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Fattori di rischio e di protezione sul burnout

Fattori di rischio e di protezione emergenti dalle ricerche sul burnout in diversi ambiti lavorativi

Ripartendo da quanto riportato all’inizio del precedente paragrafo, vale a dire la sindrome di burnout (Maslach, 1982) ed il quadro comportamentale “di Tipo A (Rosenman e Friedman, 1994), sembra che quest’ultimo si trovi più facilmente in ambienti di lavoro molto competitivi, mentre la sindrome di burnout sia più caratteristica delle “professioni di aiuto” (Sibilia, 2010). A tale riguardo, di seguito verranno proposte una serie di ricerche, presenti in letteratura, sul burnout nelle diverse professioni d’aiuto. 

Negli ultimi anni l’interesse scientifico per il fenomeno del burnout è considerevolmente cresciuto. Inizialmente questo fenomeno era stato indagato solo nelle professioni d’aiuto e attribuita quindi alle eccessive richieste associate allo svolgimento di attività che implicano un costante contatto con persone che soffrono (Argentero e Setti, 2008). Nonostante successivamente sia emersa la necessità, di considerarla una sindrome estensibile a qualsiasi tipo di professione, tuttavia la ricerca sul burnout è ancora oggi prevalentemente rivolta alle persone che svolgono professioni d’aiuto, per le quali il rischio oggettivo di sviluppare esiti psicologici negativi a causa del lavoro rimane più elevato (Argentero e Setti, 2008). Una tipologia lavorativa inclusa nelle helping professions è quella degli operatori addetti al soccorso nelle situazioni di emergenza (per esempio incidenti stradali) e di maxi-emergenza (per esempio terremoti e alluvioni) (Argentero e Setti, 2008). A questo proposito, Argentero e Setti (2008) in un loro articolo dichiarano che i poliziotti, i vigili del fuoco e gli operatori addetti al soccorso su ambulanza, appartengono alla categoria degli “highstress occupations” o professioni ad alto stress (Brough, 2004), perché sono testimoni diretti di situazioni inaspettate e altamente stressanti che inevitabilmente incidono sul loro benessere psicofisico (Hodgkinson e Stewart, 1991; Raphael, 1986). Nell’articolo (Argentero e Setti, 2008) si legge che, nello specifico, gli operatori dell’emergenza sono esposti a stressors sia acuti, ovvero eventi particolarmente traumatici quali la morte violenta di persone o la visione di corpi mutilati, sia cronici, ossia condizioni lavorative che sebbene meno violentemente stressanti rispetto alle prime, ripetute con frequenza quotidiana sono comunque in grado di produrre un importante grado di stress (Beaton e Murphy,1993; Brough, 2002; Brown, Fielding, Grover, 1999; Hart e Cotton, 2003).  Inoltre, Argentero e Setti (2008) ritenevano che l’esperienza di situazioni estremamente stressanti costituisca una condizione necessaria, ma non sufficiente, per lo sviluppo di esiti psicologici negativi, quale il burnout, per i quali gli stressors cronici, o organizzativi, risultano un’ulteriore componente fondamentale (McFarlane, 1988; Van der Ploeg, 2003). Per questa ragione, nel loro studio (Argentero e Setti, 2008) decisero di valutare variabili che si collocano all’opposto del burnout, ossia: l’energia, il coinvolgimento e l’efficacia professionale (riferibili rispettivamente alle tre dimensioni del burnout: esaurimento, cinismo ed inefficacia (Leiter e Maslach, 2000). Inoltre, in secondo luogo sono state misurate anche alcune variabili lavorative: Carico di lavoro, Controllo, Riconoscimento, Integrazione Sociale, Equità, Valori (Argentero e Setti, 2008). Il principio di base è quello secondo cui i soggetti che ottengono punteggi più elevati rispetto all’indagine di queste ultime caratteristiche sono anche quelli maggiormente integrati con l’organizzazione di appartenenza, quindi con un livello più elevato di benessere e un minor rischio di sviluppare condizioni patologiche, quale il burnout (Maslach e Leiter, 1997; Argentero e Setti, 2008).

Alla luce di ciò alla ricerca di Argentero e Setti (2008) presero parte da 298 operatori dell’emergenza impiegati nella Provincia di Pavia con ruoli professionali diversi: 83 Addetti al soccorso su Ambulanze, 42 Operatori del 118, 112 Vigili del Fuoco, 61 addetti alle Forze dell’Ordine (Argentero e Setti, 2008). Il campione era prevalentemente costituito da soggetti di genere maschile (86.6%), con età media pari a 38.5 anni e con un’anzianità di servizio tendenzialmente alta, infatti quasi la metà dei soggetti risulta impiegata nel settore dell’emergenza da oltre 13 anni (Argentero e Setti, 2008). La maggiore concentrazione di personale di genere maschile si riscontrava fra i Vigili del Fuoco (99.1%), mentre la più alta percentuale di donne (35.7%) si aveva fra gli Operatori del 118 (Argentero e Setti, 2008). In relazione all’età, i soggetti più giovani (con età pari o minore ai 30 anni) si concentravano soprattutto nella categoria del Personale addetto al soccorso su Ambulanze (26.3%), i soggetti con età intermedia (31-40 anni) si trovavano prevalentemente fra gli Operatori del 118 (66.7%), infine gli operatori con età maggiore (superiore ai 40 anni) erano soprattutto fra i Vigili del Fuoco (46.7%) (Argentero e Setti, 2008). Volendo effettuare lo stesso tipo di confronto fra le diverse categorie professionali in relazione all’anzianità lavorativa, le Forze dell’Ordine presentavano la più alta percentuale di soggetti impegnati nel settore da molti anni (57.6% da oltre 13 anni) (Argentero e Setti, 2008). Lo strumento utilizzato nella ricerca degli Autori (Argentero e Setti, 2008) è la versione italiana (Borgogni, 2005) dell’OCS che sta per Organizational Checkup System (Leiter; Maslach, 2000), nonché un questionario formato da quattro sezioni, ognuna formata da una serie di scale diverse, in particolar modo sono state prese in esame in questo studio la scala “Relazione con il lavoro” e l’“Area di vita lavorativa”. La prima ha permesso di valutare il benessere e la presenza di engagement nei soggetti appartenenti all’organizzazione (Argentero e Setti, 2008). L’area comprendeva complessivamente 16 items, valutati su una scala di risposta Likert a 7 passi (da 0 = mai a 6 = quotidianamente), attraverso i quali venivano indagate le tre specifiche dimensioni del benessere: Energia (5 items), Coinvolgimento (5 items), percezione di Efficacia professionale (6 items) (Argentero e Setti, 2008). Al crescere del punteggio ottenuto dal soggetto nelle tre scale corrisponde una condizione di maggiore benessere personale (al contrario, punteggi bassi sono indicatori della presenza di burnout) (Argentero e Setti, 2008). La seconda parte dell’OCS, ha permesso di indagare sei specifiche caratteristiche lavorative che la ricerca di Argentero e Setti (2008) ha dimostrato essere in grado di influire significativamente sullo stato di benessere individuale (Maslach e Leiter, 1997) in base al fatto che vi sia “armonia” (match) o mancanza di “armonia” (mismatch) fra le caratteristiche dell’individuo e gli aspetti organizzativi (Argentero e Setti, 2008). La seconda parte era formata da 29 items su scala Likert a 5 passi (da 1 = molto in disaccordo a 5 = molto d’accordo) ed indagava: il carico di lavoro (6 items); il controllo (3 items); il riconoscimento (4 items); l’ntegrazione sociale (5 items); l’equità (6 items); i valori (5 items) (Argentero e Setti, 2008).  Più il punteggio era alto migliore era l’integrazione del soggetto nei confronti della struttura di appartenenza, dunque un maggiore fit individuo organizzazione (Argentero e Setti, 2008). 

Per quanto concerne i risultati, i dati sono stati elaborati mediante il programma SPSS versione 13.0 per Windows. Per verificare eventuali differenze statisticamente significative tra le diverse professioni è stata utilizzata l’analisi della varianza univariata (ANOVA) e l’analisi post-hoc condotta con il metodo di Bonferroni.  Gli Autori volendo confrontare in primo luogo le diverse categorie di operatori dell’emergenza rispetto alle sezioni “Relazione con il Lavoro” e “Aree di Vita Lavorativa” dell’OCS, hanno utilizzato l’ANOVA che ha indicato la presenza di differenze statisticamente significative nelle variabili Energia e Coinvolgimento: le Forze dell’Ordine presentavano i punteggi medi più elevati in relazione sia all’energia impiegata sul lavoro  sia al coinvolgimento dimostrato nei confronti della struttura d’appartenenza. Ciò è stato confermato anche dall’analisi posthoc (metodo di Bonferroni), la quale ha messo anche in evidenza come la categoria professionale che si caratterizza, al contrario, per i più bassi livelli di Energia e di Coinvolgimento è quella degli Operatori del 118, per i quali sarebbe dunque più corretto parlare rispettivamente di esaurimento e cinismo, in quanto si è in presenza di una situazione di scarso benessere, dunque di possibile burnout. Dai risultati relativi alla sezione “Aree di Vita Lavorativa”, sono emerse differenze statisticamente significative per quattro variabili su sei. In particolare, l’ANOVA ha indicato la presenza di differenze statisticamente significative nelle variabili Controllo e Integrazione Sociale. L’analisi posthoc (metodo di Bonferroni) ha evidenziato che la categoria professionale con una maggiore percezione di controllo sulle attività svolte e di integrazione sociale nel team era quella dei Vigili del Fuoco, mentre gli Operatori del 118 manifestavano un più scarso controllo e gli addetti alle Forze dell’Ordine si sentivano meno integrati nel gruppo di lavoro (Argentero e Setti, 2008). L’ANOVA ha posto in evidenza una differenza significativa relativamente anche alla scala valori: l’analisi post-hoc ha rivelato un migliore allineamento fra valori individuali e organizzativi per il Personale delle ambulanze e per gli Operatori del 118, mentre il gruppo dei Vigili del Fuoco è quello che si dimostrava meno integrato nei valori della struttura di appartenenza (Argentero e Setti, 2008). Infine, anche rispetto alla variabile Equità, l’ANOVA indicava la presenza di una differenza statisticamente significativa che l’analisi post-hoc ha evidenziato essere a favore delle Forze dell’Ordine.

Secondariamente, in relazione invece al confronto tra le diverse categorie di operatori dell’emergenza rispetto alle variabili socio-anagrafiche, prendendo in esame la variabile genere, l’unica differenza statisticamente significativa posta in evidenza dall’ANOVA riguarda la scala Integrazione sociale, in particolare erano i soggetti di sesso maschile a sentirsi più integrati nel team di lavoro rispetto alle donne. Per la variabile età, il solo dato statisticamente significativo riguardava la dimensione del Controllo: il punteggio medio più elevato si registrava a favore delle persone con età superiore ai 40 anni. Tale risultato è stato ulteriormente confermato dall’ANOVA condotta sulla variabile anzianità lavorativa, per la quale sono i soggetti con una più lunga esperienza nel settore (superiore ai 20 anni) presentavano punteggi medi più alti nella dimensione Controllo. È stata interessante anche la variabile anzianità lavorativa perché, in relazione alla scala “Carico di lavoro” è emerso che: sono i soggetti con un’esperienza nel settore di medio lunga durata, ossia compresa fra i 6-12 anni e fra i 13-20 anni a percepire un minor carico di lavoro, dunque una minore pressione sul posto di lavoro. In conclusione, relativamente alla dimensione dell’Energia, l’ANOVA non ha posto in evidenza l’esistenza di una differenza significativa, tuttavia i dati relativi a tale variabile si distribuiscono secondo una precisa tendenza, simile a quella presentata dai dati relativi alla scala Carico di lavoro: in corrispondenza delle fasce d’anzianità lavorativa più bassa (inferiore a 5 anni) i punteggi medi tendono ad essere piuttosto scarsi, per poi salire sensibilmente e stabilizzarsi in corrispondenza di un’anzianità medio-alta (compresa cioè fra i 6-12 anni e fra i 13-20 anni), per poi abbassarsi nuovamente per i soggetti con una lunghissima esperienza nel settore (superiore ai 20 anni) .

Rapportando i risultati ottenuti ad altre ricerche presenti in letteratura (2008), i due Autori hanno posto in evidenza che il punto medio alto ottenuto dalle Forze dell’ordine nella variabile Energia, è confermato anche da altre ricerche (Kroes, 1988; Toch,2002; Violanti e Paton, 1999). Ancora, in merito alle Forze dell’Ordine, è emerso nella ricerca punteggio maggiore nel Coinvolgimento, sebbene però non sia confermato da altre ricerche, in cui invece si dimostrano generalmente meno coinvolte nel loro lavoro se confrontate con altri operatori impegnati nel settore dell’emergenza (Kop e Euwema, 2001). Si può dunque affermare che, in base ai dati qui presentati relativamente ai costrutti dell’Energia e del Coinvolgimento, le Forze dell’Ordine rappresentano il gruppo professionale esposto in minore misura al rischio di sviluppare burnout; in effetti, alcune altre ricerche confermano questa tendenza: uno studio condotto sulla polizia norvegese (Schaufeli e Buunk, 2002) riporta una frequenza di burnout pari soltanto all’1%, percentuale del tutto sovrapponibile a quella della popolazione generale. Tale dato è attribuibile alla presenza, sul luogo, di un’assistenza psicologica costante offerta agli operatori, aspetto invece ancora tendenzialmente carente nel nostro Paese. Probabilmente un’altra risorsa importante che essi hanno a disposizione è la consapevolezza dell’utilità sociale dell’attività svolta, nonostante le condizioni stressanti, e talora anche personalmente rischiose, che devono essere affrontate. È inoltre ipotizzabile che i soggetti destinati a entrare nelle Forze dell’Ordine, se considerati rispetto alle altre categorie di operatori dell’emergenza, vengano sottoposti a processi di selezione condotti in maniera approfondita, finalizzati cioè a identificare le persone maggiormente in grado di affrontare questo tipo di ruolo professionale, distinguendole da coloro che, per le proprie caratteristiche psicologiche, non riuscirebbero invece a fronteggiare i forti stressor che tale attività implica. 

Un altro aspetto particolarmente interessante emerso dalla ricerca riguarda la percezione di poter esercitare un controllo sulla propria attività e la sensazione di operare in un ambiente caratterizzato da una forte integrazione sociale; a questo proposito i Vigili del Fuoco hanno ottenuto punteggi medi significativamente superiori rispetto a quelli delle altre categorie professionali sia nella scala Controllo sia nella scala Integrazione Sociale. Precedenti ricerche hanno posto in evidenza come la possibilità di percepirsi integrati nel team di lavoro possa costituire un importante fattore protettivo nei confronti del rischio di sviluppare effetti psicologici negativi: è stato, a tale proposito, evidenziato che svolgere la propria attività in maniera operativa sul campo (è il caso dei Vigili del Fuoco inclusi in questo campione) anziché in un contesto d’ufficio, contribuisce ad incrementare la sensazione di appartenenza al gruppo, di integrazione sociale e di sostegno da parte dei colleghi, dunque in ultima istanza la capacità di coping nei confronti degli stressors lavorativi (Corneil et al, 1999). 

Per quanto riguarda il secondo obiettivo della ricerca, relativo al confronto fra i soggetti del campione in base alle variabili socio-anagrafiche (cioè senza riferimento alla categoria professionale d’appartenenza), volendo approfondire i dati dotati di significatività statistica, si è preso in esame il genere: sembra che siano i maschi a presentare una percezione di integrazione sociale superiore a quella delle femmine (tale dato va tuttavia recepito con attenzione in quanto i due gruppi sono numericamente molto diversi). Un ulteriore elemento da porre in evidenza concerne la percezione del controllo, rispetto alla quale si sono rilevate differenze significative sia per la variabile età sia per l’anzianità lavorativa: sono infatti i soggetti più anziani (età superiore ai 40 anni) e quelli con una più lunga esperienza nel settore (oltre 20 anni) ad avere una percezione di maggiore controllo sulle attività svolte. È sembrato dunque evidente che la sensazione di poter esercitare una forma di controllo sui compiti lavorativi quotidiani si sviluppi in seguito ad una lunga esperienza nel ruolo lavorativo, alla quale si accompagna evidentemente un’età anagrafica maggiore. La sensazione di non subire un eccessivo carico di lavoro sembra invece essere migliore per coloro che presentano un’anzianità di servizio di medio-lunga durata (ossia compresa fra 6 e 20 anni), mentre risultati medi significativamente inferiori si registrano per persone con un’anzianità molto breve o, al contrario, molto lunga. È presumibile che nelle fasi iniziali di un’attività particolarmente stressante gli operatori non abbiano ancora sviluppato le strategie di coping necessarie per riuscire a gestire in modo equilibrato i compiti assegnati, elemento che può condurre a percepire un pesante carico di lavoro; analogamente è possibile ipotizzare che, dopo molti anni di esperienza nel settore, e nonostante la presenza di condizioni lavorative sostanzialmente immutate, i professionisti tendano a percepire maggiore carico di lavoro, e di conseguenza a sperimentare un senso di stanchezza, in seguito alle pressioni altamente stressanti ricevute nel corso di un lungo periodo di attività.

In sintesi, il risultato più importante emerso riguarda il diverso livello di benessere presente nelle categorie professionali esaminate: nelle Forze dell’Ordine si sono riscontrati più elevati livelli di Coinvolgimento e di Energia mentre, al contrario, negli Operatori del 118 si è verificata una situazione personale più vicina al burnout. Concludendo, va sottolineato un limite del presente studio, derivante dalla disomogeneità numerica dei gruppi professionali coinvolti; la differente numerosità delle quattro categorie lavorative prese in considerazione può parzialmente limitare la generalizzabilità dei risultati ottenuti.” (Argentero e Setti, 2008).

Un interessante articolo in quest’ambito psicologico è quello di Pietrantoni e colleghi (2003). Gli Autori asserivano nel loro articolo (2003) che negli ultimi trent’anni siano stati realizzati numerosi studi sul burnout in gruppi lavorativi quali infermieri, medici, operatori sociali ed insegnanti, ma il gruppo di lavoro di polizia è stata indagato raramente, sebbene esso non essere semplicemente classificato come helping profession, perchè se gli operatori sociali e sanitari  centrano il loro focus di attenzione suoi vari bisogni dell’essere umano, il poliziotto  orienta il suo focus sulla lex e sul conseguente principio di autorità che ne discende (Pietrantoni e Prati, 2003); ciò rende la sua identità personale e sociale più complessa e articolata (Pietrantoni e Prati, 2003). Kop, Euwema e Schaufeli (1999) hanno fatto riferimento a ricerche dalle quali si deduce che l’esaurimento emozionale e la depersonalizzazione (dimensioni del burnout) siano fortemente correlati ad un diminuito benessere e ad un maggiore atteggiamento cinico nei confronti dei cittadini e della direzione. Dalla loro ricerca (Kop, Euwema e Schaufeli, 1999) emerse che i poliziotti con una certa esperienza di lavoro (16-25 anni di carriera) ottenevano alti punteggi nelle dimensioni presentate prima. Inoltre, non riscontrarono differenze significative fra il livello di burnout misurato negli agenti di Polizia e quello di altri lavoratori «a rischio» (infermieri, medici, operatori sociali, insegnanti) (Kop, Euwema e Schaufeli, 1999). Gli Autori, nel tentativo di spiegare questo fenomeno, diedero una triplice spiegazione (Pietrantoni e Prati,2003). La prima riguardava il fatto che il lavoro in Polizia non è così stressante come spesso viene ideato dall’opinione pubblica: gli agenti di Polizia hanno tempi maggiori per recuperare in seguito a eventi stressanti e il lavoro in Polizia comprende anche lavoro d’ufficio, quindi non c’è sempre un contatto diretto con le persone (Pietrantoni e Prati, 2003). La seconda si riferiva all’effetto selezione: i poliziotti vengono selezionati in base alla resistenza allo stress, quindi tra chi è più predisposto a gestire efficacemente le situazioni difficili (Pietrantoni e Prati, 2003). La terza riguarda la cultura in Polizia, spesso descritta attraverso norme che valorizzano la conformità al ruolo di genere maschile, e quindi incoraggia l’occultamento di problemi emozionali, quindi questa mancata differenza tra poliziotti e altre categorie lavorative sarebbe dovuta alle risposte falsate ai questionari date dai poliziotti che non vogliono ammettere i propri problemi emotivi (Pietrantoni e Prati, 2003). 

A questo proposito si tira in ballo uno studio sulla polizia penitenziaria condotto da Gabriele Prati e Sara Boldrin (2011).  Gli Autori (Prati e Boldrin, 2011) hanno riscontrato che nella letteratura scientifica sugli operatori penitenziari la maggioranza degli studi si è concentrata sugli aspetti organizzativi, ad esempio: rapporto con i superiori, carico del lavoro, conflitto di ruolo, conflitto casa-lavoro e percezione di sicurezza (Schaufeli e Peeters, 2000; Dowden e Tellier, 2004). Kommer (1990) ha riportato che circa il 70% degli operatori di Polizia Penitenziaria presentava un notevole affaticamento per via del sovraccarico di lavoro: dovevano svolgere molti incarichi in poco tempo, con periodi di riposo brevi e dovevano eseguire compiti differenti simultaneamente. Un altro fattore che può provocare un forte stress nei poliziotti penitenziari è l’ambiguità che caratterizza il loro ruolo: da un lato, infatti, devono sorvegliare, mentre dall’altro devono rieducare (Prati e Boldrin, 2011). Alcuni studi (Cheeck e Miller,1983; Tewksbury e Higgins, 2006) hanno messo in luce che il conflitto tra queste due funzioni è fortemente correlato con lo stress. Il contatto diretto con la popolazione reclusa è un altro fattore (Poole e Regoli,1981): esiste infatti una relazione positiva tra lo stress lavorativo e la percentuale di tempo passato a contatto diretto con i detenuti (Schaufeli e Peeters, 2000; Moon e Maxwell, 2004). Pertanto, il burnout è uno dei temi più investigati nel lavoro in polizia penitenziaria, assieme al benessere psicologico o di morbilità psichiatrica (Schaufeli e Peeters, 2000). Lo scopo della ricerca di Prati e Boldrin (2011) pertanto è stato quello di indagare i fattori di rischio per la salute psicologica e per il burnout nel lavoro in polizia penitenziaria. In particolare, le domande che gli Autori (Prati e Boldrin, 2011) si sono posti erano: 

  • “Quali sono i maggiori fattori di stress lavorativo che possono associarsi, negli operatori di polizia penitenziaria, a burnout e benessere psicologico?
  • Incidono in misura maggiore i fattori organizzativi o gli eventi critici di servizio?” (Prati e Boldrin, 2011).

 

Di seguito verrà riportata integralmente la redazione di ricerca di Prati e Boldrin (2011).

“La ricerca si è svolta in quattro carceri piemontesi (Torino, Novara, Biella e Verbania); si è scelto di utilizzare quale strumento di raccolta dati un questionario costruito appositamente mediante interviste riguardanti tematiche inerenti il lavoro di polizia penitenziaria. Per la somministrazione del questionario si è chiesta e ottenuta un’autorizzazione da parte del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte. Prima di ottenere questa autorizzazione il questionario è stato visionato, oltre che dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte, anche dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con sede a Roma, per controllare le tipologie di domande che vi erano state inserite. Ricevuta l’autorizzazione, si è proceduto a contattare telefonicamente i singoli istituti per prendere accordi sul giorno e sull’orario in cui si sarebbero potuti consegnare i questionari. La ricerca è avvenuta nel periodo tra gennaio e febbraio 2010. I questionari erano anonimi e, dopo la loro compilazione sono stati inseriti in una busta chiusa e sono stati consegnati direttamente a uno degli autori del presente studio. I questionari distribuiti nelle quattro carceri prese in esame sono stati 500; ne sono stati consegnati 50 alla Casa Circondariale di Verbania, 100 alla Casa Circondariale di Biella, 120 alla Casa Circondariale di Novara e 230 alla Casa Circondariale di Torino.

Il questionario utilizzato per la ricerca è suddiviso in tre sezioni. Le istruzioni necessarie per la compilazione, che si trovano nella prima facciata, sono seguite dalla sezione in cui si indagano gli stressor connessi al lavoro in un istituto penitenziario. Le affermazioni e le domande riguardano principalmente i possibili eventi stressanti relativi ad aspetti organizzativi ed eventi critici di servizio vissuti personalmente dai rispondenti negli ultimi sei mesi, quali ad esempio le offese, le minacce e le aggressioni fisiche da parte di un detenuto. Per rilevare gli stressor organizzativi, si sono create affermazioni alle quali i partecipanti potevano rispondere esprimendo il loro accordo, da -3 (totalmente in disaccordo) a +3 (totalmente d’accordo). Per rilevare il grado di esposizione a eventi critici di servizio si è posta agli operatori la seguente domanda “Negli ultimi sei mesi quante volte ha vissuto personalmente gli eventi seguenti”, presentando successivamente gli specifici eventi che potevano rispondere indicando la frequenza da “mai” a “ogni giorno”. La sezione successiva comprende la versione a 12 item del General Health Questionnaire (Piccinelli et al., 1993), in base al quale ad alti punteggi corrisponde un basso benessere.

Nell’ultima sezione si trova la versione italiana della scala a 16 item del Maslach Burnout Inventory-General Survey (Borgogni et al. ,2005), finalizzata proprio a indagare tale sindrome suddivisa in tre sottoscale: l’esaurimento emotivo, la realizzazione personale e la depersonalizzazione. Ad alti punteggi nelle tre sottoscale corrispondono elevato esaurimento emotivo, elevata realizzazione personale ed elevata depersonalizzazione.

Infine, nell’ultima parte del questionario, si sono raccolte le informazioni generali sull’operatore quali l’anno di nascita, il genere, la qualifica, etc. 

I partecipanti a questa ricerca sono stati 188. La maggioranza delle persone che hanno aderito a essa sono di sesso maschile, infatti hanno risposto al questionario 138 uomini e 33 donne. L’età media è di 38.6 anni. Riguardo al titolo di studio, 81 partecipanti sono in possesso del diploma di scuola media inferiore, altri 81 hanno il diploma di scuola media superiore, 7 sono laureati ed uno ha conseguito la scuola elementare. Si sono poi suddivise le diverse qualifiche ricoperte dagli operatori di Polizia Penitenziaria in quattro gruppi: il primo, che comprende agenti, agenti scelti, assistenti e assistenti capo è il più numeroso ed è composto da 153 rispondenti; il secondo, che include vice sovrintendenti, sovrintendenti e sovrintendenti capo è molto meno numeroso rispetto al precedente e include 12 persone; il terzo, composto da vice ispettori, ispettori, ispettori capo, ispettori superiori, comprende 8 partecipanti; infine, il quarto, composto da vice commissari, commissari, commissari capo e commissari coordinatori contiene 3 rispondenti. L’anzianità di servizio andava da un minimo di 4 mesi ad un massimo di 33 anni. Solitamente il lavoro in carcere è scandito da diversi turni, ma non tutti i rispondenti ne sono soggetti; 148 persone svolgono un lavoro che prevede prevalentemente turnazioni, ma altre 30 mantengono sempre lo stesso orario. Infine è stata indagata la percentuale di tempo passata a contatto diretto con i detenuti, durante il proprio turno di lavoro. La maggioranza, ovvero 75 persone ha risposto che la percentuale di tempo passata con la popolazione reclusa è del 100%.”  (Prati e Boldrin, 2011).

 

Di seguito vengono inserite le conclusioni dello studio di Prati e Boldrin (2011).

 

“Lo scopo del presente studio era quello di mettere in relazione fattori di stress organizzativi ed eventi critici di servizio con misure di benessere organizzativo tra operatori di Polizia Penitenziaria. Dai risultati emerge che i fattori che possono causare maggiormente la sindrome di burnout negli operatori di Polizia Penitenziaria sono legati all’organizzazione carceraria. I fattori individuali, invece, come ad esempio il genere, l’età e l’anzianità di servizio non hanno presentato correlazioni significative con tale sindrome, confermando così le ricerche di Hurst e Hurst (1997) e di Triplett e Mullings (1996). Diversamente da quanto emerge da studi internazionali (Pietrantoni et al., 2003; Moon e Maxwell, 2004), la sindrome di burnout non è correlata positivamente con l’elevata percentuale di tempo passato a contatto diretto con i detenuti. Questo conferma,invece, la ricerca di Petitta, Rinaldi e Manno (2009), in cui si nota che gli operatori che lavorano a stretto contatto con i reclusi e coloro che non si relazionano ad essi presentano statisticamente gli stessi livelli di burnout. È possibile, pertanto, che il livello di benessere organizzativo degli operatori di polizia penitenziaria dipenda quindi non dalla quantità di tempo passato con i detenuti ma da come e in quale contesto ci si relaziona con essi.

Ne deriva che una parte della spiegazione tra rapporto con i detenuti e benessere organizzativo dipenda dai fattori di stress lavorativo e dalla frequenza di eventi critici di servizio. In generale i risultati di questo studio hanno mostrato che fattori organizzativi ed esposizione a eventi critici di servizio possono avere relazioni di media o moderata entità con misure di benessere organizzativo. Le condizioni o gli stressor organizzativi che hanno presentato un’elevata correlazione con il burnout sono stati diversi. Gli stressor maggiormente riportati come presenti all’interno dei quattro contesti presi in esame, come ad esempio, il sovraffollamento, il rapporto con i detenuti stranieri e la carenza di personale, non sono gli stessi che hanno presentato un’elevata correlazione con le tre sottoscale del burnout e il GHQ. Il sovraffollamento, quindi, in questi contesti non è legato a tale sindrome, a conferma di quanto è emerso nella ricerca di Grasso e Clementi (2006).

L’esaurimento emotivo è legato soprattutto alle conseguenze negative che il proprio lavoro può provocare nei rapporti sociali, alla pesantezza emotiva delle situazioni che si incontrano in carcere, allo scarso sostegno e ai richiami considerati ingiusti da parte dei superiori; rispetto a ciò una testimonianza può far comprendere come può essere difficile lavorare in un istituto in cui esistono rapporti problematici tra superiori e sottoposti: “Mi accorgevo sempre di più di essere un numero, uno tra tanti, per niente considerato dai miei superiori che parevano non riconoscere la divisa dell’agente, le esigenze del singolo, in un’opera di massificazione ingiusta e dolorosa. (…) Non ho mai perso il controllo neanche quando incontravo superiori gerarchici rigidi e impietosi, che spesso infierivano sulle guardie, come sfogo emotivo” (Robuffo, 2009). Lo straordinario è un altro fattore organizzativo correlato all’esaurimento emotivo; tuttavia, tale fattore di stress non è particolarmente diffuso: tra coloro che hanno partecipato a questa ricerca, infatti, solamente una minoranza dei rispondenti ha riportato di fermarsi spesso oltre l’orario. La realizzazione personale, invece, è maggiormente legata alle eccessive richieste lavorative e all’elevato rischio di aggressione. Questi due risultati possono sembrare contro-intuitivi. In realtà la relazione positiva tra carico di lavoro e Realizzazione personale è stata riscontrata anche nello studio di Dignam, Barrera, West (1986). Secondo i ricercatori questo risultato può essere spiegato tenendo conto delle differenze tra lavoro in ambienti in cui la cura e l’assistenza sono gli obiettivi primari e altri in cui lo è la custodia. Un operatore di polizia penitenziaria sarebbe centrato meno sull’assistenza rispetto a un infermiere, per cui potrebbe riuscire a gestire un numero maggiore di persone traendo soddisfazione per gli aspetti più quantitativi (numero di persone) piuttosto che qualitativi (qualità della relazione) del suo lavoro. A nostro avviso, un’altra spiegazione potrebbe avere una sua validità. Questo risultato potrebbe essere spiegato, infatti, dalla teoria del flow (Csikszentmihaly, 1997), sostenendo che l’esperienza ottimale si ha nel momento in cui c’è una convergenza fra richieste dell’ambiente e capacità personali, le aumentate richieste lavorative possono risultare stimolanti per gli operatori che si sentono in grado di gestirle favorendo così l’esperienza ottimale o flow. Con tutte le dovute cautele, la teoria del flow potrebbe spiegare anche la relazione fra rischio di aggressione e realizzazione personale. Va sottolineato come non vi sia relazione tra tutte le altre misure di benessere organizzativo, quali esaurimento emotivo, depersonalizzazione e GHQ, e il rischio di aggressione, un indicatore del livello di sicurezza. Tale variabile risulta, invece, tra i maggiori predittori di stress lavorativo nella meta-analisi di Dowden e Tellier (2004). Un altro risultato contro-intuitivo ottenuto riguarda la relazione tra Depersonalizzazione e la presenza di personale sufficiente per gli impegni richiesti. È possibile che il senso di sfiducia nei confronti del significato e del valore del proprio lavoro possa portare gli operatori a percepire che le difficoltà incontrate siano intrinseche al tipo di professione e non tanto ad aspetti contingenti quali la carenza di personale. Sono necessari, tuttavia, ulteriori studi i quali potranno confermare o meno tale relazione ed eventualmente tale interpretazione.” (Prati e Boldrini, 2011).

Dopo aver esposto alcuni studi condotti in Italia sul Burnout, nel successivo capitolo verranno proposte delle ricerche sul burnout nelle professioni d’aiuto, nello specifico negli insegnanti, argomento portante della presente tesi. 


© Il Burnout negli insegnanti – Federica Sapienza


 

Ricerche inerenti il burnout

Rassegna letteraria sulle ricerche inerenti al Burnout

“Lo scienziato […] deve sentirsi impegnato a comprendere il mondo e ad estendere la portata e la precisione dell’ordine che gli è stato dato. Questo impegno lo deve, a sua volta, guidare a scrutare, da solo o con l’aiuto dei colleghi, alcuni aspetti della natura fin nei minimi dettagli empirici. E se tale esame svela sacche di apparente disordine, queste lo devono allo stimolare a raffinare ulteriormente le sue tecniche di osservazione o a dare maggiore articolazione alle sue teorie.” (Kuhn, 1970).

 

Come nasce l’interesse della ricerca

Nel lavoro si trovano alcune delle principali fonti di stress, sia positivo che negativo (Sibilia, 2010). Basti pensare che si spende per il lavoro più del 50% delle ore di veglia, se consideriamo il tempo di trasporto (Sibilia,2010). Un livello di stress da “alto” a “moderato” viene segnalato dal 50% di un campione di lavoratori americani (Sibilia,2010). Dal 60 al 80% degli incidenti sul lavoro sono attribuibili allo stress (Sibilia,2010). Il 54% delle assenze dal lavoro sono per cause di stress-lavoro correlato (Neunan e Hubbard, 1998). Nel Congresso del 25/11/02 dell’Agenzia Europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (OSHA-EU), lo stress lavorativo è stato riconosciuto come il secondo maggiore problema di salute e rischio per la sicurezza nella popolazione occupata in Europa: stime per difetto danno circa il 28% dei lavoratori europei sofferenti di problemi legati allo stress (Sibilia,2010). Vi sono infatti importanti motivi anche per le Aziende per occuparsi dello stress: nell’ambiente di lavoro, lo stress (negativo) riduce la prestazione, la produttività, il morale del lavoratore ed aumenta gli errori, le giornate di malattia, l’assenteismo e gli incidenti (Sibilia,2010). Si giunge così (8 ottobre 2004) ad un Accordo Quadro Europeo sullo Stress nei Luoghi di Lavoro, che prevede una serie di misure per “per prevenire, eliminare o ridurre i problemi di stress lavoro-correlato”: misure di gestione e comunicazione, formazione dei dirigenti e dei lavoratori per accrescere la loro consapevolezza e la loro conoscenza dello stress, nonché informazione e la consultazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti (Sibilia,2010). In Italia, il Testo Unico sulla Salute e Sicurezza nei luoghi di lavoro (D. lgs n. 81/2008) modifica la precedente legge n. 626/94, introducendo una rilevante novità: lo stress lavorativo viene inserito come fattore complesso che incide direttamente sulla qualità del lavoro e sul benessere delle organizzazioni lavorative (Sibilia,2010). Si recepisce così l’obbligo di individuare da parte del datore di lavoro quei fattori che incidono in modo determinante sullo stress lavorativo (Sibilia,2010). Anche nel nostro Paese, le aziende devono quindi redigere un Documento della Valutazione dei Rischi che includa anche “rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo del 8 ottobre 2004” (Sibilia,2010).

Ma tutto ciò ha posto subito alcuni interrogativi: Quali sono i fattori di stress sul lavoro? Come selezionarli? Come misurarli? Quali criteri per valutarli? Tali fattori sono stati oggetto di numerosissime ricerche, e tuttavia con modelli e strumenti molto diversi, che non ne rendono comparabili i risultati (Sibilia, 2010). Tra le fonti di stress relativi al lavoro, comunque, sono emerse alcune principali condizioni che possiamo brevemente enumerare così:

  • la mancanza di autonomia o ridotti margini di discrezionalità nello svolgimento del lavoro come la mancanza di controllo sulle modalità del lavoro o sulle scelte organizzative);
  • il sovraccarico di lavoro e di responsabilità lavorative;
  • i vincoli troppo restrittivi, o le risorse troppo scarse nel contesto di lavoro;
  • le ambiguità di richieste o di ruoli lavorativi;
  • la scarsità di contatti e di sostegno sociale da colleghi e superiori, oppure veri e propri assilli o soprusi (che vanno sotto il nome di mobbing);
  • le ricompense e i benefici troppo scarsi rispetto all’impegno nel lavoro (Sibilia, 2010).

Teorie diverse hanno variamente evidenziato l’importanza di fattori diversi. La ricerca sullo stress lavorativo è stata ostacolata fino alla scorsa decade dalla mancanza di strumenti di misura agevoli e standardizzati (Sibilia, 2010). Il questionario più utilizzato è l’OSI che sta per “Occupational Stress Indicator”; questo questionario è formato da 170 item e richiede un tempo di compilazione di 45 minuti circa (Williams e Cooper, 1998). Inoltre, le varie scale che lo compongono sono eterogenee dal punto di vista teorico (Sibilia, 2010). Soprattutto, questo ed altri analoghi strumenti coprono la valutazione delle condizioni organizzative ed ambientali dello stress lavorativo (fattori di contesto), oppure i fattori di stress intrinseci (specifici) delle mansioni svolte, ma non entrambe le classi di fattori (Sibilia, 2010). Inoltre, dall’articolo di Sibilia (2010) si evince che da recente si sia spostata l’attenzione sullo stress inquadrandolo come una carenza o riduzione della qualità della vita, parametro già studiato in medicina per la valutazione degli esiti di terapie croniche, ma che ha avuto recente risalto dagli sviluppi della psicologia positiva (Goldwurm, 2006; Sibilia, 2004). Pertanto, si è anche iniziato a misurare lo stress correlato al lavoro come una carenza di qualità della vita lavorativa, non solo del singolo, ma anche nel senso di scarsa salute dell’organizzazione stessa in cui si svolge il lavoro (Sibilia,2010). Indipendentemente dalle caratteristiche specifiche dei diversi profili professionali e mansioni lavorative, è stata identificata una carenza di “benessere” nel contesto di lavoro; questo “malessere” organizzativo si può esprimere attraverso vari parametri:

  • alto assenteismo;
  • elevato ricambio del personale;
  • conflitti interpersonali;
  • frequenti lamentele da parte dei lavoratori;
  • frequenti incidenti sul lavoro;
  • ridotta produttività;
  • casi di assilli, emarginazione, violenze (Sibilia,2010).

Sono state identificate da tempo alcune “sindromi” tipiche che rappresentano variabili “endogene” dello stress lavoro-correlato: la sindrome di burnout (ben approfondito nei precedenti capitoli), con variabili “endogene” legate alle caratteristiche professionali; il quadro comportamentale “di Tipo A” (Type A Behavior Pattern, TABP) descritto per la prima volta da Rosenman e M. Friedman (1994), risulta composto da tre principali aspetti o tendenze: la tendenza all’espressione aggressiva (il potenziale di ostilità), la competitività eccessiva (o ipercompetitività), ed il senso di impazienza e di mancanza di tempo (Sibilia,2010). Il Tipo A si trova più facilmente in ambienti di lavoro molto competitivi, mentre la sindrome di burnout è più caratteristica delle “professioni di aiuto” (Sibilia,2010).

Dall’articolo “Preventing Burnout in Mental Health Workers at Interpersonal

Level: an Italian Pilot Study” (versione in lingua italiana) di Scarnera e collaboratori (2008), si legge che la sindrome del Burnout nei Servizi di Salute Mentale è un fenomeno che è stato ampiamente studiato (Shirom 2003; Schaufeli 2003; Maslach et al., 2001; Salyers e Bond 2001). Scarnera (2008) asserisce che gli studi che sono stati realizzati fino ad ora descrivono la sindrome come “un processo, piuttosto che un evento”, e tendono ad associarla a condizioni di stress cronico giornaliero, piuttosto che con eventi eccezionali ed occasionali. Il lavoro insoddisfacente può condurre a un sentimento di esaurimento emozionale (EE), poi ad una reazione difensiva quale la depersonalizzazione (DP), ed infine ad una mancanza di coinvolgimento sul lavoro e bassa soddisfazione personale (PA) (Scarnera et al.,2008). Questo processo ha implicazioni negative per le prestazioni lavorative e per le relazioni sociali (Scarnera et al., 2008). In ogni caso, nell’articolo (Scarnera et al.,2008) l’EE è considerato comunemente come la dimensione centrale della sindrome (Moore, 2000; Koeske e Koeske,1989; Roelofs et al., 2005). D’altro lato, alti livelli di EE si incontrano anche in altre malattie mentali non necessariamente coinvolte con lo stress lavorativo, quali la depressione ed i disturbi d’ansia. Per tale motivo, l’emergenza di alti livelli di DP e PA sembra un criterio più adeguato per diagnosticare i disturbi collegati al Burnout (Brenninkmeijer e Van Yperen, 2003; Schaufeli et al., 2001; Schaufeli e Taris, 2005). Nonostante i sopramenzionati bisogni di riflessioni più approfondite sulle dimensioni del Burnout e sulle loro relazioni, il numero degli interventi sulla sindrome è cresciuto negli ultimi 20 anni (Scarnera et al., 2008). Schaufeli e Enzmann (1998) hanno proposto un’ampia classificazione degli interventi tra due assi: 

  • il focus (individuale; interfaccia individuo-organizzazione; organizzativo);
  • il proposito (identificazione, prevenzione primaria e secondaria, trattamento, riabilitazione) (Scarnera et al., 2008).

Frequentemente gli interventi sono strutturati come workshop che supportano la consapevolezza dei partecipanti sui loro problemi collegati al lavoro e migliorano la loro abilità nella gestione delle risorse attraverso formazione sulle competenze e/o fornitura ricerca di supporto sociale (Scarnera et al., 2008). Scarnera e collaboratori (2008) riportano che, in accordo con Schaufeli ed Enzmann (2003), l’approccio interpersonale al Burnout sembra supportato empiricamente. In particolare, tali autori (Schaufeli ed Enzmann,2003), ascrivono l’apparizione delle relazioni interpersonali stressanti sul lavoro alla mancanza di reciprocità (Scarnera et al., 2008). In altri termini, gli operatori sentono di consumare tempo e di entrare in relazioni molto costose, senza ricevere un beneficio comparabile (Scarnera et al.,2008). Così, considerati gli studi di diversi autori (Schaufeli 2003; Buunk et al. 2001; Bakker et al. 2000), Scarnera e colleghi (2008) ritengono che la mancanza di reciprocità nel gruppo degli operatori, come pure la comparazione sociale ed il contagio emotivo, giochino un ruolo importante nell’emergenza del Burnout. Sempre nella pubblicazione di Scarnera (2008), in relazione alla pianificazione di interventi di prevenzione del Burnout, tre argomenti sembrano i più ricorrenti tra gli operatori della salute mentale (Van der Klink et al. 2001; Murphy 1996; Scarnera 2003). Al primo posto si ha il bisogno di un migliore controllo delle emozioni emergenti dal coinvolgimento con la malattia degli altri, Mc Craty e collaboratori (1998) hanno riportato che i partecipanti ad un programma formativo di gestione delle emozioni negative hanno mostrato un significativo aumento degli affetti positivi ed un significativo decremento degli affetti negativi (Scarnera et al.,2008). Al secondo, Cummigans et al. (2005) affermano il bisogno di una grande diffusione di competenze specifiche nella guida e monitoraggio degli operatori e del coinvolgimento personale dei membri dello staff, mentre Gill e collaboratori (2006), esaminando gli effetti dei diversi stili di leadership sullo stress lavorativo e sul Burnout, hanno trovato che il livello di stress percepito è inversamente correlato al grado di supporto fornito dai manager (Scarnera et al.,2008). Infine, al terzo Lee e Crockett (1994) hanno proposto la promozione dell’assertività nella comunicazione tra membri del team (Scarnera et al., 2008). Esaminando l’efficacia del training sull’assertività nel ridurre i livelli di stress ed aumentare quelli di assertività nella comunicazione tra infermieri, essi hanno trovato che alla fine delle attività ed al follow-up, il gruppo sperimentale ha mostrato livelli più bassi di stress e più alti di assertività, rispetto al gruppo di controllo (Scarnera et al., 2008). Shimizu et al. (2003) hanno confermato i risultati precedenti, concernenti i benefici effetti dei training sull’assertività sui livelli percepiti di stress lavorativo (Scarnera et al., 2008). Presi insieme, questi risultati hanno implicazioni nella definizione dei training per manager. Infatti: 

  1. il controllo di pensieri ed emozioni negative specialmente tra impiegati;
  2. la promozione di uno stile supportivo di leadership tra manager;
  3. il miglioramento della comunicazione assertiva tra i membri dello staff dovrebbe rappresentare un set di competenze professionali che proteggono dall’emergenza del Burnout (Scarnera et al., 2008).

Alla luce di quanto detto, si riporta lo studio di Scarnera e collaboratori (2008) che hanno focalizzato la loro ricerca su un livello di intervento interpersonale, all’interno di una cornice teorica Cognitivo-Comportamentale. Questo perché una meta-analisi quantitativa indagante l’efficacia degli interventi sullo stress lavorativo condotta da Van der Klink et al. nel 2001, ha dimostrato che gli interventi sulla gestione dello stress sono efficaci. In particolare, gli interventi Cognitivo-Comportamentali sono apparsi più efficaci degli altri (Scarnera et al., 2008). Recentemente, in un’altra meta-analisi di Richardson e Rothstein (2008), sono stati largamente confermati questi risultati. Sorprendentemente, Richardson e Rothstein (2008) hanno suggerito che più componenti sono aggiunti ad un intervento Cognitivo-Comportamentale, meno efficace diventa (Scarnera et al., 2008). In linea con questa conclusione, la parte centrale dell’intervento di Scarnera ed il suo gruppo di ricerca (2008) è stato rappresentato da un training sull’assertività coinvolgente tutti i partecipanti, riguardo al loro specifico ruolo o funzione lavorativa, poiché è atteso che un training sull’assertività possa fornire l’opportunità di armonizzare finalità professionali e bisogni personali per manager ed impiegati (Scarnera et al., 2008).In uno dei più citati studi sul Burnout, Ramirez et al. (1996) affermava che il sentimento di operare malamente con i pazienti, con i loro parenti e con i membri dello staff, e di essere diretti malamente, era considerato come un’importante fonte di stress al lavoro (Scarnera et al., 2008). Nello stesso articolo, il Burnout risultava essere più prevalente tra i professionisti che si sentivano inadeguatamente formati in competenze comunicative e di gestione (Scarnera et al.,2008). A questo proposito, l’intervento è stato pensato specificatamente per fornire formazione su questi argomenti, e può essere considerato come uno dei primi studi promuoventi un intervento sul Burnout a livello interpersonale su di un campione di operatori della salute mentale Italiano (Scarnera et al., 2008). Lo studio è stato condotto su un campione di 25 soggetti (di cui 11 donne e 14 uomini) (Scarnera et al., 2008). I soggetti erano impiegati in due differenti ma interconnesse organizzazioni del Sud Italia: il Dipartimento di Salute mentale della ASL BA/3 di Altamura (BA) e la Cooperativa Sociale “Questa Città” di Gravina in Puglia (BA) (Scarnera et al.,2008). Mentre la prima forniva servizi psichiatrici ospedalieri ed ambulatoriali, la seconda forniva attività terapeutico/riabilitative in comunità residenziali e centri diurni (Scarnera et al.,2008). Benché il numero dei partecipanti fosse piccolo, esso comprendeva tutte le categorie di operatori impiegati nei servizi terapeutico/riabilitativi psichiatrici in Italia (Scarnera et al.,2008). Quattordici persone, cinque maschi e nove femmine, erano operatori direttamente impegnati nella cura ed assistenza dei pazienti e dei loro familiari (Gruppo 1) (Scarnera et al.,2008). Otto di loro avevano una qualifica professionale specifica per la loro professione: erano infermieri, educatori ed assistenti, con una età media di anni 40,7 (Scarnera et al.,2008). Undici persone, di cui nove maschi e due femmine, occupavano un ruolo manageriale (Gruppo 2); sette di loro avevano una qualifica professionale specifica per la loro occupazione: erano psicologi, psichiatri o manager di servizi riabilitativi, con una età media di 41,9 anni (Scarnera et al., 2008). La piccola dimensione del campione precludeva la possibilità di costituire un gruppo sperimentale ed uno di controllo, quindi l’intervento fu valutato solo nel corso del tempo, attraverso misure di pre, post e follow-up dell’intervento (Scarnera et al., 2008). 

Preliminarmente, fu chiesto ai partecipanti di completare il Maslach Burnout Inventory – MBI (Sirigatti e Stefanile 1993) e l’Occupational Stress Inventory – OSI di Cooper, Sloan e Williams (Sirigatti e Stefanile 2002). 

Successivamente alla prima valutazione, due consulenti formati supervisionarono una serie di 6 workshop mensili di 3-5 ore, in cui si promuoveva la comunicazione tra i membri dello staff, coinvolgendo tutti i partecipanti, a prescindere dal loro ruolo e qualifica (Scarnera et al., 2008). Furono realizzati anche altri due interventi in cui si elaboravano dei propri pensieri ed emozioni negative emergenti dalle relazioni con i pazienti ed i loro familiari (Scarnera et al., 2008). L’altro intervento fu pianificato per i manager, che furono formati per acquisire consapevolezza sia del proprio stile di leadership che dei bisogni di sostegno emergenti dai loro collaboratori (Scarnera et al., 2008). Questi due programmi avrebbero dovuto migliorare l’effetto del susseguente intervento principale, coinvolgente tutti i partecipanti (Scarnera et al., 2008). Il primo workshop fu realizzato separatamente per i due gruppi, sulla base delle specifiche problematiche di ogni gruppo (Scarnera et al., 2008). Sui membri del Gruppo 1 si intervenne per ottenere una ristrutturazione cognitiva delle relazioni interpersonali con persone affette da malattie mentali gravi (Scarnera et al., 2008). L’azione denominata “Strategie ottimali di pianificazione del lavoro e gestione delle relazioni interpersonali con i subordinati” (workshop 1), fu condotto con i membri del Gruppo 2 (Scarnera et al., 2008).

I rimanenti cinque workshop di Scarnera et al. (2008), di 3 ore ognuno, consistettero in azioni didattiche ed esperenziali sulla “Assertività” (Naimo 2003). Durante la parte didattica, furono affrontati i seguenti argomenti: “gestire differenti livelli di relazione interpersonale” (workshop 1); “asserire il proprio punto di vista preservano una relazione pulita” (workshop 2); “comunicare apprensione e pregiudizi” (workshop 3); “evitare rabbia dovuta a sentimenti di inferiorità e insoddisfazione improduttiva” (workshop 4); “promuovere relazioni professionali positive” (workshop 5) (Scarnera et al.,2008). Durante la parte esperienziale, i partecipanti presentavano e valutavano collettivamente strategie per affrontare gli stressor più importanti delle loro situazioni di lavoro. Il programma formativo di Scarnera et al. (2008) era ispirato dalle ricerche di Lee e Crokett (1994) e Shimizu et al. (2003).  Alla fine di ogni workshop, la soddisfazione dei partecipanti fu valutata attraverso un questionario contente domande sulla utilità, facilità di apprendimento, coinvolgimento personale e piacevolezza delle situazioni di apprendimento (Scarnera et al., 2008). Le risposte furono fornite su di una scala di tre gradi (“insoddisfatto”, “soddisfatto”, “molto soddisfatto”) (Scarnera et al., 2008). Alla fine dell’intervento (T1), fu chiesto ai partecipanti di compilare l’MBI di Sirigatti e Stefanile (1993) (Scarnera et al., 2008). Diciotto mesi dopo l’intervento, fu chiesto ai partecipanti di compilare di nuovo l’MBI (Sirigatti e Stefanile 1993) ed un questionario sviluppato appositamente per valutare l’efficacia delle competenze acquisite (Scarnera et al., 2008).

Per concludere in breve, l’analisi dell’EE non ha mostrato effetti dell’intervento (Scarnera et al., 2008). Questo risultato suggerisce che l’intervento basato sulla promozione dell’assertività nelle relazioni interpersonali non funzionava sul livello medio/basso esperito dai partecipanti a T0 (Scarnera et al., 2008). L’analisi sulla DP mostrò un significativo effetto principale del tempo, il quale dimostrava che la DP era incline ad abbassarsi linearmente dai livelli medio/alti a quelli medio bassi del Burnout dopo la formazione alla assertività, e di mantenere questo andamento dopo 18 mesi dall’intervento (analisi lineare dell’andamento (Scarnera et al., 2008).L’intervento sembra che abbia aumentato, paradossalmente, dal basso al medio/basso la mancanza di PA immediatamente dopo l’intervento (Scarnera et al., 2008).

La riduzione del DP è risultata associata con l’efficacia dell’intervento percepita al follow-up (Scarnera et al., 2008). In generale, l’intervento di Scarnera et al. (2008), è stato considerato dagli stessi come parzialmente efficace. Infatti, esso sembrerebbe funzionare bene sui livelli di Burnout che erano medio/alti prima dell’intervento (DP) ma gli effetti attesi su EE non sono apparsi (Scarnera et al., 2008). Seguendo Le Blanc et al. (2007), se i partecipanti sono caratterizzati, all’inizio dell’intervento, da un basso livello di Burnout su di un particolare indice, è meno plausibile che l’intervento possa avere un effetto ampio (Scarnera et al., 2008). Poiché l’intervento ha avuto un effetto riducente sulla DP, si possono supporre effetti positivi anche sulla PA e principalmente, sull’EE di partecipanti affetti da livelli severi di Burnout (Scarnera et al.,2008). Alla luce dei precedenti risultati, Scarnera ed il suo gruppo di ricerca (2008) concludevano che un programma di intervento finalizzato ad incoraggiare tutti gli operatori a promuovere la comunicazione assertiva, sentimenti positivi e accordo tra i colleghi potesse ridurre la loro inclinazione a depersonalizzare le relazioni con i clienti (Zellars et al. 2000). Dall’altro lato, gli stessi (Scarnera et al.,2008) sostenevano che l’accordo e l’armonia tra colleghi può aumentare la percezione di supporto sociale associata a bassi livelli di Burnout (Lee e Ashforth 1993).

Sono necessarie ulteriori ricerche per meglio distinguere le dinamiche interpersonali e le loro relazioni con l’emergere della Sindrome del Burnout (Scarnera et al., 2008). Prendendo in considerazione le limitazioni rappresentate dalle ridotte dimensioni del campione e dall’assenza di un gruppo di controllo, lo studio viene considerato come una iniziale linea guida per la disseminazione di buone pratiche all’interno delle Organizzazioni Italiane, pubbliche o private, che forniscono assistenza/riabilitazione alle persone affette da malattia mentale (Scarnera et al., 2008).


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Strumenti di valutazione del burnout

Strumenti di valutazione del burnout mediante un approccio multidisciplinare del contesto organizzativo

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Gli studi sullo stress occupazionale degli anni ’60 e’70 hanno portato all’identificazione di un gran numero di condizioni ambientali suscettibili di interferire con il benessere psicofisico dei lavoratori (Magnavita, 2008). In quegli anni è stato elaborato un discreto numero di questionari descrittivi finalizzati all’identificazione e alla quantificazione degli agenti di rischio (Magnavita, 2008).

Secondo il modello di Kalimo (1980), basato sugli di Cooper et al. (1976;1979), i fattori di stress occupazionale possono essere classificati in sei categorie: fattori legati al ruolo nell’organizzazione, fattori intrinseci al lavoro, rapporti con gli altri, clima e struttura organizzativa, carriera, interfaccia con l’esterno. I questionari ispirati a tale modello, tradotti in italiano e modificati, hanno dato luogo in Italia al Questionario sui fattori di stress da lavoro che è stato impiegato in diverse indagini (Magnavita 1986, Magnavita 1990, Magnavita 1990). Si tratta di uno strumento composto da 40 domande a ciascuna delle quali la risposta è fornita mediante una scala Likert (Magnavita, 2008). 

L’insieme dei fattori di stress presenti nei luoghi di lavoro può essere fatto risalire in gran parte all’organizzazione del lavoro. Da qui l’interesse di valutare appunto tale organizzazione (Magnavita, 2008). Il Questionario per la Valutazione dell’Organizzazione del Lavoro (WOAQ – Work Organisation Assessment Questionnaire) è uno strumento sviluppato dai ricercatori dell’Università di Nottingham (Griffiths et al., 2006) nel quadro di un progetto per la valutazione e la riduzione dei rischi da lavoro nell’industria. Il WOAQ consta di 28 domande relative ai possibili rischi inerenti al design e al management del lavoro, ciascuna associata a cinque risposte (Magnavita, 2008). I lavoratori sono invitati ad indicare, sulla base della propria esperienza e conoscenza, quanto sia problematico (o soddisfacente) ciascun aspetto del proprio lavoro, mediante una scala a cinque punti tipo Likert (Magnavita, 2008). La formulazione delle domande è di tipo situazionale più che psicologico. Ad esempio, si chiede “quanto pensa che questo aspetto del suo lavoro sia buono (o cattivo)?” piuttosto che “quanto è stressato da questo aspetto del suo lavoro?” (Magnavita, 2008). Inoltre si è avuto cura di variare la direzionalità delle scale al fine di ridurre la probabilità di risposte perseveranti (Magnavita, 2008). Nella versione originale inglese, l’esame della struttura fattoriale non ruotata ha indicato che una percentuale significativa della varianza del questionario è spiegata da un singolo fattore; viceversa, mediante rotazione Varimax sono stati identificati cinque fattori, relativi rispettivamente: alla qualità delle relazioni con il management; a ricompense e riconoscimenti; al carico di lavoro; alla qualità delle relazioni con i colleghi; alla qualità dell’ambiente fisico (Magnavita, 2008). La versione italiana del WOAQ (Magnavita et al., 2007) conserva le caratteristiche dell’originale e manifesta relazioni coerenti con variabili correlate all’organizzazione del lavoro, come il sostegno sociale (col quale si correla positivamente), lo stress da lavoro e il malessere psico-fisico dei lavoratori (con i quali si correla in senso negativo). Il WOAQ si conferma quindi uno strumento utile per la valutazione dell’organizzazione del lavoro. Le caratteristiche dell’organizzazione aziendale sono indagate anche mediante il M_DOQ10 (Majer_D’Amato Organizational Questionnaire_10), costituito da 70 domande raggruppabili in 10 fattori: comunicazione, autonomia, coerenza, chiarezza dei ruoli, coinvolgimento nel lavoro, equità, relazioni e comunicazioni con i superiori, innovatività, dinamismo. Il questionario viene elaborato per via informatica mediante un programma dedicato (Tangredi et al., 2007).

L’approccio multidimensionale per analizzare il contesto organizzativo consente di individuare lo stato di benessere di un’organizzazione, così da prendere in esame dimensioni lavorative e fonti di pericolo per la salute dei lavoratori. Lo strumento più validato nel contesto italiano è il questionario MOHQ, uno strumento multidimensionale della salute organizzativa redatto da Avallone e Paplomatas (2005). Nel MOHQ si tenta di eludere mediante l’analisi della relazione tra l’individuo ed il contesto, elementi di salute organizzativa, con cui si intende designare «l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando il benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative» (Avallone e Paplomatas, 2005). Il questionario è particolarmente adatto alle organizzazioni che intendono sviluppare e promuovere la salute e il benessere collettivo (Avallone, Papomatas, 2005).

Le evidenze teoriche e di ricerca sugli effetti negativi dello stress da lavoro per la salute e il benessere dei lavoratori sono molteplici (Ardito et al.,2014, Balducci 2015, Fraccaroli et al., 2011). Il quadro normativo internazionale, comunitario e nazionale negli ultimi anni ha sottolineato l’importanza del tema del benessere organizzativo, della salute e della qualità della vita negli ambienti di lavoro. Il decreto legislativo 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro) sancisce infatti per tutte le organizzazioni italiane sia pubbliche sia private l’obbligo di valutare e gestire il rischio da stress lavoro correlato (Emanuel et al., 2018). A questo proposito valutare lo stress permette alle organizzazioni di approfondire il benessere e della qualità di vita offerta nel contesto di lavoro, come mostrano studi e ricerche sul tema (Cortese et al., 2013;Emanuel et al.,2016; Magrini et al.,2015; Quaglino,2010). Nell’articolo di Emanuel e collaboratori (2018) viene presentata l’esperienza di valutazione soggettiva dello stress e del benessere organizzativo messa a punto in un ente pubblico. Nello specifico, l’azienda ha deciso di unificare i momenti di valutazione dello stress lavoro-correlato e del benessere organizzativo, secondo le indicazioni del D.lgs. 81/2008 e del D.lgs. 150/2009 (Emanuel et al., 2018).

Quest’ultimo decreto legislativo stabilisce che all’interno delle Pubbliche Amministrazioni siano svolte indagini rivolte a tutti i lavoratori con l’obiettivo di rilevare: il benessere organizzativo definito come “lo stato di salute di un’organizzazione in riferimento alla qualità della vita, al grado di benessere fisico, psicologico e sociale della comunità lavorativa, finalizzato al miglioramento qualitativo e quantitativo dei propri risultati” (ANAC, 2013), il grado di condivisione del sistema di valutazione della performance approvato ed implementato nella propria organizzazione di riferimento, la valutazione del superiore gerarchico. Le indicazioni di ANAC prevedono la possibilità di definire domande integrative in considerazione di alcune peculiarità o interessi dell’organizzazione (Emanuel et al.,2018). La ricerca riportata nell’articolo di Emanuel e collaboratori (2018) ha previsto la somministrazione di un questionario self-report proposto da ANAC (ANAC,2013), che ha permesso di rivelare tramite 6 item lo stress lavoro-correlato, su scala di risposta a 6 punti (1=per nulla d’accordo, 6=del tutto d’accordo); un esempio di item è “Avverto situazioni di malessere o disturbi legati allo svolgimento del mio lavoro quotidiano” (soluzione monofattoriale, 35.2% varianza spiegata; ? di Cronbach 0.75) (Emanuel e collaboratori, 2018). Ha permesso di evidenziare il supporto dei superiori attraverso 6 item su scala di risposta a 6 punti (1=per nulla d’accordo, 6=del tutto d’accordo); un esempio di item è “Riesce a motivarmi a dare il massimo nel mio lavoro”, con una soluzione monofattoriale, 73.7% varianza spiegata, ? di Cronbach 0.94 nella ricerca di Emanuel e colleghi (2018). Il supporto dei colleghi è stato rilevato attraverso 7 item tratti sempre dal Questionario ANAC su scala di risposta a 6 punti (1=per nulla d’accordo, 6=del tutto d’accordo); un esempio di item è “Sono stimato e trattato con rispetto dai colleghi”, soluzione monofattoriale, 53.9% varianza spiegata, ? di Cronbach 0.88 (Emanuel et al.,2018). L’autonomia lavorativa è stata rilevata attraverso 5 item tratti dal Questionario ANAC su scala di risposta a 6 punti (1=per nulla d’accordo, 6=del tutto d’accordo) (Emanuel et al.,2018). L’equità percepita nella propria amministrazione è stata rilevata attraverso 5 item tratti dal Questionario ANAC  su scala di risposta a 6 punti (1=per nulla d’accordo, 6=del tutto d’accordo); un esempio di item è “Ritengo che vi sia equità nell’assegnazione del carico di lavoro”, soluzione monofattoriale, 52.3% varianza spiegata, ? di Cronbach 0.84 (Emanuel et al.,2018). Le possibilità di carriera e sviluppo professionale percepite sono state rilevate attraverso 6 item dell’ANAC su scala di risposta a 6 punti (1=per nulla d’accordo, 6=del tutto d’accordo). Un esempio di item è “Nel mio ente il percorso di sviluppo professionale di ciascuno è ben delineato e chiaro”, soluzione monofattoriale, 45.5% varianza spiegata, ? di Cronbach 0.78 (Emanuel et al., 2018).  

Una volta citato brevemente lo studio condotto da Emanuel e collaboratori (2018), tramite il quale è stato messo in luce il questionario ANAC, si ritiene utile continuare sullo stesso sentiero, prendendo in considerazione alcuni lavori di ricerca sul burnout nelle diverse professioni presenti in letteratura.


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Strumenti di misura dello stress in ambito organizzativo

Strumenti di misura dello stress in ambito organizzativo

Ogni individuo gestirà la situazione stressante tramite i propri tratti di personalità e le diverse strategie di risposta apprese. Dipenderà proprio da tali strategie (stili di coping) e da tali tratti di personalità, la misura in cui gli effetti psichici e somatici dello stress si manifesteranno in una “malattia da stress” (Nardella e colleghi, 2007).

Il modello elaborato da Karasek (1979) asserisce che la relazione tra elevata domanda lavorativa (job demand) e bassa libertà decisionale (decision latitude) possa contribuire all’emergere di una condizione di “job strain” o “perceived job stress” (stress lavorativo percepito). Il modello demand-control postula che le due principali variabili, domanda e controllo, siano tra loro indipendenti (Magnavita, 2008). Mediante un sistema di assi cartesiani i risultati del questionario consentono di suddividere la popolazione in quattro quadranti: lavoratori con alto strain lavorativo percepito (alto punteggio di demand, basso di control); attivi (alta domanda, ma alto controllo); passivi (bassa domanda,basso controllo); lavoratori con basso strain (bassa domanda, alto controllo); solo il primo gruppo di lavoratori è potenzialmente stressato (Magnavita, 2008). Le domande del Job Content Questionnaire (JCQ) prevedono una risposta graduata secondo una scala Likert a quattro gradi; la scala “demand” si riferisce all’impegno lavorativo richiesto: i ritmi, il carico di lavoro, la coerenza delle richieste (Magnavita, 2008). In un articolo di Magnavita (2008) pubblicato sul giornale Italiano di medicina del lavoro ed ergonomia viene riportato che la scala “control”, secondo le linee guida di Karasek, può essere distinta in due costrutti fondamentali: la skill discretion e la decision authority. Il primo concetto si riferisce alla professionalità; il secondo alla capacità di programmare e organizzare il lavoro (Magnavita, 2008). Il modello si è arricchito in seguito alla constatazione che il sostegno sociale sul luogo di lavoro è un potente fattore moderatore dello stress; è stata quindi aggiunta una terza variabile, il sostegno sociale (Magnavita, 2008). Il questionario di Karasek esiste in formulazioni originali di diversa lunghezza (Magnavita, 2008). In Italia le diverse traduzioni della versione estesa formata da 49 domande, sono state utilizzate da diversi ricercatori, tra cui Baldasseroni e colleghi (1998), Cesana e collaboratori (1996), Ferrario et al. (2003; 1993), Camerino et al. (1999), sono state unificate nell’ambito di un progetto dell’Ispesl (Magnavita, 2008). Nella letteratura internazionale sono state utilizzate estensioni ridotte della forma originale del questionario; un esempio potrebbe essere una versione in 22 item, con 5 Demand, 6 Control e 11 Social Support, che è stata usata in una indagine sui medici cinesi (Magnavita, 2008).   

Ritornando al Job Content Questionnaire (JCQ) (Karasek, 1985), quest’ultimo prende in esame il controllo, cioè la libertà decisionale che a sua volta è divisa in skill discretion (relativa alle caratteristiche della mansione), decision authority (il potere decisionale) ed in work place social support o social network, ovvero il supporto sociale da parte dei colleghi; la richiesta lavorativa in relazione ai ritmi di lavoro, al carico di lavoro, alla coerenza delle richieste. Il JCQ presenta varie versioni tradotte in diverse lingue (Magnavita, 2008). Per quanto riguarda il contesto italiano si propone la versione tradotta e adattata nel 2001 dall’ISPESL (Deitinger e colleghi, 2009; Baldasseroni e colleghi, 2001). La validazione è stata fatta su 2174 lavoratori provenienti da 30 aziende di industria e del settore terziario; gli item totali dello strumento sono 49; il tempo di somministrazione è di circa venti minuti (Deitinger e colleghi, 2009; Baldasseroni e colleghi, 2001).

Un altro strumento di misura dello stress che si basa sul modello teorico dello stesso autore, è formato da tre scale psicometriche: l’effort o impiego lavorativo, le reward o ricompense, l’overcommitment o eccessivo impegno. La versione breve di tale strumento consta di 23 item: 6 per la prima scala, 11 per la seconda ed infine 6 per la terza (Siegrist, 1996). Questo strumento utilizza la scala Likert (Siegrist,1996). Sono state diverse le traduzioni in altre lingue, come vari sono stati i tentativi di combinarlo con lo strumento di Karasek mediante analisi fattoriale e regressione logistica; tuttavia, tale tentativo non ha portato i risultati sperati (Magnavita, 2008). Per quanto riguarda la versione italiana si presenta una validazione compiuta su 531 soggetti del settore sanitario. Di questo adattamento esiste una versione breve di 23 item ed una lunga di 46 ed il tempo di somministrazione è, all’incirca, di 20 minuti (Deitinger e colleghi, 2009).

Numerosi studi hanno indagato le relazioni tra soddisfazione professionale e stato di salute, confermando l’esistenza di una stretta relazione. Una recente meta-analisi di 485 studi con una popolazione combinata di oltre 250.000 soggetti ha dimostrato che la soddisfazione è significativamente associata, in modo inverso, con il burnout, ma anche con la perdita di autostima, con la depressione e l’ansia;minore risulta l’associazione con i sintomi fisici (Faragher et al., 2005). La soddisfazione dunque esplica un effetto mediatore dello stress professionale sulla salute (Magnavita, 2008). La soddisfazione professionale è stata indagata dagli psicologi clinici fin dagli anni ’30 con diversi metodi, basati su una singola domanda, ma spesso più su un aggregato di più domande (Magnavita, 2008). Magnavita (2008) nel suo articolo asserisce che i numerosi questionari proposti negli anni tendevano a contenere domande ridondanti e parzialmente sovrapponibili, erano spesso lunghi e complessi, tendevano a confondere giudizi descrittivi e valutativi (Warr e Wall, 1979); per ovviare a tali carenze il gruppo di Warr ha elaborato il JSS, che si è rapidamente imposto come lo strumento più affidabile per misurare la soddisfazione da lavoro. Si tratta di una scala composta da 15 domande, più una complessiva che tiene conto di tutti i fattori citati precedentemente (Magnavita, 2008). A ciascuna domanda si risponde tramite una scala Likert in 7 punti, da “estremamente insoddisfatto” (=1) ad “estremamente soddisfatto” (=7). La soddisfazione viene misurata da un’unica scala, costituita dalla somma dei punteggi delle domande (Magnavita, 2008). Mediante analisi fattoriale è stato dimostrato che la scala è sufficientemente omogenea, anche se è possibile riconoscere due sub-scale corrispondenti, rispettivamente: la soddisfazione professionale intrinseca è data dalla somma delle domande pari, la soddisfazione estrinseca corrisponde alla somma delle domande dispari (Magnavita, 2008). È possibile raggruppare le risposte anche secondo altri cluster (Warr e Wall, 1979). La versione italiana della Job Satisfaction Scale (JSS) conferma la struttura unitaria della versione originale inglese e la possibilità di suddividere i punteggi in diverse subscale (Magnavita et al., 2007). Nelle ricerche condotte su lavoratori autonomi il questionario è stato impiegato in una forma abbreviata in 10 domande, escludendo i quesiti riguardanti la soddisfazione nei rapporti con i superiori o il management (Chambers et al., 1996; Cooper et al., 1989; Dowell et al., 2001; Grant et al.,2004; Ulmer et al.,2002.). Il punteggio ricavato dalla somma delle domande del JSS viene generalmente usato come una variabile continua, oppure dicotomizzato alla mediana (Magnavita, 2008). La domanda finale riassuntiva è stata talora impiegata da sola, come espressione della globale soddisfazione tratta dal lavoro (Magnavita, 2008). Questa domanda consente di dividere i lavoratori in due gruppi: quelli soddisfatti del lavoro (risposte da “moderatamente soddisfatto” a “estremamente soddisfatto”) e quelli insoddisfatti (risposte da “estremamente insoddisfatto” a “moderatamente insoddisfatto”) (Magnavita, 2008). Tra i numerosi strumenti impiegati per misurare la soddisfazione professionale in specifiche categorie di lavoratori, ricordiamo l’Indice di Soddisfazione di Stamps (Stamps, 1997), una scala composta da 44 domande nel cui ambito è possibile riconoscere diverse subscale (Magnavita, 2008). Il questionario è stato recentemente tradotto da Cortese (2007) ed applicato nello studio del personale infermieristico. Rispetto al JSS questo strumento è dotato di maggiore specificità, anche se è certamente più indaginoso (Magnavita, 2008). Un altro strumento per la valutazione della soddisfazione, in lingua italiana, composto da 22 domande, è stato elaborato da Gigantesco et al. (2003) e applicato con modificazioni da Tabolli et al. (2006).

Generalmente a questi strumenti si affiancano altri dispositivi di valutazione inerenti all’analisi del contesto organizzativo.


© Il Burnout negli insegnanti – Federica Sapienza