.

Intervista in profondità

L’ “intervista in profondità” è classificata come un’intervista di tipo destrutturato, in quanto non segue uno schema fisso “domanda – risposta”, ma l’ntervistatore, sulla base di una griglia di riferimento definita in precedenza, guida l’intervistato a parlare di determinati temi, oggetto della rilevazione. Ha una durata di circa un’ora, durante la quale è lasciata all’intervistatore ampia discrezionalità, quindi può decidere quali argomenti approfondire. Come è immaginabile, queste interviste possono essere condotte solo da esperti (…psicologi…), in grado di gestire le dinamiche psicologiche, tipiche di tali situazioni, ed evitare gli errori che potrebbero inficiare la qualità dei dati.

5. IL PROCESSO DI DIAGNOSI DEL CLIMA: LE FASI

 Il processo di diagnosi del clima interno può essere scomposto nelle seguenti principali fasi:

1.    Informativa

2.    Raccolta dei dati

3.    Elaborazione ed interpretazione dei dati raccolti

4.    Presentazione dei risultati

5.    Azioni di miglioramento

6.    Nuove somministrazione

5.1 INFORMAZIONE INTERNA

 Questa fase ha lo scopo di informare dell’iniziativa tutti i collaboratori e il personale della struttura oggetto dell’analisi del clima e, più precisamente, occorre spiegare:

    • che cosa è una diagnosi del clima organizzativo,
    • gli obiettivi che si intendono raggiungere con la rilevazione,
    • le persone coinvolte, che possono essere tutti i dipendenti, compresi i dirigenti, o un campione rappresentativo (questa ultima soluzione

appare obbligata, se lo strumento diagnostico prescelto è l’intervista in profondità, facoltativa, se si utilizza il questionario);

–    chi svolge l’indagine;

–    quali sono le modalità operative con cui si procede alla realizzazione.

5.2 RACCOLTA DEI DATI

 La raccolta dei dati può essere eseguita in vari e diversi modi a seconda dello strumento diagnostico utilizzato, infatti se si utilizzano interviste in profondità, occorre preparare un calendario delle stesse, se invece si utilizza un questionario, le relative modalità di somministrazione solitamente sono:

–    collettive o

–    in piccoli gruppi.

La somministrazione collettiva del questionario consiste nella sua distribuzione, accompagnata da una breve spiegazione, a tutte le persone che compongono il campione definito in precedenza, le quali hanno a disposizione un lasso di tempo predefinito per compilarlo. deve essere garantito l’anonimato di tutti i partecipanti. Di solito la somministrazione collettiva dei questionari non assicura degli alti ritorni. La somministrazione in piccoli gruppi implica l’organizzazione di incontri di durata predefinita, durante i quali i partecipanti compilano i questionari, tale setting stimola una discussione di gruppo, che, per evitare che le persone siano influenzate dall’opinione degli altri, è importante che si svolga al termine della compilazione. Questa procedura permette di ottenere un’alta percentuale di questionari compilati e di raccogliere informazioni di carattere qualitativo. La conduzione di questi incontri deve essere svolta da psicologi esperti, capaci di gestire e di facilitare l’interpretazione delle tensioni che progetti del genere producono, perché coinvolgono tutto il personale e incidono sulle modalità di lavoro e su prassi consolidate.

Ultima scelta ma non meno importante, anche se ritenuta apparentemente banale:

    • e le interviste in profondità o la compilazione dei questionari sono svolte durante l’orario di lavoro; in tal caso, è di estrema importanza la condivisione sulle finalità dell’indagine da parte di tutto il personale dirigente o, di almeno, la maggioranza;
    • il locale messo a disposizione per la rilevazione.

5.3 INTERPRETAZIONE DEI DATI RACCOLTI

 Ovviamente l’elaborazione e l’interpretazione dei dati varia a secondadel tipo di metodologia diagnostica utilizzata.

I dati qualitativi, raccolti con le interviste in profondità, richiedono un’interpretazione e una sintesi, mentre i dati quantitativi ottenuti dai questionari sono elaborati statisticamente (solitamente vengono condotte analisi fattoriali) e, sulla base dei risultati, è possibile procedere ad una diagnosi del clima organizzativo.

5.4 PRESENTAZIONE DEI RISULTATI

 E’ buona prassi che i risultati dell’analisi del clima siano comunicati a tutti i collaboratori, con le modalità, ritenute più opportune dai vertici, ad esempio: distribuzione di un fascicolo illustrativo; organizzazione di riunioni di presentazione dei risultati e di discussione degli stessi, condotte da coloro che hanno svolto l’analisi o dai dirigenti, ecc.

5.5 AZIONI DI MIGLIORAMENTO

 Sulla base dei risultati dell’analisi di clima è possibile organizzare e pianificare azioni di miglioramento che possono essere: corsi di formazione, processi di ridefinizione organizzativa, analisi di processi, revisione dei canali di comunicazione interna, interventi di miglioramento logistico, coaching, ecc…

5.6 MONITORAGGIO DELLE AZIONI DI MIGLIORAMENTO

 A conclusione delle azioni di miglioramento attivate si procede ad una nuova analisi del clima per monitorare/valutare l’efficacia degli interventi attuati e i potenziali cambiamenti avvenuti nel frattempo.

 

 

 

© Clima Aziendale – Andrea Castello – Irene Borgia

Assessment

 

Assessment

Per assessment si intende la valutazione globale della persona (paziente, candidato o dipendente), considerando anche le sue risorse e i suoi limiti.

La parola assessment deriva dal latino assidere, “sedere come giudice” e anche da assise, “sessione di giudici nei municipi”, tradotta dall’inglese significa appunto “valutare, stimare, giudicare”; si può anche tradurre come: “accertare il valore (di qualcosa), fare il bilancio (di qualcosa)” per enfatizzare l’aspetto processuale (in termini psicologici) e non immediato della valutazione.

Obiettivi di un assessment possono essere di valutare il potenziale, le attitudini, le competenze, la coerenza e adeguatezza ad un profilo lavorativo.

Tipologie di assessment

In psicologia esistono diversi campi applicativi dove il termine assessment assume connotazioni che spaziano dal rapporto individuale (aspetti clinici, patologie) al sociale (aspetti occupazionali, selezione del personale).

Assessment in psicologia clinica

In psicologia clinica l’accento dato all’assessmet è più spostato sul rapporto individuale clinico-paziente, indicando principalmente un «percorso informale di acquisizione di informazioni, conoscenza, comprensione e descrizione delle persone» ma anche «un tipo particolare di attività scientifica e professionale, caratterizzata dall’utilizzo di metodi di analisi e misurazione della personalità». In altre parole, nella valutazione individuale, l’assessment costituisce un processo di valutazione, documentazione delle competenze e del potenziale, retto dalle particolari capacità dello psicologo di comprendere lo stato emotivo, il vissuto interiore della persona e di delineare così un profilo che comprenda aspetti profondi, caratteriali (di personalità), relazionali e sociali.

La prassi dell’assessment in psicologia clinica comporta due fasi:

    1. Misurazione: si effettuano una serie di test psicodiagnostici standardizzati per raccogliere informazioni necessarie alla seconda fase e per avere un riferimento di partenza con cui confrontare i dati successivamente ottenuti somministrando gli stessi test durante ed alla fine del percorso di cura (studi longitudinali).
    2. Ipotesi: i dati raccolti nella prima fase, assieme ad una impressione globale che lo psicoterapeuta si fa del paziente, consentono di formulare ipotesi riguardo:

 

    • la presenza di evidenti relazioni tra i disturbi;
    • le situazioni nelle quali cresce la probabilità che il disturbo si manifesti;
    • l’origine del disturbo, i processi implicati e i meccanismi che lo governano, tecnicamente: l’eziopatogenesi;
    • le probabilità di successo delle diverse strategie terapeutiche che si hanno a disposizione;
    • le tecniche e gli strumenti più adeguati a sostenere il trattamento.

Risultano molto utili i test situazionali o di role-playing, che simulano una situazione (direttamente o indirettamente collegata all’ipotesi circa l’eziopatogenesi del disturbo) nella quale viene richiesto al cliente di elaborare una strategia, trovare una soluzione, oppure si misura la sua risposta emotiva per capire meglio il suo vissuto interiore, esistenziale, se sussiste un rapporto a livello profondo con il problema e il suo grado di fissazione.

 

Assessment in psicologia del lavoro

L’assessment in campo sociale e delle risorse umane è a tutt’oggi molto utilizzato da reclutatori e selezionatori del personale per valutare candidati e all’interno di un’azienda per valutare i dipendenti e creare piani di sviluppo e formazione o selezionare personale ricollocabile.

In psicologia del lavoro spesso si utilizza la denominazione di assessment center (termine venne utilizzato per la selezione degli agenti segreti, nella Seconda Guerra Mondiale) per identificare una metodologia di valutazione del potenziale, all’interno di una prospettiva volta al reclutamento, all’orientamento e alla valutazione delle competenze.

In Psicologia del lavoro l’assessement può essere utilizzato come:

    1. verifica del grado di adeguatezza del ruolo nell’organigramma aziendale
    2. rilevazione e valutazione delle attitudini
    3. valutazione del potenziale
    4. analisi delle risorse disponibili per la verifica del possesso di determinate capacità
    5. individuazione dei bisogni formativi in modo mirato
    6. verifica del possesso delle capacità necessarie per ricoprire posizioni diverse (orientamento,sviluppo, piani di carriera, rotazioni)
    7. processi di selezione interni/esterni
    8. processo di verifica dell’architettura organizzativa dell’impresa
    9. audit a seguito d’esigenze derivanti da ristrutturazioni, fusioni, acquisizioni, collocazione di personale ed esuberi

 

 

 

 

© Andrea Castello – Irene Borgia

 

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