La tendenza e deumanizzare e infraumanizzare gli altri

La tendenza e deumanizzare e infraumanizzare gli altri

Anche se la capacità di vedere gli altri come meno umani può essere universale ed è riscontrabile anche nei bambini (Costello & Hodson, 2013; Vezzali, Capozza, Stathi & Giovanni, 2012), ci sono varie differenze di personalità, credo, ideologie e atteggiamenti che rendono alcune persone più soggette a deumanizzare. Secondo Haslam e Loughnan (2014) uno dei più importanti predittori di tipo ideologico è quello dell’orientamento alla dominanza sociale (SDO, Hodson & Costello 2007). Come evidenziato dagli autori, l’SDO è un importante predittore della deumanizzazione verso gli immigrati, mentre altri studi hanno dimostrato il suo legame con la deumanizzazione verso rifugiati e vittime di guerra. In questi studi, l’SDO è associato alla deumanizzazione più di quanto lo sia l’autoritarismo di destra, in quanto dipende più dalla dominanza sociale che dalla conformità sociale e dalla percezione di minaccia. Ad esempio, i livelli di SDO dei genitori bianchi predicono le tendenze dei loro figli a deumanizzare i bambini neri (Costello & Hodson, 2013). Haslam e colleghi (2014) hanno analizzato anche il ruolo delle credenze, dimostrando che le persone che percepiscono una divisione maggiore tra uomini e animali sono più soggette alla deumanizzazione razziale. Nella fattispecie, questa convinzione promuove la visione che gli esseri umani “inferiori” siano in qualche modo bestiali, giustificandone la discriminazione.

L’ultimo set di variabili riconducibili alla tendenza alla deumanizzazione è rappresentato dagli atteggiamenti, che sono stati analizzati solo in relazione alla percezione delle donne. È stato dimostrato che il sessismo ostile predice la negazione di umanità ai target femminili (Viki & Abrams, 2003), e più nello specifico si negano loro le emozioni positive unicamente umane; per i sessisti benevoli avviene esattamente il contrario. A conferma di ciò vi sono due studi: il primo evidenzia come a livello neurale i sessisti ostili abbiano un’attivazione minore delle regioni dell’attribuzione di stato mentale quando vedono donne sessualizzate (Cikara, Eberhardt & Fiske, 2011); il secondo, invece, dimostra come il sessismo ostile non sia correlato con l’associazione implicita con animali o oggetti nel caso di donne non sessualizzate (Rudman & Mescher, 2012). In definitiva, la deumanizzazione è collegata a quattro aspetti diversi delle differenze individuali (Haslam & Loughnan, 2014):

    • caratteristiche ostili e sgradevoli, inclusi tratti di psicopatia, narcisismo, credo nazionalistico e atteggiamenti ostili;
    • avversione emotiva verso persone non familiari;
    • posizioni ideologiche e gerarchiche dell’SDO e alle convinzioni di dominio umano sugli animali;
    • disconnessione sociale o carenza empatica, visto anche il legame con i tratti autistici.

Anche Leyens e colleghi, nella teoria dell’infraumanizzazione, analizzano le caratteristiche individuali o collettive che incidono sulla propensione ad infraumanizzare, citando in particolare in nazionalismo (Leyens et al., 2007), distinguendolo dal patriottismo, in quanto non consiste solamente nell’orgoglio percepito per il proprio ingroup (legato comunque ad una forte identificazione), ma anche nella denigrazione degli outgroup. Inoltre, evidenziano come un’alta identificazione con l’ingroup sia necessaria perché si sviluppi l’infraumanizzazione: chi non presenta un forte legame affettivo o cognitivo con l’ingroup meno probabilmente percepisce che il confine arbitrario tra ingroup e outgroup comporti una minor essenza umana di quest’ultimo. In tutti gli studi analizzati (tra cui Viki & Calitri, 2008), viene evidenziato come chi ha un elevato grado di identificazione con il proprio gruppo presenta maggiore possibilità di infraumanizzare.

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

 

Target deumanizzati e infraumanizzati

Target deumanizzati e infraumanizzati

I ricercatori hanno documentato il fenomeno della deumanizzazione considerando una serie numerosa di gruppi target, tra cui possono essere citati gruppi etnici (in cui la deumanizzazione viene considerata una forma di etnocentrismo), gruppi razziali e gruppi che non hanno una diversa etnicità bensì mostrano differenze di tipo sociale e storico-culturale. Inoltre, espandendo la gamma di soggetti deumanizzati, sono state osservate altre forme latenti di deumanizzazione con gruppi occupazionali (disoccupati), persone appartenenti a basse classe sociali, pazienti, malati mentali, maniaci sessuali, criminali violenti e omosessuali (Haslam & Loughnan, 2014). Una categoria frequentemente soggetta a deumanizzazione è quella delle donne. Alcuni studi confermano che focalizzarsi sull’apparenza delle donne a discapito della personalità porta a percepirle come mancanti di natura umana (e quindi di tratti come valore e competenza), soprattutto se i loro corpi vengono sessualizzati: se in alcuni casi tutto ciò porta a percepirle come più simili agli animali (Vaes, Paladino & Puvia, 2011), in altri esse vengono assimilate ad oggetti inanimati, privi cioè della natura umana (Heflick, Goldenberg, Cooper & Puvia, 2011).

Finora abbiamo analizzato la deumanizzazione come un processo che riguarda individui e gruppi nei confronti di altri gruppi, ma secondo Haslam e Loughnan (2014) essa può avvenire anche a livello individuale. Ciò porta l’individuo ad attribuirsi più umanità rispetto agli altri (effetto auto-umanizzante); inoltre, se si verificano alcune condizioni, può anche avvenire una autodeumanizzazione, ovvero una percezione di minor umanità di se stessi. Essa è riscontrabile soprattutto in chi ha subito o subisce episodi di esclusione sociale (Bastian & Haslam, 2011), che mostra la tendenza a definirsi come mancante di alcuni tratti della natura umana.

Ma quali sono dunque gli elementi in comune dei target deumanizzati? Per rispondere a questa domanda Haslam e Loughnan (2014) citano alcuni esperimenti che esaminano la percezione verso molteplici gruppi. Il primo di questi (Harris & Fiske, 2006) è basato sul modello del contenuto degli stereotipi (SCM) e mostra che la corteccia mediale prefrontale, legata alla cognizione sociale, si disattiva con membri di gruppi appartenenti al quadrante basso-basso, ovvero caratterizzati da un basso valore percepito sia riguardo al calore sia alla competenza. Questo avviene durante il contatto con persone che appartengono alle classi sociali più basse, come ad esempio barboni o drogati. Analogamente, Vaes e Paladino (2010) rilevano che gli Italiani del Nord infraumanizzano diversi gruppi etnici, in particolare quelli stereotipati a cui vengono attribuiti minor calore e competenza. Anche Vaes e Paladino (2007) analizzano, tramite l’SCM, la funzione di moderazione dello status dei gruppi sull’infraumanizzazione.

Effettuando un’analisi sistematica su prototipicità di ingroup e outgroup, umanità e valenza, essi trovano come i diversi outgroup vengono distribuiti lungo due dimensioni ortogonali (calore e competenza); inoltre, la prototipicità dell’ingroup è predetta dall’umanità percepita così come le differenze di tipicità tra ingroup e outgroup (mostrando infraumanizzazione).Le caratteristiche valutate tipiche per gli outgroup bassi sia in calore sia in competenza sono quelle percepite come meno umane. Inoltre, diversi studi evidenziano anche come i gruppi vengono infraumanizzati anche in assenza di un aperto conflitto: per la scuola di pensiero di Leyens il conflitto non è una condizione necessaria, anche se in caso di conflitti lievi viene ad aumentare la possibilità di infraumanizzazione. Di fatto, visto che lo status non modera l’infraumanizzazione e che non è necessario un conflitto aperto, nessun gruppo è escluso dalla tendenza ad essere infraumanizzato, e ciò rende particolarmente complicato il fenomeno perché non solo è molto diffuso ma può anche essere difficile da individuare. Secondo Leyens et al. (2007) l’infraumanizzazione avviene anche verso i gruppi di altro status; essa è legata però solamente alle emozioni secondarie e non agli altri tratti della natura umana. In ogni caso, lo status non permette di predire i livelli di deumanizzazione: nello studio di Rodriguez-Perez, Delgado-Rodriguez, Betancor-Rodriguez, Leyens e Vaes (2011), l’attribuzione di emozioni secondarie ai membri di 27 gruppi diversi non risulta correlata con la percezione dello status di questi gruppi. Leyens et al. (2007) ne deducono che i gruppi dominanti usano più criteri di deumanizzazione rispetto a quelli dominati, giudicando questi ultimi meno umani sia sulla dimensione del calore (ovvero le emozioni secondarie) che su quella della competenza (ovvero le proprietà definite da Haslam come appartenenti alla natura umana).

Uno studio condotto nel contesto italiano (Capozza, Andrighetto, Di Bernardo & Falvo, 2012) suggerisce che tra gli attributi di calore e competenza siano questi ultimi ad essere più rilevanti; inoltre i gruppi di basso status sono deumanizzati più facilmente e, poiché la deumanizzazione avviene solo dall’alto verso il basso, le differenze intergruppi basate su stereotipi collegati alla competenza moderano la deumanizzazione. Gli autori infatti dimostrano che i gruppi di alto status deumanizzano implicitamente i gruppi di basso status, che invece non si percepiscono affatto come più umani dei gruppi di alto status (generando un’asimmetria). In conclusione, i target bassi-bassi (sia in termini di calore che di competenza) sono i più vulnerabili. La deumanizzazione verticale è legata allo status sociale e alla dominanza, mentre le altre forme di deumanizzazione orizzontale sono basate sulla distanza e sulla disconnessione tra gruppi; un esempio di questo fenomeno è nella medicina, dove i pazienti vengono trattati con un distacco emozionale (Lammers & Stapel, 2011).

Secondo Haslam e Loughnan (2014) un ruolo fondamentale è svolto anche dalla familiarità con l’outgroup, infatti gli effetti di deumanizzazione maggiori vengono riscontrati per gruppi che sono socialmente più distanti, o per quelli subordinati (ad esempio, in un rapporto schiavo-padrone). Secondo Leyens e colleghi (2007) invece ciò è legato alla rilevanza dell’outgroup, che viene descritta come una sorta di interdipendenza sociale tra i due gruppi: più essa è elevata (e quindi i due gruppi sono vicini geograficamente e “costretti” alla coesistenza con conseguenze reciproche) e maggiore è la probabilità che avvenga deumanizzazione.

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

 

Le diverse forme di deumanizzazione e infraumanizzazione

Le diverse forme di deumanizzazione e infraumanizzazione

Esistono due diverse forme di deumanizzazione: la prima è esplicita, manifesta e percepibile dal soggetto deumanizzato, mentre la seconda è una forma subdola, implicita e inconscia (Haslam & Loughnan, 2014). La prima forma presenta delle metafore esplicite che associano il gruppo alla mancanza di umanità, per cui vengono espressi giudizi assoluti sul gruppo deumanizzato.

Essa perciò è una forma radicale di svalutazione dell’altro che viene completamente escluso dall’umanità e ridotto, secondo i processi descritti, ad animale o oggetto. Queste forme più esplicite e violente di deumanizzazione sono direttamente offensive verso il target e vengono espresse tramite il linguaggio.

Ad esempio, Tileag? (2007) ha osservato come i cittadini Rumeniinsultano mediante il linguaggio gli zingari che abitano in Romania. Haslam, Loughnan & Sun (2011) dimostrano che le metafore animaliste sono chiara espressione di degradazione e disgusto. La seconda forma di deumanizzazione (implicita, inconscia e latente) si manifesta mediante l’attribuzione di tratti meno umani, ed implica giudizi relativi verso i gruppi. Queste sottili negazioni di totale umanità non hanno bisogno, per manifestarsi, di situazioni di ostilità sociale, ma accompagnano la vita quotidiana senza che il target ne abbia consapevolezza.

Tale forma di deumanizzazione è paragonabile all’infraumanizzazione descritta da Leyens e colleghi (2007), che però ne considerano solamente gli aspetti legati alle caratteristiche unicamente umane delle emozioni secondarie.

Un metodo utile per identificare la forma implicita di deumanizzazione è l’utilizzo delle scale self-report, che valutano le percezioni relative a devianti (“sono come gli animali”, Bandura, Barbaranelli, Caprara, Pastorelli, 1996), nemici (“i terroristi sono come vermi da sterminare”, Jackson & Gaertner, 2010) e gruppi etnici (“gli indiani erano come dei selvaggi prima dell’arrivo dell’uomo bianco”, Castano & Giner-Sorolla, 2006). Ma dove si trova il confine tra esplicito ed implicito? La forma più rilevante di deumanizzazione “sottile” è appunto l’infraumanizzazione che viene inclusa da Haslam e colleghi (2014) tra i processi di deumanizzazione animalistica: nella sua concezione di deumanizzazione tutte le varie forme, siano esse manifeste o latenti, fanno parte dello stesso fenomeno.

Per Leyens e colleghi (2007), come detto, deumanizzazione e infraumanizzazione sono, invece, processi distinti; anche l’infraumanizzazione però può essere deliberata o inconsapevole. Usando misure implicite si è trovato che si associano più rapidamente le emozioni secondarie all’ingroup rispetto all’outgroup. Questo risultato mette in luce quanto questo fenomeno sia radicato e quanto, dunque, possa risultare minaccioso a livello sociale (a causa delle sue conseguenze comportamentali negative nei confronti dell’outgroup), nonostante essa rappresenti una forma di bias più sottile e meno estremo delle deumanizzazione.

Per dimostrare il modello dell’infraumanizzazione, Leyens et al. (2007) effettuano uno studio della relazione tra ingroup/outgroup, emozioni secondarie ed umanità basato sulle seguenti ipotesi (Figura 1):

•    Esistono caratteristiche riconosciute come unicamente umane;

•    La relazione con questi attributi è più forte per l’ingroup rispetto all’outgroup.

Figura 1 – Le ipotesi alla base del modello di infraumanizzazione di Leyens  et al. (2007)

Nella loro rassegna di studi vengono analizzati diversi esperimenti che hanno testato separatamente queste relazioni e che verranno ora discussi nel dettaglio.

Caratteristiche unicamente umane (Collegamenti B-C e B’-C’). Per valutare l’umanità dei gruppi, è stato chiesto a studenti Spagnoli, Belgi di lingua francese (Leyens et al., 2000) e Portoghesi (Miranda & Gouveia-Pereira, 2006) di descrivere, mettendo in ordine decrescente, le caratteristiche unicamente umane che caratterizzano la propria razza. Al primo posto gli studenti hanno indicato l’intelligenza e le parole associate al ragionamento, mentre al secondo posto troviamo termini associati al linguaggio (come ad esempio la comunicazione) o la parola “sentimenti”. Si nota come gli studenti non abbiano mai utilizzato la parola “emozione”, poiché essa viene ritenuta non unicamente umana a differenza dei sentimenti, che al contrario sono considerati unicamente umani. Ma qual è la differenza tra le parole sentimenti ed emozioni? La risposta ci viene fornita da uno studio condotto in diverse culture (Demoulin, Leyens, Paladino, Rodriguez, Rodriguez & Dovidio, 2004), con ragazzi di quattro lingue diverse: Inglese, Fiammingo, Francese e Spagnolo. È stato loro chiesto di ordinare una lista di parole emozionali, sia positive che negative, in una serie di quesiti sulle caratteristiche umane ed animali. Una delle domande centrali era: “pensi che la capacità di vivere questa emozione sia solo per gli umani o anche per gli animali?”. Dai risultati dello studio è emerso che le emozioni unicamente umane sono valutate come meno intense, meno visibili, più interiori, più lunghe e soggette ad apparire più avanti negli anni. Ciò mostra un legame positivo tra emozioni secondarie e umanità e, dato che nel modello dell’infraumanizzazione vi è un legame positivo tra umanità e ingroup (A-C), deve necessariamente esserci un’associazione positiva anche tra ingroup ed emozioni secondarie (AB). Quest’associazione inoltre è più forte di quella tra gli outgroup e le emozioni secondarie (A’-B’) visto che per ipotesi si suppone che l’umanità dell’outgroup sia considerata minore di quella dell’ingroup (A’-C’). Per quanto riguarda le emozioni primarie, invece, non è stata riscontrata una differenza sostanziale tra la loro associazione con l’ingroup o con l’outgroup, suggerendo che queste emozioni non vengano percepite come esclusivamente umane. E’ interessante notare come nello studio citato si parli di emozioni secondarie in generale, il che vuol dire che all’ingroup vengono associate maggiori emozioni secondarie, sia positive che negative, rispetto all’outgroup. Questo ci permette di distinguere il fenomeno dell’infraumanizzazione dal favoritismo per l’ingroup, in cui le persone attribuiscono solo caratteristiche positive al proprio gruppo. In conclusione, l’infraumanizzazione consiste nell’attribuzione di più emozioni secondarie (sia positive che negative) ai membri dell’ingroup, mentre ciò non succede per le emozioni primarie. Bisogna quindi valutare, visto che la definizione comparativa di umanità mette in contrasto l’essere umano con gli altri animali, se in caso di infraumanizzazione si estenda anche agli outgroup infraumanizzati l’associazione con gli animali (Viki, Winchester, Titshall, Chisango, Pina & Russell, 2006).

Collegamento preferenziale delle emozioni secondarie agli Ingroup (links A-B e

A’-B’). Le ipotesi dell’infraumanizzazione sono state testate tramite differenti paradigmi sperimentali. I più interessanti sono i seguenti.

    1. Associazioni implicite dell’ingroup con le emozioni unicamente umane. L’ipotesi che vi sia un collegamento privilegiato tra ingroup ed emozioni secondarie è stata confermata grazie all’utilizzo dello IAT (Paladino et al., 2002), un test composto da due fasi, in cui i partecipanti devono associare emozioni primarie o secondarie rispettivamente all’ingroup (fase compatibile) ed all’outgroup (fase incompatibile). Misurando la latenza delle risposte nei due tipi di blocchi di prove, si è trovato che le persone rispondono più rapidamente quando l’ingroup è associato alle emozioni secondarie, e l’outgroup viene associato alle emozioni primarie. Altri esperimenti confermano queste ipotesi.
    2. Attribuzioni esplicite di emozioni unicamente umane all’ingroup. Diversi esperimenti hanno testato se queste specifiche emozioni si adattino meglio all’ingroup rispetto all’outgroup. Il metodo più diretto (Castano & Giner-Sorolla, 2006; Delgado, 2007) consiste nell’elencare 26 parole relative a: emozioni secondarie, emozioni primarie, competenza e socialità (tre con significato negativo, tre positive), intelligenza e talento. Viene chiesto ai partecipanti di elencare, tra queste, 10/12 caratteristiche ritenute prototipiche dell’ingroup e altrettante dell’outgroup. Si è notato come vengano attribuite più emozioni secondarie all’ingroup (sia positive sia negative) mentre ciò non accade per le emozioni primarie; inoltre, i gruppi di alto status sono giudicati superiori sia sull’intelligenza che sul talento, mentre i gruppi di basso status sono valutati equivalenti all’outgroup su questi due tratti, ma inferiori riguardo alla competenza. 3) Riluttanza ad attribuire le emozioni unicamente umane all’outgroup.

Visto che i membri dell’ingroup considerano l’umanità una loro proprietà, essi potrebbero reagire negativamente se i membri dell’outgroup esprimessero emozioni tipicamente umane, poiché tutto ciò potrebbe essere percepito come una minaccia (Branscombe et al., 2005). Queste conseguenze sono state studiate da Vaes, Paladino e Leyens (2002) che hanno utilizzato la tecnica della lettera perduta di Milgram. I risultati mostrano che solidarietà e gentilezza, a parità di altre condizioni, variano nella relazione con un membro dell’outgroup o dell’ingroup; inoltre, anche quando un membro dell’outgroup si mostra amichevole, se questi dimostra delle emozioni secondarie, vi è la tendenza a reintrodurre i confini invisibili che lo separano dal proprio ingroup.

Ingroup totalmente umano (links A-C e A’-C’). Nello studio di Boccato, Capozza, Falvo e Durante (2008), realizzato nello stesso contesto intergruppi che verrà analizzato nella sperimentazione oggetto della tesi (la relazione tra Italiani Settentrionali e Meridionali), a studenti del Nord Italia venivano mostrate, per ogni prova, figure umane oppure di scimmia (a livello subliminale), e veniva successivamente chiesto loro di rispondere ad un compito di decisione lessicale. Le parole critiche erano rappresentate da nomi propri tipici del Nord oppure del Sud Italia. I risultati mostrano che i partecipanti erano più veloci nel rispondere a nomi del Nord Italia se essi erano stati preceduti dall’immagine di una faccia umana, mentre non vi era differenza tra nomi settentrionali e meridionali se erano preceduti dal volto di una scimmia; si dimostra, quindi, la maggiore associazione dell’ingroup, rispetto all’outgroup, con l’umanità.

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

Deumanizzazione ed infraumanizzazione

Deumanizzazione ed infraumanizzazione

Definizioni, analogie e differenze

Per comprendere al meglio i fenomeni di infraumanizzazione e deumanizzazione legati alla percezione dei gruppi dobbiamo necessariamente considerare il processo di categorizzazione (Voci & Pagotto, 2010). Grazie all’utilizzo di categorie, infatti, le persone riescono a ridurre la complessità dell’ambiente che li circonda: l’inserimento, sulla base di un principio di somiglianza, di un numero elevato di stimoli differenti all’interno di classi più ampie, consente di ridurre gli innumerevoli casi singoli a un numero molto più limitato di categorie. La formazione stessa delle categorie sociali o di gruppi porta inevitabilmente ad una percezione di accentuata omogeneitàall’interno di un gruppo e differenziazione tra gruppi diversi (processi di assimilazione intracategoriale e differenziazione intercategoriale). Le persone non si limitano a categorizzare gli altri, ma categorizzano anche se stesse: i gruppi che coinvolgono al loro interno il sé vengono denominati ingroup, e saranno concepiti come gruppi “speciali” (in quanto nostri), mentre i gruppi in cui il sé non è incluso vengono denominati outgroup. La formazione di stereotipi, pregiudizi e discriminazioni sono il prodotto del normale funzionamento della mente umana, basato sulla categorizzazione sociale, e dei processi motivazionali di valorizzazione dei gruppi di appartenenza, legati al bisogno di raggiungere e mantenere un’identità sociale positiva (Tajfel, 1981).

Tra le molteplici forme di discriminazione, pregiudizio e ostilità nei confronti di chi è diverso da sé (gli outgroup), assistiamo spesso anche a forme particolarmente gravose, caratterizzate dalla negazione totale o parziale dell’umanità altrui, ovvero la tendenza a percepire i gruppi estranei come “meno umani”, “non umani” o “sub-umani”. La mancata o ridotta attribuzione di umanità o caratteristiche umane agli altri rappresenta infatti, per suoi contenuti, una forma “aggravata” di discriminazione, in quanto viene messa in discussione una delle proprietà basilari della persona, ovvero l’umanità. Tali processi, che richiamano alla mente tragedie e stermini di massa, sono piuttosto diffusi (anche se prevalentemente in forme sottili e implicite) e possono avere conseguenze disastrose specialmente quando avvengono in forma manifesta. In particolare, tali fenomeni sono stati studiati in due distinti filoni teorici ed empirici della ricerca scientifica (per una rassegna vedi Haslam & Loughnan, 2014): l’infraumanizzazione (Leyens et al., 2007) e la deumanizzazione (Haslam et al., 2006).

Entrambe le teorie partono dall’assunto secondo cui forme radicate di pregiudizio possono sorgere dalla percezione che l’ingroup e l’outgroup non condividano la stessa essenza in questo caso, l’essenza umana, trattandosi di gruppi di esseri umani. L’ essenzialismo (Medin, 1989; Leyens et al., 2007) consiste nella convinzione che le persone e i gruppi sono sostanzialmente differenti tra loro e che quindi esistono delle discontinuità nell’umanità degli stessi. Le conseguenze di questa percezione sono però diverse secondo i due approcci.

Secondo Leyens, Rodriguez, Rodriguez, Gaunt, Paladino, Vaes & Demoulin (2001) le persone, in determinate circostanze, possono ritenere che i membri dell’ingroup abbiano un’essenza “maggiormente umana” rispetto ai membri dell’outgroup. Nei loro studi, l’essenza umana viene connessa solamente al fatto di essere in grado di provare emozioni secondarie. Queste infatti, a differenza delle emozioni primarie (quali gioia, sorpresa, paura, tristezza, rabbia, disgusto), immediatamente visibili e poco complesse, sono stati affettivi complessi, con una caratterizzazione cognitiva e spesso legati alla moralità. Tra queste emozioni secondarie, secondo Leyens et al. (2001), possiamo citare il rimorso, la nostalgia, l’intelligenza, il linguaggio, e tutti i sentimenti. Tutti gli esseri viventi, quindi umani e animali, provano emozioni primarie, ma solo gli esseri umani sono in grado di sperimentare le emozioni secondarie. La minor attribuzione di umanità all’outgroup è legata, quindi, nella teoria dell’infraumanizzazione di Leyens, dalla capacità di provare in minor misura queste emozioni secondarie.

Un ulteriore studio (Leyens et al., 2003) dimostra che l’infraumanizzazione è un fenomeno persistente in diversi contesti intergruppi, è evidente anche in assenza di conflitti intergruppi manifesti, ma quando vi siano differenze consistenti tra ingroup ed outgroup, ed è infine indipendente dai fenomeni di denigrazione dell’outgroup e di favoritismo per l’ingroup. Infatti, riguardo a quest’ultimo punto, mentre il favoritismo per l’ingroup consiste nell’associare solamente valori e caratteristiche positive al proprio gruppo e la denigrazione dell’outgroup nell’associare ad esso valori e caratteristiche negative, nell’infraumanizzazione vengono associate all’ingroup più emozioni secondarie, (unicamente umane), sia di tipo positivo sia di tipo negativo, come ha dimostrato uno studio che ha utilizzato una tecnica implicita di rivelazione delle associazioni gruppi-emozioni secondarie (Paladino et al., 2002).

E’ necessario sottolineare altri due aspetti: l’infraumanizzazione, secondo i suoi teorici, consiste in una tendenza pervasiva dettata dal bisogno di distinguere positivamente il proprio gruppo di appartenenza, ovvero è una conseguenza del processo di categorizzazione sociale. In virtù di queste assunzioni, Leyens et al. (2000) hanno sostenuto che tutti i membri dell’outgroup vengono percepiti come meno umani rispetto a coloro che appartengono all’ingroup. Inoltre, l’infraumanizzazione ha una varietà di implicazioni comportamentali che portano non solo alla mancata percezione dell’umanità altrui, ma anche ad un’evidente riluttanza nell’accettarla.

Il secondo approccio teorico relativo alle percezioni di umanità è quello della deumanizzazione proposto da Haslam (2006). L’approccio di Haslam si rifà al dualismo già evidenziato in diverse altre teorie psicologiche (come la percezione della mente di Gray, Gray & Wegner, 2007) differenziandosi da quello di Leyens e collaboratori (2000, 2001) principalmente perché effettua una distinzione tra le caratteristiche “unicamente umane” e le caratteristiche “legate alla natura umana”. Le prime sono quelle che differenziano gli esseri umani da quelli animali: tra queste rientrano sicuramente le emozioni secondarie già considerate da Leyens, ma anche altre capacità cognitive complesse e aspetti generali legati a civiltà, razionalità, moralità, socializzazione e cultura. Le caratteristiche legate alla natura umana sono invece quelle che, anche se possono in qualche misura caratterizzare le altre specie animali, sono ritenute centrali nel differenziare il genere umano da oggetti inanimati che ne sono invece privi, costituendo il nucleo di quella che può essere definita “umanità”. Esse riguardano per Haslam l’emotività, la vitalità ed il calore. A seconda di quale caratteristica venga negata all’outgroup, si possono quindi avere due tipi di deumanizzazione: quella animalistica o quella meccanistica. Quando ad un determinato gruppo vengono negate le caratteristiche unicamente umane, i suoi membri sono percepiti come privi di controllo sugli istinti, poco intelligenti, immaturi ed immorali: in altre parole, vengono assimilati alle altre specie animali. Invece, se ad essere negate sono quelle caratteristiche legate alla natura umana, i membri dell’outgroup saranno visti come freddi, rigidi e poco profondi: in altre parole, saranno considerati al pari di apparecchi meccanici (come degli automi) assimilati quindi alle macchine.

Il modello duale di Haslam (2006) appare maggiormente completo rispetto al precedente, e per diversi motivi. Esso riesce a superare i limiti della classica distinzione tra uomo e animale, introducendo anche gli oggetti come termine di paragone. Inoltre, invece di limitarsi all’analisi di un fenomeno specifico nella percezione dei gruppi, consente di classificare secondo diversi criteri le diverse forme di deumanizzazione che possono essere latenti o manifeste, animali o meccaniche, interpersonali o intergruppi.

L’infraumanizzazione, secondo Leyens ed i suoi collaboratori (2000, 2001), è un processo che deve essere necessariamente distinto dalla deumanizzazione, poiché presenta numerose differenze rispetto ad essa.

Secondo la loro teoria, mentre nel processo di deumanizzazione l’outgroup viene considerato totalmente disumano, nell’infraumanizzazione l’outgroup è semplicemente percepito come qualcosa di meno umano e più simile agli animali rispetto all’ingroup. Inoltre, mediante la deumanizzazione si giunge necessariamente a conflitti armati o manifesti (generando inoltre un’esclusione morale verso l’outgroup), mentre l’infraumanizzazione è per certi versi più  sottile: essa si presenta come una variazione simultanea dei fenomeni di amore verso l’ingroup e odio verso l’outgroup, che in questo caso sono fortemente associati poiché avvengono insieme (Brewer, 1999). L’infraumanizzazione è teorizzata includendo entrambi questi fenomeni come un doppio movimento che incrementa la valorizzazione dell’ingroup e abbassa il valore dell’outgroup. Tra le altre differenze, secondo questa teoria, l’infraumanizzazione riguarda solamente le relazioni intergruppi e non quelle interpersonali (Leyens et al., 2007); infine, questi teorici evidenziano che la relazione per cui l’ingroup si crede più umano rispetto all’outgroup è legata maggiormente al nazionalismo, che viene chiaramente distinto dal patriottismo. Quest’ultimo si riferisce soltanto all’avere un forte orgoglio verso il proprio gruppo, mentre il nazionalismo unisce a questo orgoglio anche una svalutazione e denigrazione dell’outgroup.

Per concludere, Leyens e i suoi colleghi (2007) sostengono che sia la deumanizzazione animalistica ad essere una branca dell’infraumanizzazione, mentre Haslam ed i suoi colleghi (2006) sostengono l’opposto, ovvero che l’infraumanizzazione sia una forma di deumanizzazione animalistica. La diatriba tra le due scuole di pensiero è attualmente ancora in corso, ma di certo questi fenomeni sono intimamente legati tra di loro.

Verranno adesso analizzati nel dettaglio i diversi aspetti della deumanizzazione e dell’infraumanizzazione, basati sul modo in cui avvengono, sulle caratteristiche dei gruppi e delle persone che la subiscono o la causano, sui fattori situazionali e motivazionali in cui si verificano. Infine, verranno discussi i loro diversi effetti e le strategie di riduzione potenzialmente più efficaci.

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Introduzione

La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia

 

Introduzione

La società odierna è caratterizzata dalla coesistenza, a volte forzata, di diversi gruppi sociali che sono differenti gli uni dagli altri non solo per le loro caratteristiche fisiche (come il colore della pelle), ma anche per una serie di attributi legati alle loro differenze culturali, al loro credo ideologico-religioso, alle loro condizioni economiche, gusti sessuali o tradizioni. La psicologia sociale da tempo si dedica all’analisi dei fenomeni che avvengono nei diversi contesti intergruppi, focalizzandosi in particolare sugli effetti del contatto nella riduzione del pregiudizio tra i gruppi.

Il presente lavoro di tesi riguarda il fenomeno del pregiudizio esistente in un contesto intergruppi particolare e a noi vicino, che è stato oggetto da tempo di analisi da parte della comunità scientifica: è quello composto da Italiani Settentrionali e Meridionali, che pur avendo la stessa nazionalità e lo stesso credo religioso, sono molto diversi per quanto riguarda le rispettive condizioni di benessere economico, le tradizioni culturali e le espressioni linguistiche. A ciò si aggiungono diversi stereotipi che rafforzano una percezione negativa delle differenze reciproche tra i due gruppi: gli abitanti del Nord Italia vengono spesso etichettati come onesti contributori fiscali, dediti più al lavoro che alla famiglia, piuttosto freddi e poco socievoli con gli altri; gli abitanti del Sud sono invece spesso dipinti come ospitali e calorosi fannulloni, propensi all’evasione fiscale e alla truffa, legati indissolubilmente alla famiglia e alle proprie tradizioni locali. Naturalmente, quelli appena descritti sono solamente stereotipi legati alla visione che ognuno dei due gruppi ha dell’altro, ma di certo contribuiscono ad alimentare il conflitto esistente tra Nord e Sud Italia.

L’esistenza di questi conflitti e la loro influenza sulla vita quotidiana è sicuramente legata ai fenomeni di deumanizzazione e infraumanizzazione (Haslam & Loughnam, 2014), che nei contesti intergruppi portano ad una ridotta o assente attribuzione di stati mentali ai membri di un gruppo diverso dal proprio.

Il primo capitolo tratta appunto di questi due fenomeni, analizzando nella prima parte le basi teoriche, evidenziando analogie e differenze e descrivendo le varie forme in cui esse possono avvenire; successivamente, vengono approfondite le caratteristiche degli individui e dei gruppi che subiscono tali attribuzioni di minore umanità, degli individui e dei gruppi che le mettono in atto e le condizioni sotto le quali esse sono più probabili. Infine, vengono analizzati gli effetti di questi due fenomeni sulle relazioni intergruppi e interpersonali, e vengono discusse le strategie più efficaci per la loro riduzione.

Da più di mezzo secolo è stato individuato dagli studiosi, a partire dall’ipotesi del contatto di Allport (1954) un tipo “speciale” di contatto che ha effetti particolarmente positivi sulle relazioni intergruppi: si tratta dell’amicizia crossgroup (Pettigrew, 1997). Essa può avvenire in due forme: l’amicizia cross-group diretta consiste nel contatto diretto tra membri dell’ingroup e dell’outgroup, mentre l’amicizia cross-group estesa (Wright, Aron, McLaughlin-Volpe & Ropp, 1997) è un’esperienza vicaria che consiste nella semplice osservazione o conoscenza dell’amicizia tra un membro dell’ingroup e un membro dell’outgroup. Il secondo capitolo tratta proprio di queste due forme di amicizia intergruppi, focalizzandosi sui fattori mediatori e moderatori nella relazione tra questi tipi di contatto e l’atteggiamento verso l’outgroup. Viene, infine, trattata la loro efficacia nei diversi contesti intergruppi.

I fenomeni di pregiudizio intergruppi sono riconducibili a processi che riguardano la percezione della mente, sia propria che altrui; il terzo capitolo tratta appunto della teoria psicologica della percezione della mente (Waytz, Gray, Epley, & Wegner, 2010), che risulta dipendente dalle caratteristiche dei membri gruppo che la percepiscono o che vengono percepiti. Viene evidenziato il dualismo tra le due dimensioni della percezione delle mente (agency ed experience) e approfondito il ruolo che riveste il corpo nella percezione della mente altrui.

Diversi fattori possono influire sia sulle attribuzioni di umanità e di mente sia sul conseguente atteggiamento verso gli altri. Un ruolo particolare è rivestito dalle meta-attribuzioni, ovvero dai processi di comprensione di cosa gli altri individui e gruppi pensino di noi. Il quarto capitolo è dedicato proprio alle metaattribuzioni, analizzando caratteristiche e processi che incidono sulla loro formazione, i suoi effetti sulle relazioni intergruppi e le strategie di riduzione degli effetti negativi che esse possono avere.

Infine, nel quinto capitolo verrà descritto lo studio condotto considerando il contesto intergruppi descritto precedentemente. Lo studio ha l’obiettivo di analizzare il legame tra amicizie cross-group (dirette ed estese), attribuzioni di umanità e di mente all’outgroup esaminando partecipanti settentrionali (ingroup; Meridionali sono l’outgroup). I dati sono stati raccolti tramite la somministrazione di oltre 300 questionari a studenti universitari frequentanti l’Università di Padova. Nel capitolo, quindi, vengono inizialmente descritti gli obiettivi e le ipotesi alla base della ricerca, il metodo, nonché le misure utilizzate nel questionario. Vengono, infine, riportati i risultati delle analisi, discutendo le loro implicazioni a livello teorico e applicativo.

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa