Il Mobbing – Il problema della misura

ARTICOLO 7 – IL PROBLEMA DELLA MISURA

Il mobbing ci mette di fronte alla complessità del lavoro, e soprattutto alle molteplici sfaccettature del luogo di lavoro che si manifesta non come un semplice “luogo fisico”, ma come un complesso “sistema emotivo” all’interno del quale si concentrano umori, sensibilità e culture differenti.

 

Nonostante si conoscano i danni derivanti da questo fenomeno, non è semplice fornire cifre affidabili riguardanti la distribuzione di mobbing. Identificare la sua incidenza ha abbastanza problemi metodologici che iniziano con la definizione (Rayner, 1997). Infatti, anche se si possono individuare caratteristiche comuni nella definizione del processo mobbing, rimane il fatto che la letteratura offre differenti spiegazioni di esso portando ad una differenza nella prevalenza di soggetti vittime che varia notevolmente tra i diversi studi effettuati e tra i diversi paesi.

La stima della sua frequenza, appunto, dipende moltissimo da come viene misurata e la misura è influenzata a sua volta da come il mobbing viene definito (Zapf, Einarsen, Hoel e Vartia, 2003). Di conseguenza, diviene più difficile anche il confronto tra i diversi studi sul mobbing. Inoltre, Cowie, Naylor, Rivers, Smith e Pereira (2002) evidenziano come esistano molti aspetti nel problema mobbing non facilmente evidenziabili coi questionari, ritenendo essenziale un’analisi più ampia che abbracci anche il livello organizzativo per avere un’immagine più completa del fenomeno; ma rimane difficile ottenere accesso nelle aziende per effettuare studi di questo genere.

Seguendo la letteratura, la prevalenza del mobbing vede cifre che vanno da un minimo dell’1% ad un massimo del 50%, dipendenti dalle strategie di misurazione, occupazione o settore e dal Paese (Di Martino et al., 2003 in Matthiesen, 2005). Comunque, le ricerche sono giunte alla conclusione che esso è un problema diffuso in molte organizzazioni con una prevalenza che va dall’1% al 4% (Zapf e Gross, 2001), sebbene da un sondaggio svolto dalla Fondazione Dublino emerge come l’8% dei lavoratori dell’Unione Europea […] è stato vittima di mobbing, con serie conseguenze sulla salute psicofisica (Anderson, 2001 in Maier, 2003).

Come viene misurato

Nell’ambito della misura del fenomeno, si possono delineare due linee di ricerca principali etichettate come soggettiva e come operazionale.

  1. La prima segue l’approccio proposto da Einarsen e colleghi in Norvegia. Esso è basato sull’uso di una misura globale del mobbing, che consiste nel fornire al soggetto una breve definizione del fenomeno per poi chiedergli di indicare se ritiene o meno di essere vittima di questa forma di vessazione psicologica, o se ha visto colleghi subirla (Maier, 2003).
  2. La seconda, invece, si rifà agli studi di Leymann (1992 in Hoel, Cooper e Faragher, 2001), dove ai soggetti viene somministrato un questionario di comportamenti negativi identificati nel mobbing. Esso viene perciò operazionalizzato definendo i criteri per i quali una persona può essere considerata mobbizzata. Nello studio di Leymann in Svezia, il mobbing venne definito come un’esposizione settimanale o più ad almeno un comportamento o un’azione negativa per un periodo di almeno sei mesi.

Mentre l’approccio soggettivo accetta per sua natura più flessibilità nell’applicazione dei criteri (Hoel, Cooper e Faragher, 2001), i punti di forza dell’approccio oggettivo risiedono nell’affidabilità, poiché i rispondenti non necessitano di giudicare se sono o non sono stati soggetti a mobbing (Salin, 2001), e nella possibilità di fare confronti (Hoel, Cooper e Faragher, 2001). Dall’altra parte, però, esso non riesce a differenziare quelle situazioni che i rispondenti possono tollerare e quelle che non possono (Salin, 2001). Inoltre, non è presa in considerazione la possibilità di difesa da parte dei soggetti stessi (Einarsen, 1996, in Salin 2001) e non tutte le possibili tecniche mobbizzanti sono necessariamente incluse nella lista (Neuberger, 1999 in Salin, 2001), portando la determinazione delle vittime ad essere una funzione degli atti negativi scelti nella costruzione del questionario (Notelaers, Einarsen, De Witte e Vermunt, 2006).

 

Negli ultimi anni sta comparendo in letteratura un metodo alternativo di classificazione operazionale per la determinazione delle vittime di mobbing. Esso utilizza un’analisi statistica mai utilizzata nell’approccio del fenomeno (e, a commento degli autori (Notelaers et al., 2006), neanche nella ricerca in psicologia delle organizzazioni, del lavoro e del personale): la latent class cluster analysis (LC). L’assunto di base è la considerazione dell’esistenza di un solo gruppo, nel quale vengono trovate tante classi fino a quando il modello non ha statisticamente un fit coi dati. Nel mobbing, la LC è basata sulle risposte date ad una lista di comportamenti negativi di un questionario/ inventario preposto alla rilevazione del fenomeno e distingue differenti gruppi di soggetti secondo al livello e alla natura della loro esposizione al fenomeno (ibidem).

Le ricerche che si propongono di valutare in maniera standardizzata ed oggettiva la presenza del mobbing nei contesti lavorativi non hanno a tutt’oggi sviluppato metodologie di valutazione pienamente condivise e accettate (Argentero, Zanaletti e Bonfiglio, 2004).

 

I principali questionari d’indagine utilizzati per individuare le azioni esercitate nel corso del mobbing sono:

  • ­Leymann Inventory of Psychological Terrorism (LIPT).

Considerato il precursore di tutti i questionari di mobbing, il LIPT fu sviluppato da Leymann, che lo utilizzò non solo per stabilire la frequenza con cui il mobbing si verifica, ma anche per discriminare tra impiegati mobbizzati e non mobbizzati. Esso consiste di 45 azioni mobbizzanti suddivise in cinque categorie:

  1. attacchi alla personalità;
  2. 2) attacchi alle relazioni sociali;
  3. 3) attacchi all’immagine sociale;
  4. attacchi alla qualità della situazione professionale;
  5. attacchi alla salute.

Ogni item viene valutato dal soggetto in base alla frequenza con cui si verifica il comportamento considerato e le scale utilizzate variano dai tre ai sei punti (secondo le diverse versioni del questionario) (Argentero, Zanaletti e Bonfiglio, 2004). Ege ha condotto una ricerca sul mobbing in Italia, utilizzando una versione del LIPT tradotto in italiano e integrando la sezione definita “altre azioni nei suoi confronti” con il contributo di Zapf. In seguito, Ege ha apportato ulteriori modifiche e integrazioni al LIPT sino a proporre una nuova versione del questionario denominata “LIPT Ege”, da utilizzarsi all’interno di una procedura definita “analisi di caso del mobbing”  (Argentero, Zanaletti e Bonfiglio, 2004).

  • ­ Work Harassment Scale (WHS).

Sviluppata da Bjorkqvist et al. (1994), fu designata per lo studio del mobbing nella popolazione universitaria (Moreno-Jeménez, Rodríguez-Muñoz, Martínez-Gamarra e Gálvez-Herrer, 2007). Il questionario è composto da 24 item (con risposta su scala Likert da 0 a 4) indicanti una serie di comportamenti che devono essere stati sperimentati come molestie ripetute e non come azioni manifestate in circostanza eccezionale. L’analisi fattoriale condotta dagli autori individuano due sottoscale che hanno definito rispettivamente aggressione razionale e manipolazione sociale (Bjorkqvist et al., 1994 in Maier, 2003). La consistenza interno dello strumento è di 0.95 (Moreno-Jeménez, Rodríguez-Muñoz, Martínez-Gamarra e Gálvez-Herrer, 2007).

  • Bergen Bullying Index.

Rappresenta una parte di un questionario più ampio che è stato utilizzato nell’ambito di una delle primissime ricerche sul mobbing svolta da Einarsen e colleghi. Esso è una misura delle potenziali conseguenze del mobbing e delle molestie a livello sia individuale che organizzativo. Esso è costituito da cinque item (Argentero, Zanaletti e Bonfiglio, 2004) con risposte su scale Likert a 4 punti e offre un’alta consistenza interna (.86) (Moreno-Jeménez, Rodríguez-Muñoz, Martínez-Gamarra e Gálvez-Herrer, 2007). Gli item indagano il grado in cui il mobbing viene vissuto come un problema riguardante il proprio ambiente di lavoro (Maier, 2003).

  • Negative Acts Questionnaire.

Questo questionario sembra essere quello tra i più utilizzati nella ricerca sul mobbing e numerose versioni sono state messe a punto in vari paesi del mondo. Sviluppato inizialmente da Einarsen e successivamente rivisitato da Einarsen e Raknes (nel 1997), nella sua forma originaria contava di 22 azioni per ognuna delle quali si chiedeva al soggetto di rispondere quanto spesso negli ultimi sei mesi riteneva di averle subite. In nessuno degli item che compongono il NAQ viene fatto riferimento al termine mobbing, violenza o vessazione al fine di lasciare l’intervistato libero di interpretarne il contenuto senza un’etichetta imposta e vincolante (Maier, 2003).

In Argentero e colleghi (2004) si può leggere come proprio una serie di limitazioni richiedono lo sviluppo di questionari in grado di fornire una valutazione più esaustiva del fenomeno. Gli autori sottolineano infatti come:

  • le azioni mobbizzanti presenti nei questionari non sono esaustive dei varie forme che possono assumere ed inoltre non si manifestano necessariamente allo stesso modo in tutti;
  • ­la risposta data dai soggetti può essere influenzata da come si esprimono gli item (forma positiva versus forma negativa);
  • ­i soggetti sottoposti a molestie tendono a sovrastimare le vittimizzazioni subite.

Visti i punti precedenti, inoltre, gli autori rilevano come nasca l’esigenza di fornire delle descrizioni più accurate del fenomeno che comprendano la maggior parte delle azioni vessatorie che si possono verificare e che queste, in termini di numero di item espressi, siano bilanciate all’interno del questionario nella loro esposizione positiva e negativa. Infine, essi consigliano di utilizzare una misura soggettiva insieme al questionario al fine di evidenziare la discrepanza tra la percezione individuale e gli effettivi comportamenti di mobbing che si sono verificati, oltre ché includere una scala lie utile nelle situazioni nelle quali un soggetto sia interessato ad alterare le risposte.

Bibliografia

Argentero, P., Zanaletti, W., & Bonfiglio, N. S. (2004). Analisi critica dei principali questionari per la valutazione del mobbing. Risorsa Uomo, 10(2-3), 195-216.

Cowie, H., Naylor, P., Rivers, I., Smith, P. K., & Pereira, B. (2002). Measuring workplace bullying. Aggression and Violent Behavior, 7, 33-51.

Hoel, H., Cooper, C. L., & Faragher, B. (2001). The experience of bullying in Great Britain: The impact of organizational status. European Journal of Work and Organizational Psychology, 10(4), 443-465.

Maier, E. (2003). Il mobbing come fenomeno psicosociale. In Depolo, M. (a cura di). Mobbing: quando la prevenzione è intervento: Aspetti giuridici e psicosociali del fenomeno. Milano: Franco Angeli.

Matthiesen, S. B. (2005). Bullying at work: antecedents and outcomes. PhD Thesis, Departement of Psychological Science, Faculty of Psychology, University of Bergen, Norwey.

Moreno-Jiménez, B., Rodríguez-Muñoz, A., Martínez Gamarra, M., & Gálvez Herrer, M. (2007). Assessing Workplace Bullying: Spanish Validation of a Reduced Version of the Negative Acts Questionnaire. The Spanish Journal of Psychology, 10(2), 449-457.

Notelaers, G., Einarsen, S., De Witte, H., & Vermunt, J. K. (2006). Measuring exposure to bullying at work: The validity and advantages of the latent class cluster approach. Work & Stress, 20(4), 289-302.

Rayner, C. (1997). The Incidence of Workplace Bullying. Journal of Community & Applied Social Psychology, (7), 199-208.

Salin, D. (2001). Prevalence and forms of bullyig among business professionals: A comparison of two different strategies for measuring bullying. European Journal of Work and Organizational Psychology, 10(4), 425-441.

Zapf, D., Einarsen, S., Hoel, H., & Vartia, M. (2003). Empirical findings on bullying in the workplace. In Einarsen, S., Hoel, H., Zapf, D., & Cooper, C. L. (Eds.) (2003). Bullying and Emotional Abuse in the Workplace: International perspectives in research and practice. London: Taylor & Francis.

Zapf, D., & Gross, C. (2001). Conflict escalation and coping with workplace bullying: a replication and extension. European Journal of Work and Organizational Psychology, 10(4), 497-522.

 

Il Mobbing – © Marco Benedetti