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Gaffe e E-reputation

Gaffe e E-reputation

Foto di TeroVesalainen da Pixabay

 

Riassumendo i paragrafi precedenti, la vita sociale si divide in spazi di palcoscenico, di ribalta, spazi pubblici in cui le persone inscenano una precisa rappresentazione e spazi privati di retroscena, dove gli attori si sentono liberi e in cui adottano un comportamento più informale. Accade così che il comportamento pubblico può contraddire quello privato, Goffman cita l’esempio di persone molto sicure sul lavoro che possono mostrare invece grandi debolezze nella vita privata. Naturalmente per evitare quelle che Goffman chiama gaffes, il gruppo di audience non deve mai accedere alle situazioni di retroscena che smentiscono il comportamento pubblico.

Gli individui, sulla scena sociale, interpretano una parte, richiedendo implicitamente agli osservatori di prenderli sul serio. Goffman parla di persona attraverso il concetto di maschera, la quale rappresenta l’Io che ognuno vorrebbe essere, ma che spesso deve impersonare. Il pubblico può essere convinto o meno della parte e l’attore può essere:

  • sincero, se crede nell’impressione che comunica agendo;
  • cinico, se non è convinto della propria routine e non si cura dell’opinione del pubblico, ma non vuol dire che agisca negativamente, perché può anche ingannare il suo pubblico credendo di agire a fin di bene (ci sono attori cinici ai quali il pubblico non permette di essere sinceri).

Ovviamente, ci sono momenti di transizione tra sincerità e cinismo, in cui l’attore tenta di indurre al pubblico a un giudizio su di lui, ma allo stesso tempo dubita della validità di questo giudizio o di meritarlo, fino a una sorta di auto-illusione.

Il Web più che agevolare la spudoratezza e l’esibizionismo del sé, amplifica le occasioni di imbarazzo a causa della facilità di circolazione dei contenuti da una pagina personale a un’altra o, addirittura, da un social all’altro.

Le figuracce digitali, imbarazzo e vergogna provocati dalle gaffe sono le circostanze che caratterizzano l’imbarazzo, vero e proprio, che assumono in questo caso sfumature virtuali. Sono questi casi che dimostrano che la vergogna continua ad essere un’emozione  presente nelle dinamiche relazionali, che governa gli ambienti reali e quelli virtuali e che si configura quindi come figuraccia digitale.

I casi di svergogna digitale generano anche effetti di carattere sociale ed identitario. Si collegano al tema della reputazione, da un lato e dell’indignazione, dall’altro. E in questi casi la Rete amplifica l’effetto: i contenuti sono più visibili e disponibili per tutti gli utenti e la figuraccia/gaffe si trasforma in un tormentone digitale, dagli effetti molte volte imprevedibili.

 

 

© Il personal Branding – Marika Fantato

 

 

Ribalta e retroscena in Rete

Ribalta-retroscena in Rete

 

Ribalta e retroscena stanno ad indicare rispettivamente lo spazio della rappresentazione, cioè quando siamo sulla scena e quello dove invece possiamo agire con più disinvoltura, cioè quando siamo da soli, dove non recitiamo.

Per Goffman[1] il retroscena non esiste perchè anche se siamo da soli, ogni parte ha il suo copione, per esempio tolti gli abiti dell’impiegato in ufficio si devono indossare quelli del buon padre e del buon marito. Goffman viene spesso associato a Pirandello, ma a differenza di Pirandello che crede che sotto le maschere c’è personalità, per il sociologo la personalità dell’uomo non esiste e se c’è non influisce.

In Rete possiamo dire che siamo protetti dal monitor del computer che ci fa da barriera e potendo scegliere cosa rendere pubblico, lo spazio di retroscena è molto ampio e protetto e la ribalta permette una rappresentazione del sé molto ben studiata. Frequentando i social network capita molto spesso invece, che il retroscena sparisca del tutto, l’identità si mostri in tutte le sfaccettature anche involontariamente.

In realtà non è proprio così: quando siamo in rete, non sappiamo chi sarà il pubblico della nostra ribalta, per cui tutto quello che di noi esce in rete è appannaggio di situazioni differenti, che possono essere anche in aperto conflitto tra loro. Il retroscena esiste sempre, ma va sempre più in profondità.

Allo stesso tempo la presenza in rete è una situazione che può essere in qualche modo definita: difficilmente faremo uscire il nostro lato più privato, ma dato che non sappiamo chi sta dall’altra parte dello schermo, e non possiamo definire chi leggerà il nostro blog, chi visiterà il nostro profilo Facebook, chi ci seguirà su Twitter, chi guarderà le nostre foto, saremo necessariamente più trasparenti e meno costruiti.

Ecco perché molte applicazioni hanno l’opzione di creare gruppi privati, permettondo così una ridefinizione degli spazi di ribalta e retroscena, e la creazione di aree dove lo stress sociale causato dall’impossibilità di controllare la situazione sia minore.

Tutti i giorni accediamo ai nostri profili sui social network, ci facciamo gli affari altrui, rendiamo pubbliche alcune delle nostre cose, chattiamo con amici e via dicendo.

Tutte queste pratiche sono apparentemente normali, routine per noi, in realtà, in questi luoghi virtuali, al giorno d’oggi, si mischiano molto della nostra vita pubblica e privata. Goffman ha definito come ribalta e retroscena gli spazi dove recitiamo e dobbiamo tenere certi comportamenti e dove si sta “dietro le quinte” e si possono assumere comportamenti più, diciamo, rilassati.

Se ci facciamo caso, vedi Facebook in special modo o Twitter, noteremo che i nostri spazi di ribalta e retroscena vengono messi sempre più a nudo, viene meno il confine tra offline e online: ad esempio vengono pubblicate foto in bagno, quindi ciò che un tempo veniva relegato nel retroscena diventa oggi pubblico/ribalta.

Con l’avvento dei social network si sono moltiplicati i mondi sociali e i contesti di ribalta in cui l’individuo mostra sé stesso agli occhi degli altri. L’aumento delle opportunità di presentare noi stessi insieme alle nuove tecnologie hanno dato vita a un nuovo contesto all’interno del quale diventa abitudinario correggere, manipolare e ritoccare l’immagine di sé affinché si possa apparire migliori. La possibilità di costruire la propria identità, in linea con i valori più enfatizzati in una data società, è una delle trasformazioni più importanti portate da internet.

 

© Il personal Branding – Marika Fantato

 

 

Per Goffman[2] si recita sempre, parla di un sé performante dove nei retroscena la nostra rappresentazione è più informale. Mettiamo in scena tutto perchè tutto fa spettacolo

[1] Goffman E., Il rituale dell’interazione, 1967.

[2]  Goffman E.,  The Presentation of self in everyday life. La vita quotidiana come rappresentazione teatrale,1959.

Deferenza-contegno in Rete

Deferenza-contegno in Rete

Image by PublicDomainPictures from Pixabay

 

Due aspetti sono cruciali nell’interazione sociale secondo Goffman[1]:

  • la deferenza, ossia lo strumento simbolico attraverso il quale l’attore sociale comunica il proprio apprezzamento nei confronti dell’altro o di ciò che l’altro rappresenta. È quell’atteggiamento che esprimiamo attraverso attività cerimoniali che esprimono apprezzamento verso gli altri, questo comportamento può definirsi anche ipocrita, ma non ci interessa perché studiamo il comportamento nel’interazione;
  • il contegno, ossia lo strumento simbolico attraverso il quale l’attore sociale dimostra agli altri di possedere determinate qualità. È un atteggiamento che si esprime con la postura, l’abbigliamento ecc.. (cerchiamo di dare un’immagine di noi stessi recitando una parte) miriamo a sottolineare la nostra dignità e adeguatezza alla situazione. Se invadiamo un self rompiamo l’applicazione delle norme.

La deferenza si dimostra anche con il rispetto delle aspettative di intimità e/o distanza dalla sfera di intimità: la prossemica[2]. Solitamente più cresce lo status sociale e più aumenta la distanza da tenere nei confronti dell’altro; un’indebita invasione della sfera di intimità equivale ad una squalificazione. L’accesso alla sfera intima dell’altro può giustificarsi solo con relazioni di familiarità oppure per esigenze tecniche (asimmetria). Deferenza e contegno, nella realtà concreta, si intrecciano costantemente. Comportandosi con contegno si guadagna deferenza, ma la mancanza di deferenza da parte di altri non giustifica l’abbandono del proprio contegno. Ciò che è deferente in una società può non rispettare le regole del contegno in un’altra..

Nella Rete, secondo ciò che dice Goffman[3], ci sono quindi delle norme che preservano l’interazione e ci permettono di capire chi abbiamo di fronte. Nei profili che abbiamo nei social network e nei blog possiamo associare la deferenza al modo in cui le persone assumono sicurezza e fiducia esprimendo apprezzamento nei confronti degli altri utenti della rete attraverso i “rituali di discrezione”, volti a mantenere intatte le sfere ideali e private degli individui ed i “rituali di presentazione”, utili per onorare gli individui tramite post, saluti, complimenti con i like.

Il contegno indica il modo in cui la gente presenta sé stessa come affidabile e credibile, come individui su cui proiettare aspettative e dare fiducia, pratica utile per presentare al meglio il Personal Brand.

 

 

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[1] Goffman E., Il rituale dell’interazione, 1967.

[2]   La prossemica è una disciplina che studia che cosa siano lo spazio personale e sociale e come l’uomo li percepisce. La comunicazione non verbale in Internet tende, sia pur progressivamente, a modificare le precedenti acquisizioni mentali generate dalla comunicazione interpersonale attuata in condizioni di vicinanza. Internet tende ad annullare le distanze fisiche e mentali, liberando l’individuo dalle coercizioni dipendenti e dalle componenti prossemiche piu’ proprie delle comunicazione faccia a faccia.

[3]  Goffman E., The Presentation of Self in Everyday Life. La vita quotidiana come rappresentazione, Garden City: Doubleday, 1959.

Identità virtuale o digitale

Identità virtuale o digitale?

Definire virtuale la propria presenza sui Social Netwok (Identità virtuale o digitale) e, conseguentemente, le dinamiche che nascono, deresponsabilizza l’utente dall’essere consapevole ed autentico in quello che dice: condivide online perchè è solo virtuale. Ma nel web sociale non è così, anche se attraverso un filtro digitale ci si relaziona con persone vere che potrebbero essere ferite, offese, risentirsi o al contrario essere lusingate, gioire e provare empatia per quello che facciamo in Rete, è quel prefisso “social” che ce lo deve ricordare sempre.

Per il Personal Branding, poi, questa distinzione è fondamentale per rispettare quel principio di coerenza che è alla base del successo personale e professionale.

Non possiamo considerare la nostra presenza sui social network come qualcosa di diverso da quello che siamo e che vogliamo comunicare in tutti gli altri ambiti della vita, se lo scopo prefissato è farsi riconoscere ed emergere grazie alle caratteristiche che ci rendono unici; e non possiamo nemmeno pubblicare conoscenze e abilità che non abbiamo se competenza ed affidabilità sono alla base della nostra strategia di personal branding, perché potremmo essere smentiti online e ciò comprometterebbe la nostra reputazione.

In un mondo in cui vita digitale e vita analogica si stanno unendo sempre di più, in cui costruiamo e gestiamo la nostra rete sociale tanto offline quanto online, è fondamentale considerare la nostra identità digitale parte integrante di quello che siamo e che gli altri percepiscono di noi.

 

 

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Caratteristiche dell’identità e della comunicazione online

Caratteristiche dell’identità e della comunicazione online

Ciò che caratterizza gli ambienti virtuali e influiscono sulle modalità di comunicazione del sé possono essere:

  • l’anonimato, che si esplica nella possibilità di nascondere o modificare la propria identità. Tale condizione offre l’opportunità di sentirsi più disinibiti, meno vulnerabili, meno soggetti a giudizi altrui e di distanziarsi da sé stessi, guardandosi dall’esterno come spettatori del proprio sé messo in scena. E’ una sorta di presa di distanza da sé stessi, dalle parti di sé che si rappresentano, come se non fossero veramente le proprie;
  • la non visibilità: relazionarsi da dietro un monitor contribuisce a creare un clima di maggiore libertà espressiva, anche se questo, in alcuni casi, può creare un clima di incertezza, di ambiguità, di sfiducia, di sospetto;
  • la possibile mancanza di sincronicità: alcune forme di comunicazione, quali ad esempio le e-mail, offrono la possibilità di adattare a sé stessi i tempi di risposta. Ognuno può avere i suoi tempi di lettura, risposta, riflessione, possono dare risposte affrettate, impulsive che possono portare a pentirsi e quindi non essere in sincronia;
  • l’abbattimento delle differenze sociali: l’assenza di indizi visivi che possono indicare l’età, il sesso, lo status socioeconomico, l’abitudine diffusa a darsi del tu, la mancanza di un potere centrale all’interno della Rete, possono contribuire a ridurre le distanze sociali che non si annullano del tutto, ma si rimodellano in un nuovo assetto che si basa sull’esperienza dell’uso della Rete, sulle competenze in un particolare settore di discussione e sulle abilità di espressione per iscritto.

 

 

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Identità online-offline

Identità online-offline

 

L’immagine che le altre persone possiedono di noi non è altro che il riflesso che ciascun individuo vuole fornire al mondo sociale. Sostanzialmente quindi, ciascuna persona costruisce la propria identità sociale che mostra agli altri membri della società di riferimento, in base al modo in cui vuole apparire e vincolati dalle aspettative che gli altri nutrono su di noi.

Grazie ai media digitali e in particolare ai social media, le persone costruiscono sempre di più un’identità online che si affianca all’identità e alla reputazione offline.

L’identità personale si costruisce con i contenuti che le persone pubblicano direttamente nei profili nei social media o nei siti personali e si completa con i contenuti e le opinioni che altri utenti condividono online, pubblicamente o in forma anonima.

Proprio come avviene per le aziende, la qualità della reputazione personale che emerge, per esempio, da una ricerca per nome e cognome su Google, influenza le opportunità di lavoro, di collaborazioni professionali e di relazioni interpersonali. Per questo è importante monitorare e costruire una solida identità personale in Rete, attraverso una specifica attività di personal branding.

Con il personal branding si comunica in modo strategico l’identità di una persona, applicando gli stessi principi utilizzati per comunicare un brand aziendale. L’attenzione al personal branding quindi è fondamentale nei casi di diffamazione o di diffusione di falsità online.

La costruzione dell’identità online presenta alcune caratteristiche molto interessanti, che in parte la differenziano dai processi di costruzione dell’identità offline in termini sociali.

Online l’utente ha la possibilità di fare una scelta, ovvero può scegliere chi è e cosa lo caratterizza in modo più arbitrario rispetto al mondo offline, nel quale deve fare i conti con caratteristiche che non può cambiare e con dinamiche sociali e relazionali diverse. Nella sfera online l’assenza di una comunicazione non verbale (gestualità, prossemica, mimica facciale) impedisce l’esecuzione di un atto interamente involontario. Quest’assenza viene sostituita dalla presenza dei cosiddetti “smile =)”, che manifestano la comunicazione non verbale contestualizzandola con espressioni analoghe alla mimica facciale, utili nella comunicazione. Ma  questi non evitano fraintendimenti.

Il Web 2.0, ha trasformato gli utenti della Rete da consumatori in users, ovvero produttori e consumatori allo stesso tempo. Con il World Wide Web, l’identità corrispondeva all’anonimato perchè si accedeva alla Rete con un nickname caratterizzante, che quasi mai era riconducibile all’identità offline. La nascita prima dei blog, e poi della piattaforma Facebook invece, ha quasi interamente annullato questa linea di confine fra la vita online e la vita offline, portando il nome “reale” al centro della dinamica online, mescolando le due realtà, che ora tendono a sovrapporsi e a confondersi.

Facebook in particolare ha portato al cambiamento dell’identità intesa come “il Sé”. Il risultato è quindi quello di una realizzazione di un processo sociale che sembra collettivo, ma in realtà è individuale:

“Il ruolo più importante di Internet nella strutturazione delle relazioni sociali è il suo contributo al nuovo modello di socialità basato sul’individualismo. (…) Così non è Internet a creare un modello di individualismo in rete, ma è lo sviluppo di Internet a fornire un supporto materiale adeguato per la diffusione dell’individualismo come forma dominante di socialità. (…) L’individualismo in rete è un modello sociale, non una raccolta di individui isolati.” [1]

Fra le tante definizioni sociologiche, forse quella che si avvicina di più al concetto di identità qui descritto è quella di performatività, in analogia con la ribalta del sé (Goffman)[2] e in similitudine con la performance artistica. Spesso infatti, la costruzione dell’identità online coincide con una esposizione della migliore immagine che riusciamo a creare di noi stessi.

A tale proposito possiamo collegarci alla piattaforma Second Life: qui l’identità è interamente costruita ex novo, in un sistema fittizio di interazioni che simula in tutto e per tutto la vita reale, coinvolgendo nell’ambito della costruzione dell’identità online anche il problema dell’arbitrarietà del corpo in quanto tale, grazie alla possibilità di scegliere arbitrariamente le caratteristiche fisiche del proprio avatar e vivere, con il “nuovo” sé, una vita in tutto e per tutto simile a quella quotidiana, per la confusione totale e definitiva della dicotomia online-offline, reale-virtuale.

[1]   Castells, M., Internet Galaxy, Oxford: Oxford University Press, 2001 pp.129-130.

[2]   Goffman E., sociologo canadese, The Presentation of Self in Everyday Life. La vita quotidiana come rappresentazione, Garden City: Doubleday, 1959.

 

 

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Personal Branding come oggettivazione di sé stessi in prodotto/brand

Personal Branding come oggettivazione di sé stessi in prodotto/brand?

 

Non dobbiamo pensare di metterci nei panni di un paio di scarpe o in quelli di succo di frutta, ma cercare di valorizzare i punti di forza e le unicità che abbiamo, consapevoli dell’effetto che hanno nella mente degli altri.

Un brand non è un grande marchio, ma è l’effetto e la percezione del grande marchio nella testa dei consumatori.

Viviamo in una società dell’immagine e siamo spesso disposti a rinnovare la nostra fiducia in prodotti più costosi dietro la promessa di valore che ci offre un marchio. Dobbiamo quindi sfruttare a nostro vantaggio caratteristiche e ideali che associamo alla nostra persona.

Di fatto la pratica di valutare e di etichettare una persona sulla base della prima impressione, fa parte delle abitudini di comportamento che  da sempre abbiamo, insite nella nostra cultura. Ma il personal branding non deve per forza portare alla spersonalizzazione e all’oggettivazione di noi stessi: tutti hanno un proprio marchio e ogni persona viene definita dagli interlocutori. Basti pensare ai soprannomi legati a qualità e caratteristiche personali. L’importante è riuscire a delineare il nostro brand prima che lo facciano gli altri per noi.

Assieme alla qualità dei contenuti e degli scambi serve costanza, probabilmente l’elemento più difficile per mantenere il proprio brand personale.

Di fondo ci deve essere un interesse reale dietro la scelta, la quale porterà a creare la strategia di promozione del brand: un blog, un account su LinkedIn o su altri social network, un profilo su Twitter, che può essere funzionale al nostro marchio.

La semplice presenza non è sufficiente a conquistare visibilità online: occorre partecipare in maniera attiva, portando valore alla Rete attraverso contenuti e commenti, cercando il dialogo con altre persone interessate e dalle quali spesso può nascere uno scambio costruttivo. Non si tratta di fare promozione in maniera tradizionale, ma di entrare in relazione e cercare un modo per aiutare realmente gli altri.

Se l’immagine personale è la somma dei tratti fisici, del corpo e dell’abbigliamento, il personal branding è la somma degli elementi interiori e intangibili, ed è per questo che se un personal brand è fatto in maniera coerente e costruttiva a livello professionale non cade nell’oggettivazione dell’individuo.

 

 

© Il personal Branding – Marika Fantato

 

Personal Branding in Italia ricerca di Viadeo

Il Personal Branding in Italia: ricerca di Viadeo

In Italia il concetto di Personal Brand è ancora poco conosciuto, molti intorno a questo concetto creano confusione e contraddizioni, non sapendo che il Personal Branding non comprende solo la cura della persona, ma è un percorso da intraprendere, che parte dall’analisi delle caratteristiche individuali e sviluppa la progettazione di un piano strategico di marketing e comunicazione, volto a promuovere capacità, competenze per garantire un vantaggio competitivo della persona.

In una ricerca curata da Ambito 5, agenzia specializzata in strategie di social media e di engagement nel Web 2.0, in collaborazione con Viadeo[1], uno dei più importanti social network professionali, effettuata a Settembre 2011 su 23 opinion leader e blogger si mette in evidenza quanta confusione ci sia intorno al concetto di Personal Branding in Italia:

  • il 39% degli intervistati pensa che il Personal Branding sia un lavoro
  • il 28% una sfida
  • il 17% una disciplina da studiare
  • il 13% una definizione usata a sproposito
  • il 3% pensa che sia altro

Figura 2. Ricerca Viadeo.

I risultati della ricerca inoltre ribadiscono l’importanza di avere un’ottima reputazione online, di comunicare in modo efficace le proprie competenze e di creare un network di relazioni affidabili. Per i 23 blogger, il personal branding funziona:

  • il 78% degli intervistati crede che i blogger italiani non siano abbastanza attenti

al loro personal branding;

  • il 61% degli intervistati ritiene che una buona reputazione online (web reputation) sia un fattore fondamentale per un blogger;
  • il 61% degli intervistati indica che il personal branding è decisamente utile per trovare lavoro;
  • il 65% degli intervistati afferma che il personal branding è determinante nell’aiutare le aziende a valutare i candidati.

La ricerca evidenzia inoltre che il personal branding è molto efficace per:

  • aumentare le proprie opportunità di crescita professionale;
  • avere più visibilità e credibilità nel proprio settore;
  • allargare il proprio network di conoscenze;
  • ottenere vantaggi nei rapporti con i brand e con le aziende.

Concludendo, dai dati di questa ricerca risulta quindi che il tema del Personal Brand è ancora poco trattato e conosciuto in Italia e che numerose sono le persone che, pur conoscendolo, lo accostano a concetti diversi. Da notare il fatto che comunque tutte le risposte, nonostante non rispecchino la definizione corretta, possano essere riconducibili al tema: per i soggetti che mirano a differenziarsi e mostrare i propri valori aggiunti è sicuramente una sfida e in quanto processo e strumento analitico-strategico è da ritenersi una disciplina da studiare.

Il Personal Branding è uno strumento davvero utile per differenziarci dagli altri e per mettere in risalto le nostre competenze ed esperienze, è un modo efficace per far percepire agli altri tutta la nostra unicità, ma allo stesso tempo è un tema che deve essere ancora ampliamente trattato in Italia e bisogna inoltre dimostrarne la validità in quanto strategia ormai praticamente indispensabile per chi opera e vuole posizionarsi al meglio nel mercato del lavoro, soprattutto in una società sempre più attenta alle dinamiche del web 2.0.

 

 

© Il personal Branding – Marika Fantato

 

[1]   Ricerca tratta dall’articolo di Sorchiotti T. Il Personal Branding secondo Viadeo e gli esperti italiani disponibile all’indirizzo: http://www.personalbranding.it/tag/viadeo/

Cosa non è il Personal Branding

Cosa non è il Personal Branding

Dopo aver definito cos’è il fenomeno del personal branding, è bene chiarire gli errori più comuni nella definizione di tale fenomeno.

Luigi Centenaro[1] ha individuato 4  miti sul personal branding che vale la pena sfatare.

1.Il personal branding è quello che diciamo noi di noi stessi.

Le persone tendono a fidarsi molto di più delle esperienze e dei racconti dei clienti precedenti che delle dichiarazioni autopromozionali. In generale, le opinioni spontanee sono molto più efficaci di qualsiasi cosa possiamo affermare sui nostri servizi o prodotti. Il personal branding non è uno status che possiamo chiedere, ma ci viene conferito dagli altri sulla base della nostra comunicazione.

2.Fare personal branding significa dare un’immagine esagerata o falsa di sé.

I consumatori moderni non si fanno abbindolare, in Rete infatti è difficile promettere senza mantenere: basta farsi un giro sul web per scovare casi di persone o aziende che hanno ingannato gli utenti rovinandosi così la reputazione.

3.Il personal branding è una questione di ego.

Il termine ego è riconducibile ad un individuo arrogante, scorretto e pieno di sé. In verità tutti abbiamo un ego, ma un buon personal brand lo mette da parte concentrandosi soltanto sullo sviluppo della sua reputazione nel medio e lungo termine: il valore più importante che abbiamo, quello per cui la gente ci conosce ancora prima di stringerci la mano. Nessuno metterebbe in discussione l’importanza della reputazione, ma in qualche modo, per qualcuno, il concetto di personal brand è slegato da esso.

4.Il personal branding è solo per le star.

Le star tengono in considerazione il loro brand più di ogni altra cosa: si differenziano, si rendono visibili e curano nei dettagli la loro comunicazione. Oggi, con internet, le celebrità sono sempre più disponibili ad aprirsi e a rendersi fruibili dai loro fan, guadagnando nuove occasioni per la loro carriera e visibilità. Ma allo stesso tempo, tutti hanno potenzialmente l’opportunità di diventare delle micro-celebrità, aggregando intorno a loro un pubblico che, anche se minimo, può offrire grandi opportunità.

 

 

© Il personal Branding – Marika Fantato

 

 

[1] Centenaro L., Sorchiotti T., Personal Branding. Promuovere se stessi online per creare nuove opportunità, Hoepli, 2013 pp. 21-23