Verso una risposta psicologica al quesito dell’altruismo

Verso una risposta psicologica al quesito dell’altruismo

L’esistenza di un altruismo puro, motivato solo dall’interesse di accrescere il benessere del prossimo, come abbiamo visto, è stata messa in discussione dai pensatori di ogni epoca. Anche la psicologia sin dalle sue origini ha cercato di rispondere a questa millenaria questione.  Tuttavia, un attenzione ad uno studio sistematico sulle motivazioni che portano ad aiutare le persone si è avuto solo a partire degli anni ’70.

Pionieristici in questo senso sono stati gli studi di Isen e i suoi collaboratori (1970; Isen e Levin, 1972) che sono stati tra i primi ad indagare l’incidenza dell’umore nel comportamento d’aiuto. In un esperimento, Isen e Levin (1972) chiedevano ai partecipanti quanti minuti fossero disposti a concedere allo sperimentatore per aiutarlo come complici in alcuni altri esperimenti. Coloro che avevano ricevuto un biscotto subito prima della prova mostravano una disponibilità significativamente maggiore rispetto agli altri. Isen (1970) ha anche dimostrato come il fatto di aver avuto successo o aver fallito in una prova possa essere sufficiente ad indurre le persone ad essere più o meno generose quando fanno un offerta di beneficenza. In un esperimento, infatti, degli insegnanti di un sistema scolastico suburbano che avevano ricevuto un feedback positivo erano significativamente più propensi a lasciare più monete ad un complice dello sperimentatore che chiedeva loro un contributo per l’istallazione dell’aria condizionata nel loro istituto rispetto a quelli che invece avevano ricevuto un feedback negativo. Quest’ultime poi non facevano donazioni significativamente più elevate rispetto ad un gruppo di controllo in cui non era stato manipolato l’umore in alcun modo. Il fatto che l’induzione di un affetto negativo portasse i partecipanti di questo esperimento a donare quanto quelli il cui affetto era neutrale è particolarmente interessante alla luce del fatto che in altri studi è stato mostrato invece che gli affetti negativi, tristezza in particolare, possono motivare le persone ad un comportamento altruistico.

 

In questa direzione vanno gli studi di Cialdini e colleghi (Cialdini, Darby, Vincent, 1973; Cialdini, Kenrick, 1976; Cialdini, Schaller, Houlihan, Arps, Fultz, Beaman, 1987) che hanno proposto un modello secondo il quale le persone quando sono tristi sono più propense ad aiutare un altro in difficoltà perché questo gli consente di “sollevarsi” dallo stato negativo che sperimentano. Questo modello prende il nome di negative state relief model, ovvero modello del sollievo dagli stati d’animo negativi, e propone un’idea edonistica dell’altruismo. Infatti secondo questo punto di vista le persone aiutano altre persone perché questo gli procura piacere, esattamente come gliene procurerebbe una somma di denaro o una gratificazione esterna di altro genere. Cialdini, Darby, Vincent (1973) per testare questo modello fecero in modo che i partecipanti di un loro esperimento fossero coinvolti in un disastro. In particolar modo gli sperimentatori avevano sistemato una sedia in modo tale che spostandola si rovesciassero tre scatole di schede per computer. Metà dei partecipanti, ignari della trappola, spostando la sedia ribaltavano le scatole ed il loro contenuto. Per la metà restante invece la sedia veniva spostata dallo sperimentatore e quindi loro assistevano solo alla scena. I partecipanti di queste due condizioni erano a loro volta suddivisi in altre due condizioni. Nella condizione di sollievo (relief)  il partecipante otteneva 1$ oppure un feedback positivo riguardo la sua prestazione in un compito. Nella condizione di non-sollievo (no-relief) invece non era prevista alcuna gratifica. Infine, a tutti i partecipanti era data la possibilità di aiutare uno studente nello svolgimento di alcuni altri compiti. Come ipotizzato da Cialdini et al. (1973) i partecipanti che avevano ricevuto una somma di denaro o una gratifica erano significativamente meno propensi ad aiutare lo studente rispetto a coloro che non avevano ricevuto alcuna gratificazione. Inoltre, diversamente da quanto mostrato da Isen (1970), i partecipanti di un gruppo di controllo che non avevano affrontato alcuna manipolazione sperimentale erano significativamente meno altruistici rispetto ai partecipanti della condizione di no-relief.  Cialdini e collaboratori (1973; 1976; 1987) con i loro studi e le loro argomentazioni teoriche hanno dunque dato valido supporto ad una visione egoistica della natura umana dove l’uomo aiuta non per un vero e proprio interesse verso il prossimo ma perché ha appreso, grazie alla sua esperienza, che questo aiuta a migliorare il proprio stato d’animo.

Non tutti gli studiosi tuttavia hanno condiviso la teoria proposta da Cialdini e colleghi.

In questo senso, uno dei più grandi sostenitori dell’altruismo puro, è stato sicuramente Daniel Batson che con i suoi collaboratori (Coke, Batson & Davis, 1978; Batson & Coke, 1981; Batson, et al. 1997) ha dimostrato che l’empatia può portare ad aiutare un’altra persona sofferente. Batson e colleghi (1978; 1981) inducevano alcuni dei partecipanti a provare un interesse empatico verso una ragazza di nome Elaine che in un compito di apprendimento composto da dieci prove avrebbe dovuto subire delle scosse ogni volta che sbagliava. In una condizione, detta di fuga difficile, i partecipanti dovevano assistere a tutte e dieci le scosse. Nell’altra potevano limitarsi ad osservare solo le prime due scosse e poi andarsene. Elaine, che in realtà era un attrice, dopo le prime due scosse appariva visibilmente turbata, perché da piccola, in seguito ad un incidente a cavallo, era finita su una staccionata elettrica. Lo sperimentatore, anch’esso un attore, chiedeva allora al partecipante se fosse disposto a scambiarsi di posto con la ragazza. Come si aspettavano gli sperimentatori, coloro che erano costretti a guardare tutta la serie di prove avrebbero aiutato la povera Elaine, pur di non vederla soffrire ancora, ma solo quelli che prima del compito erano stati indotti a provare un interesse empatico per la ragazza erano disposti a sostituirsi a lei anche quando era offerta a loro una facile via di fuga.

Batson e colleghi hanno riproposto questo paradigma in diversi studi, spesso con piccole varianti, riguardo alla persona verso cui i soggetti provavano empatia, oppure nelle modalità in cui quest’ultima veniva indotta, ma in tutti gli esperimenti hanno mostrato che l’empatia è una motivazione fondamentale del comportamento d’aiuto e più in generale dell’altruismo puro.

Sulla base di questi risultati Batson ha anche proposto il modello dell’altruismoempatia. Questo modello sostiene che tanto più una persona tende a provare empatia con un’altra tanto più sarà probabile che l’aiuti. Dunque, le persone non aiutano necessariamente per una motivazione edonistica, come sostenuto da Cialdini e collaboratori (1973; 1976; 1987) ma piuttosto perché potrebbero essersi immedesimate nella situazione e nelle emozioni della persona che  hanno aiutato.

Più di recente, Batson, Polycarpou, Harmon-Jones, Imhoff, et al. (1997) hanno dimostrato anche che l’interesse empatico verso il membro di un gruppo stigmatizzato può portare non solo ad un migliore atteggiamento verso il singolo, come nel caso di Elaine, ma anche nei confronti del gruppo di appartenenza. Per esempio, in un esperimento i partecipanti erano indotti a provare empatia per Harold, un senza tetto di 56 anni, dopo aver ascoltato un intervista in cui lo sentivano parlare della sua situazione, erano maggiormente propensi ad avere un atteggiamento più positivo anche verso la categoria più ampia dei barboni, oltre che verso Harold stesso. Inoltre, questo atteggiamento positivo verso Harold e i senza tetto più in generale non variava significativamente a seconda del fatto che Harold fosse reso più o meno responsabile della sua condizione sociale.

Batson et al. (1997) hanno anche dimostrato che questo fenomeno può verificarsi anche con membri di gruppi altamente stigmatizzati, verso i quali c’è una minore attitudine ad inibire giudizi negativi.

In un esperimento, ad esempio, chiedevano ai partecipanti di ascoltare l’intervista di James, un uomo condannato per l’assassinio di un vicino di casa. Una o due settimane dopo, a loro insaputa, queste stesse persone furono contattate per un intervista telefonica su una presunta “Riforma sulle Prigioni”. Subito dopo aver ascoltato James coloro cui era stato chiesto di mettersi nei suoi panni non mostravano un atteggiamento significativamente più positivo rispetto a chi aveva invece assunto un punto di vista più freddo e distaccato. Infatti,  in conseguenza dell’alta stigmatizzazione della categoria sociale degli assassini, i livelli di empatia erano significativamente più bassi rispetto a quelli provati verso altri gruppi.  Nonostante ciò, quando una o due settimane dopo venivano intervistati su una possibile riforma della prigione, l’atteggiamento nei confronti di misure meno rigide nelle carceri era più favorevole quando venivano intervistate persone a cui veniva chiesto di mettersi nei panni di James. In questo esperimento, dunque, Batson et. al (1997), hanno dimostrato non solo che l’effetto dell’empatia può migliorare l’atteggiamento anche verso gruppi con reputazione altamente negativa, ma che può anche manifestarsi a distanza di tempo. Questi risultati suggeriscono che i partecipanti che avevano assunto il punto di vista di James in un primo momento possano aver resistito ai sentimenti di empatia che provavano verso di lui perché erano sospettosi della relazione causale che ci poteva essere tra questi affetti e la manipolazione sperimentale mentre, in un secondo tempo, quando venivano colti alla sprovvista e dunque questa relazione causale era più difficile da richiamare alla memoria, erano meno inclini a controllare il loro atteggiamento positivo verso i carcerati e dunque più favorevoli ad una riforma che migliorasse le loro condizioni di prigionia.

Sulla base di questi studi sembra evidente che la percezione di un altro bisognoso e la presa di prospettiva della persona bisognosa siano due antecedenti fondamentali dell’interesse empatico verso una persona in difficoltà. Tuttavia il fatto che in Batson et al. (1997) i partecipantiavessero più difficoltà ad assumere la prospettiva di un colpevole per omicidio rispetto ad uno sconosciuto ha portato Batson, Eklund,Chermok, Hoyt e Ortiz (2007) ad ipotizzare che la valutazione del benessere di un’altra persona in difficoltà possa essere un antecedente fondamentale dell’empatia. In un loro

esperimento i partecipanti leggevano la storia di Bryan, uno studente che in seguito ad un incidente in cui si era trovato coinvolto mentre andava a scuola di corsa, perché era in ritardo, si era infortunato seriamente. Si diceva poi che siccome Bryan era costretto a stare a casa da scuola era a forte rischio di saltare l’anno. Nella  condizione di valutazione positiva i partecipanti leggevano che questo ragazzo era in ritardo perché aveva incontrato un’anziana signora in stato confusionale si era fermato ad aiutarla. Nella condizione di valutazione negativa invece i partecipanti leggevano che nella stessa situazione Bryan si era comportato in modo scortese facendole cadere la spesa quando questa l’aveva afferrato per un braccio. Come si aspettavano gli sperimentatori i partecipanti erano molto più propensi ad aiutare Bryan portandogli gli appunti delle lezioni quando questo era valutato positivamente rispetto a quando invece il giudizio nei suoi confronti era più negativo. Batson et al (2007) hanno in oltre dimostrato che questi risultati si verificavano anche quando ai partecipanti non veniva detto di assumere un punto di vista distaccato o non distaccato rispetto alla storia di Bryan. Nonostante non vi fosse stata alcuna manipolazione sperimentale l’effetto della presa di prospettiva sull’interesse empatico risultava più alto per coloro che avevano un impressione positiva per il malcapitato. Dunque sembrerebbe che la valutazione del benessere di un’altra persona in difficoltà abbia sia un effetto diretto che un effetto indiretto sull’empatia e che questo sia mediato dalla presa di prospettiva. Sulla base di questi risultati, Batson et al. (2007) hanno proposto che la valutazione del benessere di un’altra persona bisognosa sia, insieme alla percezione di un altro bisognoso l’antecedente più importante dell’empatia. Infatti, se è vero che assumere il punto di vista di un’altra persona ha un forte impatto nell’interesse empatico che proviamo verso di lei, è vero anche che, mentre in un laboratorio dove lo sperimentatore chiede esplicitamente al partecipante di assumere il punto di vista di una persona sofferente o comunque bisognosa d’aiuto, nella realtà di tutti i giorni è più probabile che sia il giudizio positivo o negativo sul profilo morale di una persona in difficoltà che ci porta a cercare di vedere le cose nella sua prospettiva oppure ad assumere un atteggiamento freddo e distaccato. Il modello altruismo-empatia proposto da Batson e collaboratori è forse uno dei tentativi più eclatanti di dimostrare che l’altruismo puro esiste. Tuttavia Cialdini, Shaller, Hulihan, Arps, Fulz, Beaman (1987) hanno dimostrato che l’empatia negli studi di Batson in realtà mediava il rapporto tra la tristezza ed il comportamento d’aiuto. Per dimostrarlo, questi autori hanno replicato il Paradigma di Elaine. Diversamente dal disegno sperimentale di Batson e colleghi (1978; 1981), alcuni partecipanti della condizione di alta empatia ricevevano una gratifica materiale subito prima che lo sperimentatore chiedesse loro se erano disponibili a prendere le scosse al posto di Elaine. Come si aspettavano Cialdini et al. (1987), nella condizione di alta empatia e fuga facile, questi partecipanti erano meno propensi ad un comportamento altruistico rispetto agli altri che invece non avevano ricevuto nulla. Questi risultati sono coerenti con quanto dimostrato precedentemente  (Cialdini, Darby, Vincent, 1973; Cialdini, Kenrick, 1976) e dunque forniscono supporto empirico all’ipotesi secondo la quale le persone quando sono tristi aiutano un altro bisognoso perché questo consente loro di ristabilire il proprio umore. Un altro elemento di interesse dello studio proposto da questi ricercatori è che ad un incremento dell’empatia corrispondeva un incremento della tristezza. Sulla base dei risultati emersi Cialdini e colleghi (1987) hanno proposto che il modello altruismo-empatia proposto da Batson e colleghi (1978; 1981) non sia altro che un estensione del modello del sollievo dagli stati d’animo negativi dove le persone che provavano empatia verso una persona sofferente sono più propense a rattristarsi e quindi hanno più necessità di ripristinare il proprio umore.

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi