La sindrome di Burnout: teorie

La sindrome di Burnout

“Il burnout è una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e di ridotta realizzazione personale.” (Maslach et Jackson, 1986)

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Teorie sul Burnout 

Una o più condizioni stressogene protratte nel tempo o particolarmente intense, possono indurre alla sindrome nata nel precedente secolo, ossia la sindrome del burnout

(Maslach et Jackson, 1986), un’espressione metaforica (approssimativamente in Italiano, “bruciato”) per indicare un set di atteggiamenti, emozioni e comportamenti negativi derivanti da una cronica difficoltà nel controllare lo stress tipico (Cherniss,1980; Maslach et al., 1996). Proprio per questo il burnout si differenzia dallo stress: in primo luogo non presenta un quadro psico-fisico, ma dimensioni psicologiche ed emotive; in secondo luogo, non si manifesta in una reazione momentanea, ma in un processo a lungo termine (Borgogni e Consiglio, 2005). Il termine nella sua accezione attuale, fu introdotto dallo psichiatra Herbert Freudenberg nel 1974 per descrivere una particolare sindrome che caratterizzava i membri di uno staff che lavoravano in istituzioni sociosanitarie (helping professions). Seguendo la tradizione medica, con il termine sindrome si intende un insieme definito di sintomi caratterizzante la patologia presa in considerazione. Freudenberg (1974), per esempio, nel suo lavoro si soffermò sulla descrizione della sintomatologia fisica (un esempio sono le emicranie), su quella comportamentale (come ad esempio il consumo di droghe), ancora su quella emotiva (come ad esempio l’umore depresso), cognitiva (ad esempio il cinismo) ed infine motivazionale. In rassegna, l’approccio clinico enfatizza l’importanza dei fattori individuali sottostanti alla sindrome del burnout.

Contrariamente all’approccio clinico, la ricerca psicosociale focalizzava la propria attenzione sulla natura interpersonale del burnout. Maslach (1982) scrisse infatti che “rispetto agli effetti nocivi di altre reazioni allo stress, la caratteristica principale del burnout è il fatto che questi è il prodotto finale di un’interazione sociale prolungata tra il professionista (helper) e l’utente (client).” Contemporaneamente altri ricercatori (Golembiewski et al.,1986) sottolinearono l’importanza dell’ambiente organizzativo nello sviluppo della sindrome del burnout, suscitando l’interesse dei manager, dei policy makers, e dei consulenti d’azienda.

Nella maggior parte degli studi il Burnout viene definito come un elenco di sintomi tendono ad ignorare l’aspetto dinamico della sindrome, per questo motivo è importante incentrare la propria attenzione anche sulle principali definizioni di processo. Entrambe le definizioni sono complementari, ma nello specifico, la definizione del burnout come stato è propria dello stadio finale del processo.

La sindrome del burnout è solitamente caratterizzata da particolari stati d’animo (quali ansia, irritabilità, esaurimento fisico, panico, agitazione, senso di colpa, negativismo, ridotta autostima, empatia e capacità d’ascolto etc.), somatizzazioni (quali emicrania, sudorazioni, insonnia, disturbi gastrointestinali, parestesie etc.), reazioni comportamentali (assenze o ritardi frequenti sul posto di lavoro, chiusura difensiva al dialogo, distacco emotivo dall’interlocutore, etc.) (Fontana eal, 1993). Maslach e Jackson (1982), in relazione al burnout, ne evidenziarono tre componenti:

l’esaurimento emotivo, ossia la percezione di “prosciugamento” delle risorse emotive personali e la sensazione che non si abbia più niente da offrire a livello psicologico (esempio: mi sento emotivamente distrutto dal mio lavoro);

la depersonalizzazione, che si riferisce allo sviluppo di atteggiamenti di distacco, atteggiamenti negativi, a volte di cinismo verso l’utenza (“non mi importa nulla di ciò che succede agli utenti ”;

la ridotta realizzazione riguarda invece la percezione della propria inadeguatezza sul posto di lavoro, con l’attenuazione del desiderio di successo ed una caduta della stima.

Sebbene le tre componenti sembrino essere interrelate, esse sono concettualmente diverse e correlate distintamente ad altre variabili come la soddisfazione lavorativa, gli stressor lavorativi, il desiderio di cambiare lavoro e la percezione di sintomi psicosomatici (Cordes e Dougherty, 1993).

Maslach (1997) insieme ai suoi colleghi catalogarono le cause oggettive del burnout in sei classi relative a: autonomia decisionale, carico di lavoro, equità, valori, gratificazioni, senso di appartenenza. Nel medesimo lavoro l’autrice perviene alla conclusione che il burnout è dovuto principalmente ai fattori oggettivi dello stress professionale, ponendo così in secondo piano le cause soggettive.

Edelwich e Brodsky (1980) hanno identificato quattro stadi progressivi che caratterizzano l’evoluzione del burnout:

Stadio dell’entusiasmo: gli operatori sono motivati all’esercizio della propria professione, scelta per ragioni differenti. I soggetti percepiscono ed esaltano esclusivamente i lati positivi della professione, diventando totalmente dipendenti dal lavoro e ignari delle difficoltà.

Stadio della stagnazione: in questo stadio si approda alla scoperta per la quale i risultati del proprio impegno lavorativo sono incerti, aleatori e difficili da cogliere, porta a uno smorzamento dell’entusiasmo e a sentimenti di stallo e di noia, oltre che a preoccupazioni per la propria carriera.

Stadio della frustrazione: emergono rabbia e delusione per l’eccessivo scarto tra le aspettative e la realtà, insieme alla triste consapevolezza che i propri ideali poco hanno a che vedere con i reali bisogni di coloro a cui è rivolto il servizio. Ne consegue un senso di inutilità e di vuoto, insieme a una percezione crescente di impotenza.

Stadio dell’apatia: si sviluppa disimpegno emotivo-affettivo nei confronti della propria condizione professionale frustrante. È questo lo stadio del burnout vero e proprio.

L’atteggiamento di fondo è rassegnato e infelice, le aspettative si abbassano ulteriormente.

Si giunge all’apatia con generalizzazione anche alla sfera privata.

Oltre alla teorizzazione di Maslach, in letteratura si rintracciano altri modelli relativi al burnout, tra cui il modello proposto da Pines e Aronson (1988) ed il modello di Cherniss (1986). Pines e Aronson (1988) spiegarono la sindrome del burnout come uno stato di esaurimento emozionale, che fa seguito a un processo graduale di disillusione, la cui causa dovrebbe essere ricercata in un coinvolgimento personale profondo da parte dei professionisti, identificandosi con il proprio lavoro in maniera eccessiva. Gli autori asserirono che gli individui fortemente motivati intraprendessero carriere volte al raggiungimento di obiettivi specifici, il cui insuccesso genererebbe la sindrome. Nello specifico è rilevante la percezione di inadeguatezza e di inutilità che lo accompagna, portando a una condizione considerata ma comunque modificabile (Pines e Aronson,1988).

Nella teorizzazione di Cherniss (1986), il burnout è un “processo transazionale” tra abilità generali e cause organizzative, in cui la motivazione ricopre un ruolo importante.

Riprendendo la teoria della “Sindrome generale di adattamento” proposta da Seyle (1956), Cherniss (1983) individuò tre fasi:

  1. Fase dello stress, caratterizzato da un disequilibrio (in eccesso o in difetto) delle risorse disponibili e le richieste provenienti dall’esterno oppure dall’interno, come i propri bisogni, valori, obiettivi; in questa fase il soggetto tenta di adattarsi alla situazione attraverso un uso molto intenso delle sue risorse psicofisiche, provocando un progressivo esaurimento emotivo e, di conseguenza, anche una demotivazione rispetto al proprio ruolo professionale;
  2. Fase della crisi interiore o tensione emotiva (strain), come reazione a questo squilibrio, caratterizzata da ansia, nervosismo, affaticamento ed esaurimento;queste sensazioni si manifestano nel tentativo, da parte dell’operatore, di difendersi dalla situazione negativa creatasi;
  3. Fase della difesa, che consiste nella conseguente modificazione del comportamento e degli atteggiamenti, come la tendenza a trattare gli altri in modo meccanico e distaccato o con una preoccupazione cinica circa la gratificazione dei propri bisogni; tali cambiamenti nell’atteggiamento e nel comportamento generano, infatti, una fuga psicologica del soggetto coinvolto, come tentativo di limitare il livello di stress generatore del fenomeno.

Questo meccanismo può innescare una demotivazione che si autoalimenta mediante un circolo vizioso: all’atteggiamento di evitamento dell’ambiente stressante, si associa una diminuita efficacia prestazionale, perché l’ottimismo, l’entusiasmo ed il coinvolgimento personale sono spesso necessari al successo; il fallimento, a sua volta, ha come conseguenza un incremento della frustrazione che, ciclicamente, comporta un ulteriore insuccesso. Il burnout secondo l’Autore (Cherniss,1983) può manifestarsi in vari modi: sintomi fisici, (come disturbi gastrointestinali, alterazioni del sonno), sintomi psicologici (come pessimismo, demoralizzazione, etc.), reazioni comportamentali sul lavoro (come ritardi frequenti, cinismo, assenteismo, cambiamenti dell’atteggiamento nei confronti degli utenti quali freddezza, distacco). Pertanto, il suddetto fenomeno va ad urtare anche la qualità della vita del soggetto ed il suo benessere fisico, non solo psichico (Shirom, 2005).

Secondo alcuni autorisono più esposte al burnout le persone che possiedono una ridottaresistenza individuale agli stimoli.Mentre la personalità hardy possiede tre caratteristiche: è consapevole del proprio ruolo nella società e del significato (senso) attribuito alla propria esistenza; percepisce le novità come stimolo anziché come insidia sente di poter controllare gli eventi senza esserne sopraffatto (Mark et al, 1990).Inoltre si definiscono negative le reazioni di adattamento come assumere psicofarmaci, fumare, bere, atti a negare, minimizzare, nascondere o evitare gli eventi stressogeni.In virtù di quanto riportato precedentemente, il burnout può essere definito come un fenomeno psicosociale più complesso dello stress, nel quale interagiscono sia fattori socio-ambientali e lavorativi sia caratteristiche individuali e personologiche (Murdaca et al, 2014). Nonostante la sua struttura multi-componenziale,le ricerche condotte sul burnout hanno riguardato inizialmente il solo ruolo svolto dai fattori ambientali.

Prendendo in esame una recente rassegna di Converso e colleghi (2009) lo studio della sindrome del burnout ha seguito diversi percorsi, che dagli anni ’70 in poi hanno di volta in volta privilegiato ed evidenziato antecedenti di diversa origine:

Individuale: relativa alle caratteristiche socio-demografiche, al sistema della personalità e/o alle motivazioni dei soggetti colpiti dalla sindrome.

Interpersonale: riguarda in primis il rapporto con l’utenza, aspetto che costituisce la peculiarità del burnout (Mancini & Magnani, 2008). La dimensione interpersonale include però anche il clima relazionale con i colleghi e il gruppo di lavoro: si tratta di un livello interpretativo intermedio, che può essere ricondotto in parte alle origini interpersonali della sindrome, in parte a quelle organizzative (Demerouti et al,2001; Maslach & Leiter, 1997/2000).

Organizzativa: questa dimensione ha assunto un progressivo rilievo tanto da portare ad affermare che, contrariamente ai fattori personali e alle caratteristiche dell’utenza, i fattori organizzativi siano predittivi del burnout (Schaufeli & Enzmann, 1998). Per Maslach e Leiter (1997; 2000) il disadattamento tra la persona e il lavoro che genera job burnout si produce nel disequilibrio relativo a sei aree della vita lavorativa: sovraccarico di lavoro, mancanza di controllo, gratificazione insufficiente, crollo del senso d’appartenenza comunitaria, assenza di equità e contrasto di valori.

Attualmente è condivisa una concezione multidimensionale: l’eziopatogenesi del burnout sembrerebbe da attribuire all’articolazione di fattori individuali, relazionali, lavorativi, organizzativi e persino storico-culturali. Nessuno di essi isolatamente può condurre al burnout, ma la loro contemporanea presenza sembra  determinarlo.(Schaufeli&Enzmann,1998).


© Il Burnout negli insegnanti – Federica Sapienza