Il Mobbing – Il problema della misura

ARTICOLO 7 – IL PROBLEMA DELLA MISURA

Il mobbing ci mette di fronte alla complessità del lavoro, e soprattutto alle molteplici sfaccettature del luogo di lavoro che si manifesta non come un semplice “luogo fisico”, ma come un complesso “sistema emotivo” all’interno del quale si concentrano umori, sensibilità e culture differenti.

 

Nonostante si conoscano i danni derivanti da questo fenomeno, non è semplice fornire cifre affidabili riguardanti la distribuzione di mobbing. Identificare la sua incidenza ha abbastanza problemi metodologici che iniziano con la definizione (Rayner, 1997). Infatti, anche se si possono individuare caratteristiche comuni nella definizione del processo mobbing, rimane il fatto che la letteratura offre differenti spiegazioni di esso portando ad una differenza nella prevalenza di soggetti vittime che varia notevolmente tra i diversi studi effettuati e tra i diversi paesi.

La stima della sua frequenza, appunto, dipende moltissimo da come viene misurata e la misura è influenzata a sua volta da come il mobbing viene definito (Zapf, Einarsen, Hoel e Vartia, 2003). Di conseguenza, diviene più difficile anche il confronto tra i diversi studi sul mobbing. Inoltre, Cowie, Naylor, Rivers, Smith e Pereira (2002) evidenziano come esistano molti aspetti nel problema mobbing non facilmente evidenziabili coi questionari, ritenendo essenziale un’analisi più ampia che abbracci anche il livello organizzativo per avere un’immagine più completa del fenomeno; ma rimane difficile ottenere accesso nelle aziende per effettuare studi di questo genere.

Seguendo la letteratura, la prevalenza del mobbing vede cifre che vanno da un minimo dell’1% ad un massimo del 50%, dipendenti dalle strategie di misurazione, occupazione o settore e dal Paese (Di Martino et al., 2003 in Matthiesen, 2005). Comunque, le ricerche sono giunte alla conclusione che esso è un problema diffuso in molte organizzazioni con una prevalenza che va dall’1% al 4% (Zapf e Gross, 2001), sebbene da un sondaggio svolto dalla Fondazione Dublino emerge come l’8% dei lavoratori dell’Unione Europea […] è stato vittima di mobbing, con serie conseguenze sulla salute psicofisica (Anderson, 2001 in Maier, 2003).

Come viene misurato

Nell’ambito della misura del fenomeno, si possono delineare due linee di ricerca principali etichettate come soggettiva e come operazionale.

  1. La prima segue l’approccio proposto da Einarsen e colleghi in Norvegia. Esso è basato sull’uso di una misura globale del mobbing, che consiste nel fornire al soggetto una breve definizione del fenomeno per poi chiedergli di indicare se ritiene o meno di essere vittima di questa forma di vessazione psicologica, o se ha visto colleghi subirla (Maier, 2003).
  2. La seconda, invece, si rifà agli studi di Leymann (1992 in Hoel, Cooper e Faragher, 2001), dove ai soggetti viene somministrato un questionario di comportamenti negativi identificati nel mobbing. Esso viene perciò operazionalizzato definendo i criteri per i quali una persona può essere considerata mobbizzata. Nello studio di Leymann in Svezia, il mobbing venne definito come un’esposizione settimanale o più ad almeno un comportamento o un’azione negativa per un periodo di almeno sei mesi.

Mentre l’approccio soggettivo accetta per sua natura più flessibilità nell’applicazione dei criteri (Hoel, Cooper e Faragher, 2001), i punti di forza dell’approccio oggettivo risiedono nell’affidabilità, poiché i rispondenti non necessitano di giudicare se sono o non sono stati soggetti a mobbing (Salin, 2001), e nella possibilità di fare confronti (Hoel, Cooper e Faragher, 2001). Dall’altra parte, però, esso non riesce a differenziare quelle situazioni che i rispondenti possono tollerare e quelle che non possono (Salin, 2001). Inoltre, non è presa in considerazione la possibilità di difesa da parte dei soggetti stessi (Einarsen, 1996, in Salin 2001) e non tutte le possibili tecniche mobbizzanti sono necessariamente incluse nella lista (Neuberger, 1999 in Salin, 2001), portando la determinazione delle vittime ad essere una funzione degli atti negativi scelti nella costruzione del questionario (Notelaers, Einarsen, De Witte e Vermunt, 2006).

 

Negli ultimi anni sta comparendo in letteratura un metodo alternativo di classificazione operazionale per la determinazione delle vittime di mobbing. Esso utilizza un’analisi statistica mai utilizzata nell’approccio del fenomeno (e, a commento degli autori (Notelaers et al., 2006), neanche nella ricerca in psicologia delle organizzazioni, del lavoro e del personale): la latent class cluster analysis (LC). L’assunto di base è la considerazione dell’esistenza di un solo gruppo, nel quale vengono trovate tante classi fino a quando il modello non ha statisticamente un fit coi dati. Nel mobbing, la LC è basata sulle risposte date ad una lista di comportamenti negativi di un questionario/ inventario preposto alla rilevazione del fenomeno e distingue differenti gruppi di soggetti secondo al livello e alla natura della loro esposizione al fenomeno (ibidem).

Le ricerche che si propongono di valutare in maniera standardizzata ed oggettiva la presenza del mobbing nei contesti lavorativi non hanno a tutt’oggi sviluppato metodologie di valutazione pienamente condivise e accettate (Argentero, Zanaletti e Bonfiglio, 2004).

 

I principali questionari d’indagine utilizzati per individuare le azioni esercitate nel corso del mobbing sono:

  • ­Leymann Inventory of Psychological Terrorism (LIPT).

Considerato il precursore di tutti i questionari di mobbing, il LIPT fu sviluppato da Leymann, che lo utilizzò non solo per stabilire la frequenza con cui il mobbing si verifica, ma anche per discriminare tra impiegati mobbizzati e non mobbizzati. Esso consiste di 45 azioni mobbizzanti suddivise in cinque categorie:

  1. attacchi alla personalità;
  2. 2) attacchi alle relazioni sociali;
  3. 3) attacchi all’immagine sociale;
  4. attacchi alla qualità della situazione professionale;
  5. attacchi alla salute.

Ogni item viene valutato dal soggetto in base alla frequenza con cui si verifica il comportamento considerato e le scale utilizzate variano dai tre ai sei punti (secondo le diverse versioni del questionario) (Argentero, Zanaletti e Bonfiglio, 2004). Ege ha condotto una ricerca sul mobbing in Italia, utilizzando una versione del LIPT tradotto in italiano e integrando la sezione definita “altre azioni nei suoi confronti” con il contributo di Zapf. In seguito, Ege ha apportato ulteriori modifiche e integrazioni al LIPT sino a proporre una nuova versione del questionario denominata “LIPT Ege”, da utilizzarsi all’interno di una procedura definita “analisi di caso del mobbing”  (Argentero, Zanaletti e Bonfiglio, 2004).

  • ­ Work Harassment Scale (WHS).

Sviluppata da Bjorkqvist et al. (1994), fu designata per lo studio del mobbing nella popolazione universitaria (Moreno-Jeménez, Rodríguez-Muñoz, Martínez-Gamarra e Gálvez-Herrer, 2007). Il questionario è composto da 24 item (con risposta su scala Likert da 0 a 4) indicanti una serie di comportamenti che devono essere stati sperimentati come molestie ripetute e non come azioni manifestate in circostanza eccezionale. L’analisi fattoriale condotta dagli autori individuano due sottoscale che hanno definito rispettivamente aggressione razionale e manipolazione sociale (Bjorkqvist et al., 1994 in Maier, 2003). La consistenza interno dello strumento è di 0.95 (Moreno-Jeménez, Rodríguez-Muñoz, Martínez-Gamarra e Gálvez-Herrer, 2007).

  • Bergen Bullying Index.

Rappresenta una parte di un questionario più ampio che è stato utilizzato nell’ambito di una delle primissime ricerche sul mobbing svolta da Einarsen e colleghi. Esso è una misura delle potenziali conseguenze del mobbing e delle molestie a livello sia individuale che organizzativo. Esso è costituito da cinque item (Argentero, Zanaletti e Bonfiglio, 2004) con risposte su scale Likert a 4 punti e offre un’alta consistenza interna (.86) (Moreno-Jeménez, Rodríguez-Muñoz, Martínez-Gamarra e Gálvez-Herrer, 2007). Gli item indagano il grado in cui il mobbing viene vissuto come un problema riguardante il proprio ambiente di lavoro (Maier, 2003).

  • Negative Acts Questionnaire.

Questo questionario sembra essere quello tra i più utilizzati nella ricerca sul mobbing e numerose versioni sono state messe a punto in vari paesi del mondo. Sviluppato inizialmente da Einarsen e successivamente rivisitato da Einarsen e Raknes (nel 1997), nella sua forma originaria contava di 22 azioni per ognuna delle quali si chiedeva al soggetto di rispondere quanto spesso negli ultimi sei mesi riteneva di averle subite. In nessuno degli item che compongono il NAQ viene fatto riferimento al termine mobbing, violenza o vessazione al fine di lasciare l’intervistato libero di interpretarne il contenuto senza un’etichetta imposta e vincolante (Maier, 2003).

In Argentero e colleghi (2004) si può leggere come proprio una serie di limitazioni richiedono lo sviluppo di questionari in grado di fornire una valutazione più esaustiva del fenomeno. Gli autori sottolineano infatti come:

  • le azioni mobbizzanti presenti nei questionari non sono esaustive dei varie forme che possono assumere ed inoltre non si manifestano necessariamente allo stesso modo in tutti;
  • ­la risposta data dai soggetti può essere influenzata da come si esprimono gli item (forma positiva versus forma negativa);
  • ­i soggetti sottoposti a molestie tendono a sovrastimare le vittimizzazioni subite.

Visti i punti precedenti, inoltre, gli autori rilevano come nasca l’esigenza di fornire delle descrizioni più accurate del fenomeno che comprendano la maggior parte delle azioni vessatorie che si possono verificare e che queste, in termini di numero di item espressi, siano bilanciate all’interno del questionario nella loro esposizione positiva e negativa. Infine, essi consigliano di utilizzare una misura soggettiva insieme al questionario al fine di evidenziare la discrepanza tra la percezione individuale e gli effettivi comportamenti di mobbing che si sono verificati, oltre ché includere una scala lie utile nelle situazioni nelle quali un soggetto sia interessato ad alterare le risposte.

Bibliografia

Argentero, P., Zanaletti, W., & Bonfiglio, N. S. (2004). Analisi critica dei principali questionari per la valutazione del mobbing. Risorsa Uomo, 10(2-3), 195-216.

Cowie, H., Naylor, P., Rivers, I., Smith, P. K., & Pereira, B. (2002). Measuring workplace bullying. Aggression and Violent Behavior, 7, 33-51.

Hoel, H., Cooper, C. L., & Faragher, B. (2001). The experience of bullying in Great Britain: The impact of organizational status. European Journal of Work and Organizational Psychology, 10(4), 443-465.

Maier, E. (2003). Il mobbing come fenomeno psicosociale. In Depolo, M. (a cura di). Mobbing: quando la prevenzione è intervento: Aspetti giuridici e psicosociali del fenomeno. Milano: Franco Angeli.

Matthiesen, S. B. (2005). Bullying at work: antecedents and outcomes. PhD Thesis, Departement of Psychological Science, Faculty of Psychology, University of Bergen, Norwey.

Moreno-Jiménez, B., Rodríguez-Muñoz, A., Martínez Gamarra, M., & Gálvez Herrer, M. (2007). Assessing Workplace Bullying: Spanish Validation of a Reduced Version of the Negative Acts Questionnaire. The Spanish Journal of Psychology, 10(2), 449-457.

Notelaers, G., Einarsen, S., De Witte, H., & Vermunt, J. K. (2006). Measuring exposure to bullying at work: The validity and advantages of the latent class cluster approach. Work & Stress, 20(4), 289-302.

Rayner, C. (1997). The Incidence of Workplace Bullying. Journal of Community & Applied Social Psychology, (7), 199-208.

Salin, D. (2001). Prevalence and forms of bullyig among business professionals: A comparison of two different strategies for measuring bullying. European Journal of Work and Organizational Psychology, 10(4), 425-441.

Zapf, D., Einarsen, S., Hoel, H., & Vartia, M. (2003). Empirical findings on bullying in the workplace. In Einarsen, S., Hoel, H., Zapf, D., & Cooper, C. L. (Eds.) (2003). Bullying and Emotional Abuse in the Workplace: International perspectives in research and practice. London: Taylor & Francis.

Zapf, D., & Gross, C. (2001). Conflict escalation and coping with workplace bullying: a replication and extension. European Journal of Work and Organizational Psychology, 10(4), 497-522.

 

Il Mobbing – © Marco Benedetti

Il Mobbing: Antecedenti

ARTICOLO 6 – ANTECEDENTI DEL MOBBING

Sebbene la ricerca sul mobbing abbia prediletto solo alcuni fattori come cause del mobbing, attualmente i modelli considerati più attendibili sono quelli che fanno riferimento a modelli multicausali cheintegrano fattori individuali, sociali e organizzativi (Guglielmi, Panari e Depolo, 2008).

La figura 1 presenta un modello di cause e conseguenze del mobbing (fonte: Zapf, 1999). Sono presentati fattori organizzativi e sociali, così come fattori individuali riscontrabili nel mobber e nella vittima, i quali possono causare il mobbing. Il mobbing può portare a varie forme di malessere. La figura inoltre illustra un problema centrale nella ricerca del mobbing: non è chiara se la relazione causa-effetto vada da sinistra a destra (Zapf, 1999).

Di seguito verranno presi in considerazione i risultati di alcuni contributi della recentissima letteratura che tratta degli antecedenti del mobbing.

Cause organizzative

Tradizionalmente, tra le cause organizzative (o meglio fattori situazionali), vengono considerati gli stili di leadership, il clima e la cultura organizzativa e l’organizzazione del lavoro stesso (per una rassegna si veda Hoel e Salin, 2003).

Tra i contributi più recenti si cita lo studio di Skogstad et al. (2007). Gli autori trovarono che la relazione tra una leadership laissez-faire e il mobbing era mediata dagli stressori lavorativi dati dal conflitto di ruolo e dai conflitti coi colleghi. Questa prospettiva supporta il concetto che uno stile di leadership laissez-faire provvede ad un terreno fertile per il mobbing orizzontale.

Meseguer et al. (2007), invece, indagarono quali fattori psicosociali permettevano la predizione del mobbing. I loro risultati mostrarono come la definizione del ruolo, il carico mentale, l’interesse per il lavoratore e la supervisione/partecipazione possono essere utilizzati come predittori di due forme del mobbing: attacchi alla persona e attacchi al ruolo lavorativo.

Figura 1. Cause e conseguenze del mobbing

Fonte: Zapf, 1999

 

Cause sociali

Nelle componenti causali di livello sociale, la letteratura sul mobbing giustifica l’esordio come dinamiche di gruppo mal gestite.

Si chiamano in causa, così, concetti come capro espiatorio, conflitti interpersonali, percezione di giustizia organizzativa (si veda a questi propositi Neumann e Baron, 2003).

Una chiave di lettura che si discosta dai concetti sopra riportati è offerta da Harvey et al. (2007) che, offrendo un modello esplicativo della diffusione del mobbing nelle organizzazioni globali, supportano l’ipotesi di un contagio sociale/emozionale come mezzo d’attivazione degli atti vessatori. Chi assiste agli atti vessatori può interiorizzare questi comportamenti come norme comportamentali accettabili. Gli autori ipotizzano anche che questo genere d’imitazione sia particolarmente rilevante per quei subordinati che vogliono guadagnare accettazione da parte dei propri superiori (ibidem).

Cause disposizionali

La letteratura sulle cause disposizionali, invece, si concentra sulla personalità della vittima e dell’aggressore (si veda Zapf e Einarsen, 2003).

Giorgi e Majer (2008) riportano come siano presenti parecchi studi indicanti l’esistenza di dimensioni influenti nella dinamica del mobbing a più livelli; tali risultati, tuttavia, presentano dati che necessitino d’ulteriori evidenze empiriche, in quanto le analisi effettuate risultano essere per lo più di natura descrittiva e/o correlazionale. Gli autori (ibidem) proseguono presentando un loro studio dove ipotizzano un livello minore d’intelligenza emotiva nelle vittime di mobbing. Le analisi effettuate conducono al risultato che vede l’intelligenza emotiva come componente importante nella percezione di mobbing e nelle strategie messe in atto dalla vittima per far fronte al conflitto.

In un altro studio, che ha visto l’impiego del Big Five Qustionnaire, Glasø, Matthiesen, Nielsen & Einarsen (2007) dimostrano come le vittime del mobbing differivano su quattro delle cinque dimensioni del questionario, dimostrandosi più ansiose e meno piacevoli, coscienziose ed estroverse. I risultati supportarono ricerche precedenti riportanti differenze nella personalità tra le vittime e le non-vittime (ibidem).

Moreno-Jiménez et al. (2008), invece, indagarono il fattore del distacco psicologico dal lavoro trovando che esso modera la relazione tra il conflitto di ruolo e il mobbing, dimostrandosi una strategia di successo nell’affrontare gli stressori lavorativi.

Prevenire il mobbing significa mettere in atto interventi che tendano a contrastare l’esistenza degli antecedenti del fenomeno (per una lista di interventi di prevenzione primaria si veda Bisio, Nocera e Piazza, 2008).

Bibliografia

Bisio, C., Nocera, A., & Piazza, A. (2008). Mobbing: quali azioni preventive in Azienda? Il punto di vista dei professionisti. Risorsa Uomo, 14(2), 235-249.

Giorgi, G., & Majer, V. (2008). Il mobbing in Italia: uno studio condotto presso ventuno organizzazioni. Risorsa Uomo, 14(2), 171-188.

Glasø, L., Matthiesen, S. B., Nielsen, B. M., & Einarsen, S. (2007). Do targets of workplace bullying portray a general victim personality profile?. Scandinavian Journal of Psychology, 48, 313-319.

Guglielmi, D., Panari, C., & Depolo, M. (2008, submitted). Qualità della vita lavorativa e rischio di mobbing: il clima sociale modera la relazione? Avance en Psicologia Latinoamericana.

Harvey, M., Treadway, D. C., & Heames, J. T. (2007). The occurrence of bullying in global organizations: a model and issues associated with social/emotional contagion. Journal of Applied Social Psychology, 37(11), 2576-2599.

Hoel, H., & Salin, D. (2003). Organizational antecedents of workplace bullying. In S. Einarsen, H. Hoel, D. Zapf, & C. L. Cooper (Eds.), Bullying and emotional abuse in the workplace: International perspectives in research and practice. London: Taylor & Francis.

Meseguer, M., Soler, M. I., García-Izquierdo, M., Sáez, M. C., & Sánchez, J. (2007). Los factores psicosociales de riesgo en el trabajo come predictores del mobbing. Psicothema, 19(2), 225-230.

Moreno-Jiménez, B., Rodríguez-Muñoz, A., Pastor, J. C., Sanz-Vergel, A. I., & Garrosa, E. (2008). The Moderating Effects of Psychological Detachment and Thoughts of Revenge in Workplace Bullying.

Downloaded on 20th August from:

http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1138791

Neumann, J. H., & Baron, R. A. (2003). Social antecedents of bullying. In S. Einarsen, H. Hoel, D. Zapf, & C. L. Cooper (Eds.), Bullying and emotional abuse in the workplace: International perspectives in research and practice. London: Taylor & Francis.

Skogstad, A., Einarsen, S., Torsheim, T., Aasland, M. S., & Hetland, H. (2007). The destructiveness of laissez-faire leadership behavior. Journal of Occupational Health Psychology, 12(1), 80-92.

Zapf, D. (1999). Organizational, work group related and personal causes of mobbing/ bullying at work. International Journal of Manpower, 20(1/2), 70-85.

Zapf, D., & Einarsen, S. (2003). Individual antecedents of bullying. In Einarsen, S., Hoel, H., Zapf, D., & Cooper, C. L. (Eds.) (2003). Bullying and Emotional Abuse in the Workplace: International perspectives in research and practice. London: Taylor & Francis.

 

Il Mobbing – © Marco Benedetti

 

 

Il Mobbing: tipologie del mobbing

ARTICOLO 5 – TIPOLOGIE DEL MOBBING

Al fine di apportare una distinzione tra le varie forme di mobbing che possono presentarsi in una realtà lavorativa, la letteratura offre categorizzazioni dipendenti dal tipo di azioni mobbizzanti e il tipo di relazioni tra gli attori considerati. Si vengono così a definire varie modalità di violenza psicologica che possono essere definiti in termini di:

 

  • ­mobbing verticale, esso fa riferimento alla posizione gerarchica degli attori. Con questo termine, si intendono quelle vessazioni esercitate da una persona (anche assieme a dei collaboratori) che ha una posizione gerarchica superiore rispetto alla vittima. Un tipico esempio di mobbing verticale è l’abuso di potere (Giannini, Di Fabio e Gepponi, 2004). Talvolta questa forma di mobbing viene anche chiamata bossing, che viene definito da Ege (1997) come “una forma di terrorismo psicologico che viene programmato dall’azienda stessa o dai vertici dirigenziali ai danni di dipendenti divenuti in qualche modo scomodi” e che si vogliono eliminare. Ciò che caratterizza il bossing è la sua manifestazione su scala aziendale (ibidem).

  • ­mobbing dal basso (o verticale ascendente), come il precedente, esso si basa sulla relazione gerarchica tra gli attori. Questa forma di mobbing, a differenza da quella verticale (discendente), vede il subordinato o comunque chi detiene un potere minore (singolo o gruppo di persone) mettere in atto una serie di vessazioni ai danni di un superiore;
  •  mobbing orizzontale, con questa tipologia si chiude la rosa delle modalità di mobbing che prendono in considerazione la relazione gerarchica. Questa forma viene esercitata da uno o più colleghi nei confronti di un soggetto. Le azioni più frequentemente attuate sono di natura sociocomunicativa, volte all’isolamento della persona vessata dal gruppo e al blocco delle informazioni (Einarsen et al., 1997 in Maier, 2003);

 

Le altre tipologie del mobbing individuabili in letteratura, seppur riconoscendo un’asimmetria tra gli attori, evidenziano principalmente la relazione comportamentale degli attori e delle vessazioni in atto. Si vengono, così, a distinguere i seguenti tipi di mobbing:

 

  • ­legato ad un conflitto interpersonale, dove il processo vessatorio si instaura a partire dall’escalation di un conflitto interpersonale non efficacemente risolto e si contrappone al mobbing predatorio, che invece riguarda quelle vessazioni attuate nei casi la vittima non abbia fatto niente per provocarle e/o giustificare l’accanimento dei comportamenti negativi verso di sé, trovandosi accidentalmente in una posizione di svantaggio (Einarsen, 1999);

  • ­doppio mobbing, si tratta di un fenomeno che Ege (1998) ha riscontrato frequentemente in Italia e che non trova riscontro nella ricerca europea. Il doppio mobbing delinea quella situazione nella quale la vittima perde il sostegno della famiglia, il quale comportamento si aggiunge alle vessazioni subite al lavoro;
  • individuale, dove è il singolo lavoratore ad essere oggetto di vessazioni, che si contrappone al collettivo, dove ad essere vittimizzati sono gruppi di lavoratori (Giannini, Di Fabio e Gepponi, 2004);

    ­diretto, quando le azioni mobbizanti sono indirizzate direttamente sulla vittima e indiretto quando le azioni mobbizzanti vengono attuate sia intervenendo sul luogo di lavoro, sia coinvolgendola sua cerchia familiare o quella degli amici (ibidem);

  • leggero, quando le violenze psicologiche si presentano in modo molto sottile e poco appariscenti, e pesante, quando invece le azioni vessatorie si rivelano palesi e violenta (ibidem).

 

Bibliografia

  • Ege, H. (1997) Il Mobbing in Italia: introduzione al mobbing culturale. Bologna: Pitagora Editrice Bologna.
  • Ege, H. (1998) I Numeri del Mobbing: la prima ricerca italiana. Bologna: Pitagora Editrice Bologna.
  • Einarsen, S. (1999). The nature and causes of bullying at work. International Journal of Manpower, 20(1/2), 16-27.
  • Giannini, M., Di Fabio, A., & Gepponi, B. (2004). La rilevazione del mobbing in ambito lavorativo: proprietà psicometriche del Negative Acts Questionnaire (NAQ) in Italia. Risorsa Uomo, 10(2-3), 257-268.
  • Maier, E. (2003). Il mobbing come fenomeno psicosociale. In Depolo, M. (a cura di). Mobbing: quando la prevenzione è intervento: Aspetti giuridici e psicosociali del fenomeno. Milano: Franco Angeli.

     

Il Mobbing – © Marco Benedetti

Il Mobbing: Conseguenze

ARTICOLO 3 – CONSEGUENZE

Il mobbing si rivela essere un aspetto negativo nella vita delle organizzazioni con conseguenze individuali, sociali e organizzative.

Dalla nascita delle ricerche sul mobbing, l’attenzione si è inizialmente focalizzata sugli effetti negativi che quest’esperienza ha sulle vittime (Hoel, Einarsen e Cooper, 2003).

 

L’esposizione al mobbing è stata classificata come una significante sorgente di stress sociale sul lavoro e come il problema più paralizzante e devastante per i lavoratori rispetto a tutti gli altri stressori correlati al lavoro messi assieme (Wilson, 1991 in Einarsen e Mikkelsen, 2003).

La reiterazione ed il protrarsi nel tempo della molestia morale e psicologica comportano, nella maggioranza dei casi, la riduzione dello stato di salute e del benessere complessivo della persona vessata.

Tenuto conto che ciascuno reagisce ad un attacco esterno in modo diverso, il fenomeno del mobbing può portare a:

  • alterazioni dell’equilibrio socio-emotivo (ansia, depressione, ossessioni, attacchi di panico, anestesia emozionale),
  • alterazioni dell’equilibrio psicofisico (cefalea, vertigini, disturbi gastrointestinali, ipertensione arteriosa, dermatosi, mal di schiena, disturbi del sonno e della sessualità)
  • disturbi a livello comportamentale (modificazioni del comportamento alimentare, reazioni autoaggressive ed eteroaggressive, passività) (Timpa et al., 2005).

I mobbizzati possono inoltre diventare solitari e taciturni, perdere interesse nelle proprie famiglie, essere irritabili e persino aggressivi contro le persone che amano. Essi possono affidarsi all’alcool o diventare ossessionati dal bisogno di discolpare se stessi, spendendo ore in solitudine tentando di affrontare il criticismo del mobber ed elencando corrispondenze nel tentativo di giustificare se stessi (Beasley e Rayner, 1997).

Sulla base di osservazioni cliniche ed interviste con vittime americane di mobbing, nel 1976 Brodsky identificò tre pattern generali di reazione. Alcune vittime svilupparono sintomi fisici vaghi come debolezza, perdita di forza, fatica cronica, dolori e vari mali. Altri reagirono con depressione e sintomi correlati come impotenza, perdita di autostima e insonnia.

In ultimo, un terzo gruppo riportarono vari sintomi psicologici come ostilità, ipersensibilità, perdita di memoria, vittimizzazione, timidezza e ritiro sociale.

Altri studi sul mobbing suggeriscono che le donne possono essere più colpite rispetto agli uomini in quanto loro vivono il fenomeno generalmente in modo differente e probabilmente più severo, indipendentemente dal numero degli atti negativi ai quali sono esposte.

Sulla base di una vasta analisi dei sintomi riportata dai soggetti osservati, si è arrivati a stabilire che i disturbi di cui generalmente soffrono i lavoratori-vittime possono rientrare nella categoria dei disturbi post-traumatici da stress (PTSD).

Non mancano, però, pareri discordanti: alcuni inquadrano il mobbing come disturbo dell’adattamento, e altri ancora ritengono che una delle sindromi che più colpisce i lavoratori a seguito di pratiche di mobbing sia il disturbo di attacchi di panico (Timpa et al., 2005).

A causa di un forte bisogno delle vittime nel cercare supporto in questa loro situazione, diviene difficile per i colleghi non rimanere coinvolti o neutrali in casi come questi (Einarsen, 1996). Gli effetti del mobbing si ripercuotono, perciò, sull’intero gruppo di lavoro sotto molteplici aspetti di deterioramento del clima aziendale, influenza dei livelli di produttività e della prestazione lavorativa di gruppo, e di abbassamento degli standard di efficacia ed efficienza. In uno studio di Vartia (2001) è emerso come l’essere stati testimoni di mobbing sia un significante predittore di reazioni a stress generale e strain mentale.

Anche l’organizzazione, però, subisce le conseguenze negative del mobbing, in termini di costi diretti (riduzione del commitment, aumento del livello di assenteismo e turnover, costi sostenuti per malattia dei dipendenti, coinvolgimenti in contenziosi giuridici, crescita di incidenti ed errori, ecc.) e di costi indiretti (abbassamento del morale, mancanza di soddisfazione lavorativa, comunicazione disfunzionale, ripercussioni sull’immagine esterna (Maier, 2003), mancanza di motivazione e creatività, ecc. (Hoel, Einarsen e Cooper, 2003).

Bibliografia

Beasley, J., & Rayner, C. (1997). Bullying at work: after Andrea Adams. Journal of Community & Applied Social Psychology, 7, 177-180.

Einarsen, S. (1996). Bullying and Harassment at Work: Epidemiological and psychosocial aspects. Tesi di Dottorato, Facoltà di Psicologia, Università di Bergen.

Einarsen, S., & Mikkelsen, E. G. (2003). Individual effects of exposure to bullying at work. In Einarsen, S., Hoel, H., Zapf, D., & Cooper, C. L. (Eds.) (2003). Bullying and Emotional Abuse in the Workplace: International perspectives in research and practice. London: Taylor & Francis.

Hoel, H., Einarsen, S., & Cooper, C. L. (2003). Organizational effects of bullying. In Einarsen, S., Hoel, H., Zapf, D., & Cooper, C. L. (Eds.). Bullying and Emotional Abuse in the Workplace: International perspectives in research and practice. London: Taylor & Francis.

Maier, E. (2003). Il mobbing come fenomeno psicosociale. In Depolo, M. (a cura di). Mobbing: quando la prevenzione è intervento: Aspetti giuridici e psicosociali del fenomeno. Milano: Franco Angeli.

Timpa, M., Iandolino, P., Romano, C., Piletto, A., Sidoti, E., & Tringali, G. (2005). Il mobbing, dalla malattia professionale alla promozione del benessere sul lavoro. Difesa Sociale, 84(3-4), 57-70.

Vartia, M. (2001). Consequences of workplace bullying with respect to the well-being of its targets and the observers of bullying. Scandinavian Journal of Work Environment and Health, 27(1),

 

Il Mobbing – © Marco Benedetti

Lo sviluppo dell’interesse per il mobbing

LO SVILUPPO DELL’INTERESSE PER IL MOBBING

Lo sviluppo dell’interesse per il mobbing

Nonostante le sue origini si perdono nei primordi dell’industrializzazione e da sempre sembra caratterizzare l’ambiente di lavoro (Maier, 2003), il mobbing è un fenomeno che è entrato recentemente nel campo della ricerca organizzativa e lavorativa e l’esplosione d’interesse rivolto ad esso ha fatto sì che si meritasse l’appellativo di “argomento della ricerca degli anni ‘90” (Hoel et al., 1999 in Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper, 2003).

Il termine mobbing  venne utilizzato per primo dall’etologo Konrad Lorenz nei suoi studi per indicare il comportamento di alcuni animali della stessa specie che, coalizzati contro un membro del proprio gruppo, lo attaccano ripetutamente al fine di escluderlo dalla comunità di appartenenza (Favretto e Sartori, 2005).

Successivamente, questo termine è stato introdotto nell’ambito della ricerca sull’aggressività tra i bambini in età scolare da Heinemann (nel 1972), che lo adottò da una traduzione in svedese del libro di Lorenz sull’aggressione.

Questo portò parte dei ricercatori ad utilizzare il termine mobbing come un comune descrittore per la vittimizzazione tra i bambini nelle scuole, divenendo sinonimo di bullying.

Allo stesso modo, fu Leymann che nel 1986 prese in prestito il termine mobbing per descrivere una specifica aggressione tra adulti sul luogo di lavoro (Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper, 2003).

Dagli anni ’80 agli anni ’90, dalla Scandinavia fino all’Europa e oltreoceano, il mobbing trovò gran risonanza sia nell’ambito accademico che non, dove articoli e libri scientifici e divulgativi vennero scritti in molte lingue e dove conferenze e simposi discutevano e disseminavano consapevolezza sul problema.

In Tabella 1 sono riportate le tappe principali che il fenomeno ha vissuto fino alla sua conclamata popolarità.

 

Tabella 1. Sviluppo della ricerca scientifica sul mobbing




Anno e luogo di pubblicazione

Autore

Descrizione

1963, Austria

Lorenz, K.

Nel libro Das sogenannte Böse utilizza il termine mobbing per indicare un particolare comportamento aggressivo animale della stessa specie

1972, Svezia

Heinemann, P.

Nel libro Mobbning – Gruppvåld bland barn och vuxna viene descritto un tipo di comportamento ostile di lunga durata riscontrata tra scolari

1976, Canada

Brodsky, C. M.

In The Harrased Worker descrive il fenomeno del mobbing in tutto e per tutto, ma il libro non avrà nessun impatto fino a molto tempo dopo

Anni ‘80, Scandinavia

 

Si avvia l’interesse per il mobbing sul luogo di lavoro

1984, Svezia

Leymann, H. e Gustavsson, B.

Nel libro Psykiskt void i arbetslivet. Tvd esplorativa undersokningar si riferiscono al mobbing come a un tipo di vessazione psicologica, esercitata sul posto di lavoro ripetuta e prolungata nel tempo

1986, Svezia

Leymann, H.

Attraverso vari studi emprici in diverse organizzazioni incontrò il fenomeno del mobbing che descrisse nel libro Vuxenmobbning, om psykiskt vald i arbetslivet

Inizi anni ’90, Europa

 

L’interesse rimase principalmente nei paesi nordici con poche pubblicazioni disponibili in inglese

1992, Regno Unito

Adams, A.

Grazie al suo libro Bullying at Work. How to confront and overcome it e ai suoi documentary su BBC radio, la questione del mobbing fu presa fermamente in considerazione anche nell’agenda inglese

1993, Germania

Leymann, H.

Col fine di diffondere la consapevolezza del mobbing nei luoghi di lavoro, scrisse in tedesco il libro Mobbing. Psychoterror am Arbeitsplatz und wie man sich dagegen wehrenkann.

1994, Stati Uniti

Keashly, L.

Il suo lavoro, Abusive behavior in the workplace: a preliminary investigation, offrì un inquadramento concettuale coerente del workplace bullying negli USA.

Metà anni ’90, Europa ed Australia

 

La consapevolezza del fenomeno iniziò a prendere piede e diffondersi nei vari paesi europei e non: Austria (Niedl, 1995; Kirchler e Lang, 1998), Italia (Ege, 1996), Paesi Bassi (Hubert and van Veldhoven, 2001), Ungheria (Kauscek e Simon, 1995) e Australia (McCarthy et al., 1996).




Riflessione contemporanea

La crescente attenzione data al mobbing può essere spiegata in parte dal recente cambiamento economico e sociale.

Per sopravvivere, le organizzazioni devono affrontare continue pressioni che portano a downsizing e ristrutturazioni per sostenere competitività in una crescente economia globale. Le poche persone vengono lasciate con più lavoro in un clima d’incertezza (Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper, 2003).

Incertezza, mobilità, rischio e opportunità sono concetti che descrivono la società odierna caratterizzata da un capitalismo flessibile e da un’economia della velocità (Rifkin, 2000).

Tale società che vede le strutture produttive trasformarsi profondamente, per adattarsi alle necessità del mercato, conosce anche sul versante lavorativo cambiamenti non irrilevanti.

Questa adozione di filosofie e modelli gestionali flessibili e una maggiore diversificazione della forza lavoro, provocano mutamenti ad un ritmo talmente frenetico, che possono avere effetti collaterali sulla salute psicofisica dei lavoratori e sulla qualità della loro vita lavorativa, così come sul benessere delle organizzazioni stesse interessate da simili mutamenti (Sennet, 2000).

E’ indubbio che questo nuovo modello di azienda e lavoro flessibile sia pensato per apportare salute, benessere e prosperità tramite il potenziamento della competitività delle aziende e della capacità di inserimento e sviluppo professionale della forza lavoro, ma dove questi processi non vengono attuati con particolare cautela e attenzione al fattore umano (Maier, 2003), i suddetti fattori possono portare un clima nel quale l’insicurezza diviene endemica, creando un ambiente lavorativo nel quale si rafforzano le probabilità di conflitti interpersonali e mobbing (Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper, 2003).

La maggior parte degli uomini e delle donne sopportano questo abuso non facendo niente perché hanno paura per il loro posto di lavoro e dei valori estrinseci ad esso legati.

Con famiglie da sostenere e mutui da pagare, mantenere il silenzio è spesso l’opzione scelta. Mentre chi trova il coraggio di confrontare la questione è probabile che venga etichettato come portatore di problemi o di essere accusato di insubordinazione (Beasley e Rayner, 1997).

Bibliografia

Beasley, J., & Rayner, C. (1997). Bullying at work: after Andrea Adams. Journal of Community & Applied Social Psychology, 7, 177-180.

Einarsen, S., Hoel, H., Zapf, D., & Cooper, C. L. (Eds.) (2003). Bullying and Emotional Abuse in the Workplace: International perspectives in research and practice. London: Taylor & Francis.

Favretto, G., & Sartori, R. (2005). Il mobbing come distress relazionale. In Favretto, G. (a cura di). Le Forme del Mobbing. Cause e conseguenze di dinamicheorganizzative disfunzionali. Milano: Raffello Cortina Editore.

Maier, E. (2003). Il mobbing come fenomeno psicosociale. In Depolo, M. (a cura di). Mobbing: quando la prevenzione è intervento: Aspetti giuridici e psicosociali del fenomeno. Milano: Franco Angeli.

Rifkin, J (2000). L’Era dell’Accesso. La rivoluzione della new economy. Milano: Mondadori.

Sennet, R. (2000). L’uomo flessibile. Milano: Feltrinelli.

 

Il Mobbing – © Marco Benedetti

Il mobbing – Introduzione

IL MOBBING

 

(articoli estratti dalla tesi Negative Acts Questionnaire: uno strumento di rilevazione del mobbing, discussa nella II sessione di laurea 2008, presentata da Marco Benedetti, relatore Prof.ssa Dina Guglielmi).

 

ARTICOLO 1 – INTRODUZIONE

In generale, quando si parla di mobbing, ci si riferisce a quel particolare fenomeno che si manifesta nei contesti lavorativi con l’esposizione a insulti od osservazioni offensive, criticismo persistente, abusi fisici o privati (nonostante la violenza fisica tenda ad essere piuttosto rara) (Salin, 2003), che causa alla vittima umiliazione, offesa e di stress e può interferire con la prestazione lavorativa e/o portare ad uno spiacevole ambiente di lavoro (Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper, 2003).

 

La prima criticità che emerge dalla letteratura sullo studio del mobbing riguarda la mancanza di una sua definizione specifica e condivisa; non esistendo ancora, nasce la difficoltà a livello metodologico nella realizzazione di strumenti di misura in grado di identificare e quantificare gli innumerevoli aspetti del fenomeno (Argentero, Zanaletti e Bonfiglio, 2004).

 

Nell’ambito della misura si delineano due linee di ricerca principali: quella soggettiva, che richiede l’opinione dei soggetti nel considerarsi, o meno, vittime/ testimoni del mobbing in funzione di una definizione fornita del fenomeno; l’altro approccio, quello operazionale, si propone di rilevare le vittime di mobbing tramite la somministrazione di un questionario, il quale fa capo a criteri specifici per l’individuazione delle vittime. Solitamente, quest’ultimo metodo riporta percentuali di mobbizzati più alte rispetto al primo.

 

Gli articoli che seguiranno affronteranno un viaggio attraverso il fenomeno mobbing, un articolato pattern di comportamenti molesti ed indesiderati posti in essere nell’ambiente di lavoro che causano sofferenza fisica, psicologica e morale nella persona vessata (Maier, 2003), dove verranno trattati sommariamente i principali aspetti al fine di inquadrarlo in un contesto contemporaneo anche alla luce dei risultati di recenti ricerche.

 

Conclusivo sarà il tema della misurazione del mobbing, dove si sottolineeranno i principali problemi e le varie questioni irrisolte che la sua rilevazione porta con sé.

Bibliografia

Argentero, P., Zanaletti, W., & Bonfiglio, N. S. (2004). Analisi critica dei principali questionari per la valutazione del mobbing. Risorsa Uomo, 10(2-3), 195-216.

Einarsen, S., Hoel, H., Zapf, D., & Cooper, C. L. (Eds.) (2003). Bullying and Emotional Abuse in the Workplace: International perspectives in research and practice. London: Taylor & Francis.

Maier, E. (2003). Il mobbing come fenomeno psicosociale. In Depolo, M. (a cura di). Mobbing: quando la prevenzione è intervento: Aspetti giuridici e psicosociali del fenomeno. Milano: Franco Angeli.

Salin, D. (2003). Ways of explaining workplace bullying: a review of enabling, motivating and precipitating structures and processes in the work environment. Human Relation, 56(10), 1213-1232.

 

 

Il Mobbing – © Marco Benedetti

Mobbing

Il mobbing: un tipo di stress psicosociale in ambito lavorativo

 

 

Definizione

Dal punto di vista etimologico, il termine “mobbing”lo si può far risalire a:

    • termine latino “mobile vulgus”, plebaglia tumultuante;
    • all’inglese “to mob”: aggredire, accerchiare, assalire in massa. Tale termine è stato usato, agli inizi degli anni 70 dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere il comportamento di alcuni animali che si coalizzano contro un membro del gruppo, lo attaccano, lo isolano, lo escludono dal gruppo, lo malmenano fino a portarlo anche alla morte.

Heinz Leymann, nel 1984, con la prima pubblicazione scientifica sull’argomento, introduce l’uso del termine MOBBING per indicare la particolare forma di vessazione esercitata nel contesto lavorativo, il cui fine consiste nell’estromissione reale o virtuale della vittima dal mondo del lavoro.

Leymann inizia ad utilizzare la parola MOBBING,  per indicare quella forma di “comunicazione ostile ed immorale diretta in maniera sistematica da uno o più individui (mobber o gruppo mobber) verso un altro individuo (mobbizzato) che si viene  a trovare in una posizione di mancata difesa”.

In Italia si inizia a parlare di mobbing sul lavoro solo negli anni ‘90 grazie allo psicologo del lavoro Harald Ege, che raffigura il fenomeno come “una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte dei colleghi o superiori” attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo per un periodo di almeno 6 mesi. Ripetitività e durata sono dunque le 2 condizioni che devono essere presenti perché si possa affermare di trovarsi in presenza di mobbing sul lavoro.

In seguito a questi attacchi la vittima progressivamente precipita verso una condizione di estremo disagio che, progressivamente, si ripercuote negativamente sul suo equilibrio psico-fisico.

MOBBING: cosa non è:

    1. .Non è una singola azione contro un lavoratore di tipo occasionale, non è un conflitto diffuso (organizzazione di lavoro sostenuto, sovraccarico lavoro per tutti i lavoratori dell’azienda, tensione diffusa per cambiamenti radicali, privatizzazione dell’ente, fusione, ecc.);
    1. Non è una malattia, nè una patologia, nè un problema dell’individuo, ma una situazione, un problema dell’ambiente di lavoro, non è depressione, né ansia, né gastrite, né insonnia, né stress, ecc. ma è la spiegazione di questi disturbi;
    1. Non è un problema familiare, scolastico, ecc.; è un fenomeno proprio e tipico dell’ambiente di lavoro;
    1. Non è una molestia sessuale anche si in alcuni casi i due comportamenti si possono sovrapporre: il mobber può decidere di infastidire la sua vittima tentando di aggredirla a fatti o a parole (l’azione viene posta in essere non allo scopo di ottenere una prestazione sessuale bensì per umiliare, allontanare o creare danni) oppure in caso di approccio sessuale, se rifiutato, il molestatore si può trasformare in mobber allo scopo di punire la sua vittima del rifiuto.

Mobbing: che cosa è:

Il mobbing è una strategia, un attacco ripetuto e continuato, secondo alcuni, almeno una volta alla settimana per almeno sei mesi, diretto contro una persona o un gruppo di persone da parte del datore di lavoro, superiori o pari grado che agiscono con finalità persecutorie.

Sono state date varie definizioni:

    • “Violenza psicofisica e molestia morale sul luogo di lavoro … allo scopo di ledere la salute, la professionalità, la dignità della persona del lavoratore …  si esegue con svariate modalità, aggressive e vessatorie, verbali e non verbali, tese all’emarginazione ed all’isolamento, alla squalifica professionale ed umana, al demansionamento, allo svuotamento  delle mansioni e/o perdita del ruolo, con l’intento finale di bloccare la carriera e/o di eliminare la persona con conseguenze dannose sulla salute, sull’attività professionale, sulla vita privata e sociale, nonché un danno economico alla società ….”.
    • “… per mobbing si intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti,pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da superiori ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica e di violenza morale.”

Gli atti e i comportamenti possono consistere in:

    1. pressioni o molestie psicologiche;
    1. calunnie sistematiche;
    1. maltrattamenti verbali ed offese personali;
    1. minacce od atteggiamenti tendenti ad intimorire od avvilire, anche in forma indiretta;
    1. critiche immotivate ed atteggiamenti ostili;
    1. delegittimazione dell’immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all’organizzazione;
    1. svuotamento delle mansioni;
    1. attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque atti a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore;
    1. attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto;
    1. impedimento sistematico ed immotivato a notizie ed informazioni utili all’attività lavorativa;
    1. marginalizzazione rispetto ad iniziative formative di riqualificazione e di aggiornamento professionale;
    1. esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi;
    1. atti vessatori indirizzati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni sessuali, di razza, di lingua e di religione.

I parametri fondamentali individuati da Harald Ege per definire il  MOBBING sono sette:

    • Ambiente di lavoro;
    • Frequenza delle azioni mobbizzanti: almeno una volta alla settimana
    • Durata: almeno sei mesi
    • Tipo di azione: le azioni subite devono appartenere ad almeno due delle cinque  categorie del “LIPT Ege”, questionario di Mobbing elaborato da Leymann e modificato da Ege dove vengono individuate 45 azioni ostili suddivise in 5 categorie:

a) attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comunicare;

b) isolamento sistematico;

c) cambiamenti delle mansioni lavorative;

d) attacchi alla reputazione;

e) violenza e minacce di violenza.

    • Dislivello psicologico fra gli antagonisti, il dislivello non viene inteso in senso gerarchico, ma nel senso che il mobbizzato non ha le stesse capacità didifendersi dell’aggressore.
    • Andamento in fasi successive e in progresso: Leymann elaborò un modello a 4 fasi, successivamente modificato da Ege alle esigenze italiane, in un modello:

1° – conflitto mirato;

2° – inizio del mobbing;

3° – si individuano i primi sintomi psico-somatici;

4° – compaiono errori ed abusi;

5° – serio aggravamento della salute psico fisica della vittima;

6°- si verifica l’esclusione dal mondo del lavoro. E’ l’esito ultimo che può prendere la forma di  un   licenziamento, autolicenziamento, pre-pensionamento, ma che può anche arrivare a condotte auto e eterolesive

7.- Intento persecutorio

Il mobbing si manifesta con maggio frequenza in organizzazioni di grandi dimensioni ove è possibile mantenere l’anonimato e nei reparti amministrativi o dei servizi (Università, Industria, Enti parastatali, Pubblica Amministrazione, Scuola, Sanità, Assicurazioni, Banche, Forze Armate, Regioni, Comuni, Province, Enti Privati, ecc.).

Colpisce maggiormente la fascia 41-50 anni (molto raramente i lavoratori sotto i 30 anni).

Tipologia del Mobbing

Bossing: viene messo in atto dal diretto superiore o dai vertici dell’ente.

Mobbing orizzontale: viene messo in atto da colleghi pari grado

Mobbing verticale: viene messo in atto da colleghi di grado superiore ma anche inferiore

Doppio Mobbing: si realizza, a parere di Ege, quando il mobbizzato carica la famiglia di tutte le sue problematiche. Ad una prima fase di comprensione dei familiari segue una condizione di distacco che, quando la situazione si aggrava, porta ad un ulteriore isolamento dell’individuo

Co-mobber: coloro che affiancano il Mobber o partecipano senza intervenire personalmente ma solo acconsentendo.

Mobbing trasversale: messo in atto da persone al di fuori dell’ambito lavorativo che, in accordo con il Mobber, creano ulteriore emarginazione e discriminazione nei confronti della vittima quando questi cerca appoggio o cerca di farsi apprezzare.

Esistono specifici disturbi o patologie psichiche e psicosomatiche collegabili al lavoro in quanto conseguenza di stress determinato da incongruenze delle scelte di processo organizzativo (“costrittività organizzativa”).

Elenco delle “costrittività organizzative” più ricorrenti

    • Marginalizzazione dalla attività lavorativa
    • Svuotamento delle mansioni
    • Mancata assegnazione dei compiti lavorativi con inattività forzata
    • Mancata assegnazione degli strumenti di lavoro
    • Ripetuti trasferimenti ingiustificati
    • Prolungata attribuzione dei compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto
    • Prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psicofisici
    • Impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie
    • Inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro
    • Esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale
    • Esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo.

Sono esclusi dal rischio:

    • i fattori organizzativo/gestionali legati al normale andamento del rapporto di lavoro ;
    • ·le situazioni indotte dalle dinamiche psicologico relazionali comuni sia agli ambienti di lavoro che a quelli di vita (conflittualità interpersonali, difficoltà relazionali o condotte comunque riconducibili a comportamenti puramente soggettivi che, in quanto tali, si prestano inevitabilmente a discrezionalità interpretative).

Accertamento delle condizioni di rischio

Sono necessarie indagini ispettive per raccogliere prove testimoniali dei colleghi di lavoro, del datore di lavoro, del responsabile dei servizi di prevenzione e protezione delle aziende e di ogni persona informata sui fatti per:

    • acquisire riscontri oggettivi di quanto dichiarato dall’assicurato;
    • integrare gli elementi probatori prodotti dall’assicurato.

Psicodiagnostica delmobbing

La maggior parte dei casi di mobbing vengono invece diagnosticati come:

  1. ptsd: disturbo da stress post-traumatico[Leymann & Gustfasson; Field; Ellis; Einarsen; Davenport, Elliott, Schwartz; Naime; Wilson; Pardini];
  2. gad: disturbo d’ansia generalizzato[ Leymann & Gustfasson];
  3. pdsd: disturbo da stress prolungato[ Field] ;
  4. sindrome di affaticamento cronico[ Ellis]; burn-out [Leymann & Gustfasson] ;
  5. disturbo dell’adattamento [Pardini; Giglioli].
  6. I questionari standardizzati utilizzati per diagnosticare il mobbing sono:

il Lipt di Leyman, Brief Psychiatric Rating Scale di Overall e Gorham, General Health Questionnaire di Goldberg,

Beck Depression Inventory di Beck,

Impact of Event Scale di Horowitz et al.,

Post Traumatic Symptom Scale di Malt, diagnosi di Ptsd accordata ai criteri del DSM e dell’IC.10.

Questionario di Mobbing “LIPT Ege”

Per quanto riguarda le diagnosi differenziali tra le varie sindromi è utile considerare i seguenti criteri: durata, intensità, frequenza, contesto in cui sono maturati i disturbi, la storia del paziente, il tempo di latenza. Si cercherà quindi di fare delle distinzioni, anche se spesso non esiste una linea di demarcazione oggettiva tra stress ed ansia. A riguardo basta ricordare  che il DSM IV classifica il disturbo acuto da stress ed il disturbo post-traumatico da stress tra i disturbi d’ansia.

Distinguere tra paranoia ed ipervigilanza:

Innanzitutto è bene descrivere le differenze tra la persona paranoica e la persona mobbizzata. Tim Field è stato il primo a fare questa distinzione e a distinguere tra danno psichico e instabilità mentale nell’ambito del mobbing. Per Field la paranoia è duratura, l’ipervigilanza tende a diminuire gradualmente o addirittura a scomparire in mancanza delle cause che l’hanno prodotta. Il paranoico non ammette di essere paranoico, mentre invece la persona mobbizzata molto spesso esprime il timore di essere paranoica. La persona paranoica ha deliri di grandezza e le frustrazioni possono indurre ad un aggravamento della situazione, mentre la persona mobbizzata ha uno scarso livello di autostima. Il mobbizzato soffre di continui sensi di colpa e di vulnerabilità, prova sensazioni di vergogna e di inadeguatezza, invece il paranoico non ha questi sintomi. Infine la persona paranoica spesso sostiene che il persecutore è sconosciuto, il mobbizzato invece spesso non è consapevole di essere stato perseguitato. Comunque per non incorrere in errori (falsi positivi e falsi negativi) è necessario oltre alla somministrazione di un questionario standardizzato sul mobbing anche un colloquio clinico e/o la

somministrazione di test proiettivi di personalità come il test di Rorschach e/o il TAT(Thematic Apperception Test di Murray), oppure di inventari standardizzati come il MMPI di Hataway e McKinley, il Big Five Factors di Mc Crae e Costa, il 16 PF(Personality Factors) di Cattell, l’Eysenk Personality Inventory appunto di Eysenk.

Il disturbo post-traumatico da stress (PTDS – Post-Traumatic Stress Disorder):

Solitamente ècausato da un trauma grave come un incidente automobilistico, una rapina, una calamità naturale, una sparatoria, una violenza fisica, uno stupro, ecc. Questa sindrome nella maggior parte dei casi si manifesta in seguito al coinvolgimento di un evento traumatico vissuto come terribile, tremendo e devastante. Anche un infortunio sul lavoro può causare il Ptsd, subito dopo la persona che ne è stata coinvolta non sembra manifestare nessuna anomalia, di solito c’è un periodo di latenza, dopo 4-6 settimane la persona inizia a provare un senso di vulnerabilità psicologica e sia i suoi sentimenti che i suoi pensieri iniziano a ruotare attorno all’evento traumatico[Herman,1992].

La persona rivive l’evento tramite ricordi angosciosi, incubi, flashback dissociativi. Secondo il DSM IV il disturbo post-traumatico da stress può essere acuto (con sintomi che durano meno di tre mesi), cronico (con una durata superiore ai tre mesi), oppure può essere ad esordio ritardato (se i sintomi si manifestano almeno 6 mesi dopo l’evento stressante).

Spesso il disturbo post-traumatico da stress è la conseguenza diretta di un disturbo da stress acuto non curato. Il disturbo da stress acuto insorge in seguito ad un evento traumatico ed è caratterizzato da una sensazione di stordimento, da derealizzazione, da depersonalizzazione e da amnesia dissociativa.

Tornando alla diagnosi di mobbing viene da pensare come mai un mobbizzato presenti sintomi simili ad una persona che è sopravvissuta ad un trauma come per esempio ed incidente automobilistico, evento con una intensità enorme, ma di breve durata, nei casi di mobbing invece abbiamo quel che gli psichiatri americani chiamano KINDLING ( bruciare lento, prendere fuoco a poco a poco), ovvero un ripetersi continuo di microtraumi che possono portare alla citata patologia. Per Field (Tim Field, fondatore della. prima linea telefonica per mobbizzati in U.K) il PDSD (Prolonged Duress Stress Disorder) si distingue dal PTSD principalmente per il fatto che il disturbo da stress prolungato causato da mobbing prevede la perdita del lavoro e la comparsa di problemi di coppia o coniugali o familiari (quello che Ege in Italia ha definito doppio mobbing). Inoltre sempre secondo Field il PDSD prevede la comparsa di attacchi di panico e palpitazioni. Il PDSD quindi sarebbe diagnosticabile a lavoratori che sono stati sottoposti al mobbing per un periodo di tempo maggiore.

Disturbo d’ansia generalizzata(GAD – Generalized Anxiety Disorder):

Il disturbo d’ansia generalizzata presuppone una preoccupazione eccessiva e costante. I soggetti vivono in uno stato continuo di ipervi gilanza e di inquietudine. Tra i sintomi inoltre uno stato elevato di tensione fisica, caratterizzato da vari dolori muscolari. Il GAD, in altre parole, provoca sia sintomi fisici che psicologici, i soggetti possono soffrire di secchezza delle fauci, cefalea, vertigini, formicolii.

La caratteristica principale di questa sindrome è che l’intensità, la durata, la frequenza dell’ansia e dell’apprensione sono eccessive rispetto al reale impatto degli eventi.

Il disturbo d’ansia generalizzata non presenta attacchi di panico isolati, bensì un livello costante di preoccupazione della durata di almeno 6 mesi. Per quanto riguardo un confronto tra PTSD e GAD bisogna considerare cinque elementi essenziali: l’intensità, la durata, il tempo di latenza, i dolori fisici e muscolari, i flashback. Intensità e durata dei sintomi sono maggiori nel GAD rispetto al PTSD. Il periodo di latenza ed i flashback sono riscontrabili solo nel PTSD. I dolori fisici e muscolari solo nel GAD.

Sindrome da affaticamento cronico (SAC):

Si tratta di un affaticamento cronico legato ad una caduta provvisoria delle difese immunitarie.

Su questa sindrome si sta ancora ricercando: alcuni ricercatori stanno cercando di analizzare gli aspetti depressivi di questo disturbo, alcuni ritengono perfino che sia “una depressione mascherata”, perché esistono delle analogie tra la sindrome da affaticamento cronico e la depressione grave. Sembra che non sia causata solo dal surmenage lavorativo, ma anche da uno squilibrio del ritmo circadiano. Per quanto riguarda una diagnosi differenziale tra SAC e PTSD bisogna quindi considerare l’intensità, la durata, il tempo di latenza. Per quanto riguarda i primi due aspetti nel caso di SAC è riscontrabile un livello minore rispetto al PTSD. Il tempo di latenza invece è verificabile soltanto nel PTSD.

Burn-out:

E’ un esaurimento caratterizzato in particolar modo da apatia, stanchezza, indifferenza nei confronti degli altri, mancanza di motivazione e perdita di coinvolgimento nel proprio lavoro.

Possiamo considerare questa sindrome uno stato psicologico di un professionista che prima riversava le sue forze interamente nel proprio lavoro, e a seguito di stress e di difficoltà organizzative poi si disimpegna. Il burn-out si distingue dal disturbo post-traumatico per il contesto in cui è maturato il disturbo, per i fattori scatenanti, per il fatto che nel burn-out esistono delle fasi mentre nel disturbo post-traumatico esiste un tempo di latenza ma non delle fasi una volta che si è verificata l’insorgenza.

Le fasi del burn-out sono quattro: periodo di entusiasmo, periodo di stagnazione, periodo di frustrazione, periodo di indifferenza ed apatia. Infine per quanto riguarda il burnout esiste un tratto di personalità che è correlato alla sindrome (il tipo A: ambizioso, competitivo, esigente sia con se stesso che con gli altri, puntuale, frettoloso, aggressivo ), mentre invece nessuna caratteristica di personalità è correlata con il PTSD.

I disturbi dell’adattamento:

Alcuni i casi di mobbing in Italia vengono diagnosticati per la maggior parte con il disturbo post-traumatico o con un altro disturbo di adattamento. Va ricordato che i disturbi dell’adattamento si distinguono principalmente in base alla durata: il disturbo è acuto se dura da meno di 6 mesi, è cronico invece se ha una durata maggiore ai 6 mesi. Fondamentale nei disturbi dell’adattamento è la presenza di un agente stressante o traumatico avvenuto nei tre mesi precedenti. I sintomi psicologici inoltre tendono poi a scomparire dopo 6 mesi dall’assenza del fattore stressante.

La classificazione dei disturbi dell’adattamento conferma quanto scritto precedentemente: non esiste una distinzione netta ed oggettiva in alcuni casi tra depressione, ansia, stress. Ulteriore riprova di questo fatto è che ad esempio il disturbo post-traumatico da alcuni psichiatri è considerato come un tipo di depressione reattiva, mentre da altri un particolare tipo di stress.

La domanda che ci si pone a questo punto è la seguente: il mobbing può colpire chiunque oppure solo alcune persone con specifici tratti di personalità ?

Attualmente è stata esclusa la correlazione tra i tratti di personalità del mobbizzato e l’insorgenza di mobbing anche se è legittimo pensare che esistano delle differenze individuali e che alcune persone possano possedere degli anticorpi psicologici più resistenti alle vessazioni, possiamo comunque affermare che possa esistere caratteristiche particolari nel profilo psicologico del mobber.

Il profilo psicologico del mobber:

Per quanto riguarda i tratti di personalità del mobber Field elenca 4 tipologie:

    1. DISTURBO DI PERSONALITA’ ANTISOCIALE: mancata accettazione delle norme sociali, disonestà, impulsività, mancanza di empatia per gli altri, irresponsabilità, mancanza di rimorso. Spesso il disturbo antisociale è la conseguenza di un disturbo della condotta iniziato prima dei quindici anni.
    1. PERSONALITA’ PARANOICA: sospetto infondato che gli altri vogliano procurare danni o sfruttare, riluttanza a confidarsi, diffidenza verso la lealtà delle persone vicine, travisamento della realtà, mancanza di perdono per dubbie offese ricevute.
    1. DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’: sentimento di superiorità rispetto agli altri, desiderio costante di ammirazione, scarsa empatia, fantasie sconfinate di successo, esagerazione delle proprie qualità.
    1. DISTURBO BORDERLINE: relazioni instabili, sensazione di vuoto, senso di abbandono, incapacità di controllare la collera, comportamenti autolesionisti, mutamenti ricorrenti di umore, spese impulsive di denaro, comportamenti rischiosi.i i è necessario sottolineare che allo stato attuale delle conoscenze si tratta solo di ipotesi.

© Andrea Castello – Irene Borgia

Torna alla pagina “Sicurezza