Le vittime dell’ostracismo

Non siamo “Anime Salve”: le vittime dell’ostracismo 

Fabrizio De Andrè con la poesia “Anime Salve” accarezza sommessamente l’idea di una “Bella Solitudine”, per certi versi simile allo spleen dei poeti del Decadentismo: una solitudine pregiata, che fa male ma che fa bene, in sostanza una rarità.

Chi guarda con occhi diversi la solitudine ha una percezione discordante della realtà rispetto a chi la osserva come un male implacabile cui bisogna assolutamente porre rimedio.

Non siamo disposti ad accettare una persona che decide di chiudersi in se stessa perché quanto risulta incomprensibile al genere umano è anche fastidioso, sconveniente.

Si crea una discrasia fra la buona norma e l’apparenza da salvaguardare: se un figlio passa le giornate chiuso in camera non è visto di buon occhio, quel ragazzo va curato immediatamente, sicuramente avrà qualche problema (Zamperini, 2001).

Quanto detto porta ad un’osservazione paradossale: non siamo disposti ad accettare chi ricerca la solitudine ma non ci crea alcun problema relegare le persone in questo stato. Dobbiamo essere vittime, oppure il nostro modo di fare sconveniente non avrebbe senso d’essere.

Questo atteggiamento porta a conseguenze disastrose per quella persona considerata diversa che non piace, non tanto per il suo modo “strano” di essere, ma perché non sappiamo come porvi rimedio.

Se, viceversa, il nostro collega con cui condividiamo l’ufficio è inevitabilmente spinto a rimanere solo, nulla di anomalo risalta agli occhi incerti e frettolosi di colui che, alcune righe sopra, si faceva paladino delle persone considerate diverse.

Non c’è tregua per il lavoratore vessato che, privato delle relazioni sociali aziendali, diventa sempre più un’ombra, una comparsa.

Perdere la propria identità porta a essere visti come “un nessuno” da quella massa di gente che inizialmente accoglie il nuovo arrivato con i migliori auspici; ben presto si renderà conto di essere “uno dei tanti”, che le premesse erano solo una menzogna, che la sofferenza che ora sta vivendo è frutto di una solitudine immeritata esercitata dai potenti e che porta alla vergogna, all’autocommiserazione.

Tutto questo ha un nome: ostracismo.

 

“Si sa, quando un fenomeno viene etichettato cominciano a porsi problemi di definizione” (Zamperini, 2010, p.9). Questo fenomeno sociale risulta difficilmente definibile, non tanto perché non vi siano parole adeguate, il problema sta più nel definire il prima e il dopo che colpisce la vittima ostracizzata.

 

“… persone che vedono aggrediti i loro bisogni fondamentali: il senso di sicurezza, un’identità positiva, l’autoefficacia e i legami interpersonali. Una simile violenza crea nelle vittime uno stato di assedio e di minaccia che pervade ogni interstizio dell’esistenza.” (Zamperini,  2010, p.84)

 

Si parla ancora di vittime perché è facile farlo, intuitivo, una persona che subisce è per forza di cose una vittima: ma le strategie perverse dell’atto ostracizzante non creano solo vittime, fanno in modo tale che quella vittima non venga assolutamente identificata come tale. È il potere dell’isolamento, dell’esclusione.

Lo impariamo sin da bambini: quando veniamo esclusi da un gioco, la sofferenza sperimentata raggiunge livelli inimmaginabili, esperiamo quanto di più angoscioso possa forgiare l’animo umano.

L’ostracizzato, secondo Zamperini, compie un doppio sforzo emotivo: il dispiacere causato dalla non appartenenza ad un élite è solo la conseguenza di un’angoscia ancora più grande, quella provocata dal non essere stati scelti. Quindi esclusi.

Ecco, l’ostracizzato è stato finalmente messo al suo posto e l’ostracizzante è stato assolto. La persona stigmatizzata è stata appena distrutta, esiliata ed emarginata, messa in compagnia di persone come lui risultate inutili al sistema.

Dal punto di vista dei vessatori, i non omologati  hanno in qualche modo scelto di non appartenere al gruppo dei forti: un articolo su internet  dice che arruffianarsi il capo non solo aumenterebbe le possibilità di fare carriera, ma diminuirebbe le possibilità di sperimentare lo stress dovuto all’eventualità di essere esclusi.

Sembra quindi possibile per la persona vessata riuscire a controvertere un destino apparentemente segnato. Zamperini (2010, p.69), riguardo l’atto di rivalsa dello stigmatizzato dice:

 

“benché presidiati da cognizioni, emozioni e azioni, i confini tra i gruppi degli stigmatizzati e degli stigmatizzanti sono quotidianamente violati dai singoli di entrambe le parti, per volontà o necessità. Ma l’incontro appare sovente disturbante. In modo particolare, i cosiddetti normali sono turbati dall’accorgersi che qualcosa non dovrebbe stare dove invece si trova. Per questo, quando viene concesso di oltrepassare la linea divisoria, allo stigmatizzato si chiede comunque di essere e stare con gli altri nel modo con cui questi altri credono egli debba essere e stare. Adeguandosi alla definizione e rimanendo al proprio posto.”

 

Quindi un modo per tornare a galla è pur sempre plausibile, ma il vessato ora accettato è comunque invitato a rimanere in ginocchio. Nulla sembra essere cambiato, ma la percezione della vittima è diversa, forse migliore, sicuramente non è più ridotto a starsene da solo.

L’ostracismo perpetrato sul luogo di lavoro, riconducibile al concetto già noto di mobbing, viene esercitato dal vessatore attraverso il silenzio. È questa l’arma preferita di colui che esilia.

Non percependo parola alcuna da parte del proprio carnefice, l’isolato tenderà a modificare nella sostanza il proprio mondo: svaluterà completamente la propria immagine sociale, la propria autostima ne risentirà poiché qualcuno ha deciso che non valiamo poi così tanto come pensavamo (Zamperini, 2010).

Nei diari delle vittime del mobbing che sono stati letti per poter approfondire questo elaborato, il silenzio si esprime sottoforma di “non detto”. Le parole mancate, che sono poi quelle più ricercate, fanno del lavoratore ostracizzato un essere svilito talvolta amorfo, la cui apatia genera non solo indisposizione da parte dei colleghi e dei capi, ma anche i presupposti per un licenziamento.

Eppure: in molte situazioni sarebbe bastato il confronto sincero, un chiarimento degli obiettivi, un’analisi più attenta della situazione, una parola di conforto.

Troppa fatica: è più facile isolare, emarginare, ostracizzare, togliere dalla strada quei fattori scomodi – donne e uomini – che minano il benessere aziendale.

Einstein (1981), in una lettera scritta a Freud sosteneva che:

 

“Indubbiamente cattivo è colui che, abusando del proprio ruolo di potere e prestigio, commette ingiustizie e violenza a danno dei suoi simili; infinitamente più cattivo è colui che, pur sapendo dell’ingiustizia subita da un suo simile, tacendo, acconsente a che l’ingiustizia venga commessa.” 

 

La guerra silenziosa viene messa in atto tutti i giorni, poco sappiamo del commesso che ci vende quel determinato oggetto: un sorriso di circostanza e un “grazie  e arrivederci” risolvono molte delle nostre relazioni sociali, ma non risolvono una vita di emarginazione e di violenza.

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova