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Il principio delle polarità

Il principio delle polarità

Il principio della polarità è stato spiegato dal generale prussiano Carl Von Clausewitz, grande esperto di strategia militare e di tattica di combattimento impegnato in prima persona nelle guerre napoleoniche. Da questa esperienza egli scrisse nel 1832 l’opera “Vom Kriege” (“Della guerra”), un’analisi della guerra dalla quale si possono ricavare parallelismi con la guerra sul lavoro.

Nel mobbing la vittoria di una parte significa inevitabilmente la sconfitta per l’altra: più una si avvicina al proprio scopo, più l’altra se ne allontana. L’obiettivo del mobber è esattamente contrario a quello del mobbizzato: se egli ottiene il suo scopo di vincere ed allontanare la vittima, allora ciò significa che la situazione di conflitto ha avuto un esito contrario agli interessi della vittima; se invece quest’ultima riesce a rimanere al suo posto e a respingere gli attacchi del mobber, lo scopo del mobber sarà allontanato. Si può rendere questo concetto immaginando una bilancia:

 

 

Figura 13 – La bilancia della polarità nel mobbing – http://www.avvocatomobbing.net/files/2017/11/11/iTunesArtwork2x3_2.png?t=1510406944029

Se l’ago della bilancia pende dalla parte del mobber, significa che egli ha raggiunto i suoi scopi perversi e la vittima viene emarginata, calunniata, demansionata, umiliata, licenziata o costretta alle dimissioni, alla malattia, al prepensionamento, ecc.

Se l’ago della bilancia pende dalla parte del mobbizzato, allora vuol dire che egli è riuscito a respingere con successo gli attacchi del mobber: il mobber viene smascherato, punito, denunciato, isolato o licenziato; oppure la vittima riconquista la fiducia e la stima degli altri, si riconcilia coi colleghi, ottiene una promozione, ecc.

Se l’ago della bilancia rimane perfettamente al centro, ci troviamo di fronte ad un rapporto lavorativo normale: le relazioni sono rilassate ed amichevoli, caratterizzate da rispetto, fiducia e collaborazione; gli eventuali conflitti si risolvono in breve tempo e senza complicazioni. Non esistono problemi di mobbing.

 

 

 

© Chiedimi se sono felice:Analisi del Clima Organizzativo e del suo effetto sulle risorse umane – Dott.ssa Sonia Barbieri

 

 

Il Mobbing

IL MOBBING

 

La violenza psicologica (mobbing) è uno dei temi più scottanti che le organizzazioni si trovano oggi ad affrontare. A differenza della violenza fisica, che è visibile e fa male, quella psicologica è nascosta ed apparentemente indolore; però dal primo momento che esiste crea un danno.

Secondo i dati emersi dalla II Ricerca Europea sulle Condizioni di Lavoro[1], condotta sulla base di oltre 16.000 interviste a lavoratori di tutta l’Unione Europea, ogni anno circa 12 milioni di lavoratori europei (l’8% di tutti i lavoratori) subiscono intimidazioni e mobbing. La Ricerca ha mostrato chiaramente che la violenza sul lavoro ha sempre più gravi conseguenze sulla salute delle vittime, soprattutto in termini di stress.

Questi alti livelli di violenza sul posto di lavoro causano costi molto elevati alle organizzazioni, in quanto ne sono una conseguenza diretta i problemi di salute del lavoratore, quali l’aumento delle assenze per malattia, la diminuzione della produttività, il danno di immagine per l’azienda, l’abbassamento del morale del personale.

Lo scopo del Mobbing è di imporre la volontà dell’aggressore, e costringere la vittima a fare ciò che lui vuole, cioè vincere e distruggere il nemico, conquistare la posizione del nemico e guadagnare il favore dell’opinione pubblica.

Lo psicologo Harald Ege è riconosciuto in Italia come il principale studioso del fenomeno del mobbing. Egli propose questo termine al pubblico italiano per la prima volta nel 1995. I suoi studi ventennali riportano l’analisi di una realtà lavorativa particolare come quella italiana, diversa per certi aspetti da quella di altri Paesi.

“Il mobbing è una guerra sul lavoro in cui, tramite violenza psicologica, fisica e/o morale, una o più vittime vengono costrette ad esaudire la volontà di uno o più aggressori. Questa violenza si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la professionalità della vittima. Le conseguenze psico-fisiche di un tale comportamento aggressivo risultano inevitabili per il mobbizzato”.[2]

AGGRESSORE (mobber)

VITTIMA (mobbizzato)

singola persona singola persona
Azienda Superiore
vertice aziendale Collega
gruppo di persone Sottoposto
tutto il reparto tutto il reparto
Superiore gruppo di persone
Collega
Sottoposto

 

Fig. 11 – Sintetizzazione in tabella della struttura binaria della guerra sul posto di lavoro.

 

La situazione di mobbing può senza dubbio essere paragonata ad una guerra, dove da una parte ci sono i comportamenti ostili ed aggressivi del mobber, con le sue strategie di attacco e la corruzione per attirarsi alleanze influenti, e dall’altra le reazioni di difesa del mobbizzato che cerca di uscire da questa spiacevole situazione subendo ingenti perdite.

Al centro, apparentemente estranei al conflitto, si trovano gli spettatori del mobbing, che servono in realtà come spie al servizio di una o dell’altra parte. Essi possono avere atteggiamenti di tipo diverso: possono disinteressarsi totalmente al conflitto, oppure decidere se simpatizzare con la vittima ma senza aiutarla apertamente per non subire essi stessi simili ritorsioni, o se stare dalla parte del mobber. In quest’ultimo caso lo spettatore va a ricoprire un ruolo simile a quello del mobber, e viene definito side-mobber se anch’esso attua azioni mobbizzanti a fianco di quelle dell’aggressore, oppure co-mobber se sostiene le azioni del mobber.

Il mobbing è ad ogni modo un conflitto a due, nel quale l’osservatore non può mai entrare direttamente nella sfida. Il superiore mobber rappresenta un esercito che vuole arrivare alla vittoria finale, cioè le dimissioni o l’allontanamento della vittima, che gli si oppone disperatamente. A differenza del conflitto sul campo, però, la guerra sul lavoro spesso è subdola e rimane nascosta. Il mobbing si distingue dal conflitto quotidiano utilizzando 3 coordinate: tipo, durata e frequenza degli attacchi.  Inoltre, per essere definito mobbing il confronto deve presentare un dislivello tra le parti: deve cioè essere una lotta impari, in cui la vittima si trova in una posizione svantaggiosa di fronte ai mezzi del mobber.

Gli attacchi di terrore psicologico sul posto di lavoro si classificano in 5 categorie:

  • Attacchi ai contatti umani: limitazioni della possibilità di esprimersi, continue interruzioni del discorso, critiche e rimproveri costanti, sguardi e gesti con significato negativo
  • Isolamento sistematico: trasferimento ad un luogo di lavoro isolato, comportamenti tendenti ad ignorare, divieti di parlare o intrattenere rapporti con la persona mobbizzata
  • Cambiamenti delle mansioni: assegnazione di lavori senza senso, nocivi o al di sotto delle capacità della vittima, cambiamenti continui degli incarichi
  • Attacchi contro la reputazione: pettegolezzi, ridicolizzazione dei difetti o delle caratteristiche fisiche della vittima, valutazione sbagliata o umiliante delle sue prestazioni
  • Violenza e minacce di violenza: fisica o a sfondo sessuale

 

 

Fig. 11 – Una vignetta di Andrea Magnani sul mobbing –                                                    https://andreamagnani.files.wordpress.com/2011/03/vignetta-mobbing2.jpg

 

 

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[1] EGE H., Mobbing – Conoscerlo per vincerlo, Franco Angeli, 2001, pag. 9

[2] EGE H., Mobbing – Conoscerlo per vincerlo, Franco Angeli, 2001, pag. 33

Il modello delle 4 C

IL MODELLO DELLE “4C”

Foto di truthseeker08 da Pixabay

 

Il Modello delle “4C” è uno strumento molto utile per valutare oggettivamente l’efficacia di molte forme di comunicazione. Le “4C” sono: Comprensione, Credibilità, Connessione e Contagiosità.

Comprensione

Per migliorare la comprensione è importante che il messaggio sia il più chiaro possibile, pertanto è fondamentale ripeterlo spesso e semplificarlo attraverso esempi, metafore ed analogie. Le domande che confermano o meno se la prima C sta funzionando sono: Il pubblico può cogliere l’idea principale del discorso? Cosa deve comunicare istantaneamente il messaggio che voglio trasmettere?

Connessione Emotiva

Ciò significa che il pubblico ha capito il messaggio, e che le parole usate hanno per lui un significato e gli evocano una risposta emotiva.

Credibilità

Le persone possono comprendere il messaggio ma non avere fiducia in chi parla, quindi il messaggio non viene preso in considerazione perché esse capiscono che sono manipolate.

Contagiosità

Le persone, oltre a comprendere il messaggio, connettersi emotivamente con esso e crederci, devono recepire un messaggio energico, innovativo ed entusiasmante che possa essere facilmente e velocemente diffuso e che motivi il pubblico ad agire con una risposta emozionale positiva.

 

 

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I 5 punti cardine di una comunicazione efficace

I 5 punti cardine di una comunicazione efficace [1]

Quando sono pronto per ragionare con un uomo, impiego un terzo del mio tempo a pensare a me stesso e a quello che devo dire e due terzi a pensare a lui e a quello che dirà.” Abraham Lincoln

Una comunicazione è efficace quando è chiara, carismatica, credibile e persuasiva. I punti cardine della comunicazione efficace sono:

 

  1. ASCOLTO ATTIVO

La capacità di saper ascoltare è un’opportunità per imparare dagli altri, un’opportunità di crescita. Aiuta a costruire un rapporto di rispetto e di fiducia, è importantissimo per avere una comunicazione efficace, arricchisce la propria vita e quella degli altri. Il livello della capacità di ascolto indica quanto un individuo è centrato su se stesso o sugli altri: se il focus è su se stesso è probabile che si tenda a tagliare fuori gli altri, senza dare loro la giusta attenzione e considerazione. Se il centro è sugli altri quasi sicuramente l’individuo è un buon ascoltatore, e questo gli permetterà di recepire i messaggi più profondi che sfuggono alle persone che non ascoltano.

 

  1. COMUNICAZIONE NON VERBALE

Il linguaggio non verbale è il linguaggio del corpo; include le espressioni facciali, i gesti, le posture, il contatto oculare, la tensione muscolare ed il respiro. Esso veicola gran parte del messaggio che si vuole trasmettere. Sviluppare la capacità di comprendere ed utilizzare la comunicazione non verbale aiuta ad entrare più facilmente in sintonia con gli altri e ad esprimere idee in maniera più efficace. Un modo per migliorare la comunicazione non verbale e comunicare efficacemente consiste nell’utilizzare un linguaggio del corpo aperto, caratterizzato da sorrisi, muscoli rilassati e viso espressivo.

 

Fig. 10 – Comunicazione efficace – https://image.slidesharecdn.com/presentazionecomunicazionesana-090623164310-phpapp01/95/presentazione-comunicazione-efficace-1-728.jpg?cb=1249394198

 

  1. COMUNICAZIONE PARAVERBALE

Il paraverbale si riferisce al modo in cui parliamo, ed include parametri come il tono della voce, la velocità, il timbro ed il volume. I leader di successo sanno motivare ed ispirare il loro pubblico perché sanno come modulare al meglio la loro voce, trasmettendo passione, facendo risaltare un’idea o un concetto attraverso il corretto uso delle pause, variando il volume della loro voce per enfatizzare una parola o una frase.

 

  1. COMUNICAZIONE ASSERTIVA

L’assertività è la capacità di sapere esprimere e far valere le proprie opinioni e le proprie idee usando i giusti modi e le giuste parole. Una persona che sa comunicare in maniera efficace sa come fare arrivare il proprio messaggio facendolo rispettare, e rispettando le altre persone.

 

  1. LINGUAGGIO PERSUASIVO

Questa abilità è legata al modo in cui una persona riesce a comunicare pensieri, bisogni, esperienze ed opinioni. Per riuscire ad affascinare un interlocutore durante una conversazione, a toccare le sue corde emotive, bisogna chiedersi cosa sta funzionando, cosa non sta funzionando e perché.

 

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[1] https://www.ipermind.com/comunicazione-efficace/

La comunicazione efficace

La Comunicazione Efficace

Foto di StockSnap da Pixabay

“Il modo in cui comunichiamo con gli altri e con noi stessi determina la qualità della nostra vita”. Anthony Robbins

Saper comunicare è necessario per trasmettere pensieri, idee e visioni. Siamo animali sociali progettati per interagire con le altre persone, e la comunicazione è il mezzo che utilizziamo per fare questo. Uno stile di comunicazione errato può dare origine ad incomprensioni, problemi e discussioni; è facile urtare i sentimenti di qualcuno perché non si è riusciti a comunicare nel modo giusto.

La strada per migliorare la qualità delle nostre relazioni passa necessariamente attraverso la comunicazione. Non solo: la nostra felicità è strettamente interconnessa alle nostre capacità comunicative. Decenni di ricerche hanno infatti indicato la qualità delle nostre relazioni come l’elemento più importante al raggiungimento della felicità, più del successo e del denaro.

La comunicazione efficace è stata la chiave del successo dei grandi leader della storia. Infatti, ciò che ha fatto la differenza tra i grandi uomini della storia e le persone comuni non erano soltanto le loro idee, ma anche e soprattutto il modo in cui sapevano comunicarle e trasmetterle agli altri, usando il linguaggio delle emozioni e dei desideri delle persone. I leader sapevano che, se il loro messaggio non fosse stato compreso e sentito come proprio, non sarebbe mai stato sostenuto e condiviso.

Il manager, oggi più che mai leader, deve allineare la funzione Risorse Umane con gli obiettivi strategici dell’organizzazione al fine di migliorare le performance. Le strutture e i sistemi del personale e dell’organizzazione devono essere progettati per supportare la strategia dell’organizzazione, e lo staff deve essere gestito e trattato in maniera tale che sia impegnato nell’organizzazione e nel perseguimento dei suoi obiettivi.

A tal fine è imprescindibile avere come base una corretta comunicazione interna, che rappresenta uno scambio finalizzato a stabilire e migliorare i principi di efficienza del proprio lavoro. In particolare, sono due i tipi di comunicazione su cui va posta attenzione:

  • La comunicazione top-down, ossia quella dall’alto (organi dirigenziali) verso il basso (impiegati, dipendenti). Per attuare questo tipo di comunicazione interna aziendale si possono utilizzare diversi strumenti pratici come una rete intranet che sfrutti l’organizzazione di un software gestionale, l’uso di messaggistica interna tramite mail e/o circolari, e l’organizzazione periodica di riunioni con i dipendenti per spiegare e condividere informazioni ed obiettivi.
  • La comunicazione bottom-up, ovvero il flusso di informazioni dal basso verso l’alto. Questo genere di comunicazione si realizza attraverso riunioni, colloqui individuali, procedure interne quali la compilazione di report periodici delle proprie attività, e l’inserimento di appuntamenti/attività in un calendario intranet condiviso.

In un’impresa moderna la gestione della comunicazione interna è una funzione fondamentale. Per ottimizzare questo processo il manager deve avere come obiettivo principale quello di sensibilizzare le persone a leggere e ad ascoltare, di creare il clima e gli strumenti per la libera circolazione delle informazioni e delle idee, di far sì che la politica aziendale sia recepita da tutti in modo chiaro, di favorire i contatti diretti tra imprenditore e dipendenti.

Quando si parla di impresa moderna va sottolineato, infatti, il valore della responsabilizzazione dei dipendenti in modo che essi, superato il ruolo della semplice dipendenza, si sentano portati a giocare quello della partnership. Gli obiettivi di profitto dell’impresa vengono conseguiti grazie a professionalità diverse e complementari: una rete di competenze in cui il singolo vive in relazione con i colleghi e l’organizzazione, cresce e si sviluppa grazie ai rapporti di fiducia che si instaurano tra le persone.

Alcuni economisti affermano che è proprio la fiducia l’elemento che sta alla base del sistema economico. Se non ci si fida dei colleghi, dei dipendenti, dei superiori, del partner commerciale, i rapporti non si sviluppano e non si raggiungono i risultati attesi. Questo vale anche dal punto di vista del dipendente: se non ha fiducia nell’impresa in cui lavora i risultati saranno decisamente inferiori alle attese.

Dare fiducia alle proprie risorse umane per una azienda significa adottare la mentalità che tutti debbano poter recuperare le informazioni necessarie per proseguire nelle normali attività. Una rete comunicativa in cui informazioni importanti o necessarie sono difficilmente accessibili impoverisce tutta la strategia di gestione delle risorse umane, arrivando anche a vanificarne il successo. È dunque fondamentale che il circuito comunicativo non si interrompa mai e sia gestito con continuità, interesse e soprattutto fiducia.

I processi di gestione della comunicazione verso e per le risorse umane vanno favoriti e resi efficienti tramite l’automazione delle attività, la sincronizzazione dei dati e l’evoluzione tecnologica e di business. In questo modo si riducono anche tempi, costi e margini di errore. A tale scopo è inevitabile avere come base una corretta comunicazione interna, strumento che nessuna attività lavorativa può ignorare in quanto rappresenta uno scambio finalizzato a stabilire e migliorare i principi di efficienza del proprio lavoro. Ad esempio, un manager che non risponde ad un suo diretto sottoposto o ne ignora le richieste dimostrando disinteresse contribuisce in maniera determinante alla creazione di un clima organizzativo di sfiducia, in cui gli organi dirigenziali sono visti come lontani e disinteressati, e a lungo andare demoliscono il senso di orientamento comune al raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Ovviamente sono molti i fattori di ostacolo alla comunicazione: le differenti esperienze del personale, i diversi gradi di cultura e preparazione, le diverse abitudini, una sottostima dell’importanza della funzione, la gelosia, la mancanza di tempo. Esistono anche ostacoli di tipo diverso, in qualche modo cercati: sono tutte quelle circostanze in cui si tende ad omettere di comunicare delle informazioni per figurare in un certo modo nei confronti dei propri dipendenti o del proprio superiore.

 

 

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La Leadership al Femminile ostacolo o risorsa

La Leadership al Femminile: ostacolo o risorsa?

Foto di StockSnap da Pixabay

Per entrare nello specifico della figura di leader al femminile ho estrapolato un articolo di Rossella Sobrero dal titolo:

“L’importanza delle risorse umane: focus sul welfare aziendale”[1].

“Il mondo del lavoro è ancora oggi di impronta maschile e per le donne non è semplice arrivare alle posizioni di potere. La leadership femminile è ostacolata da un’immagine stereotipata della donna che dequalifica le sue specificità. In realtà, uno stile empatico viene premiato dagli esperti e dalle ricerche più recenti.

Nel mondo, in Europa e anche in Italia, esiste ancora una grave disparità di genere nel lavoro e il gap aumenta se si pensano alle posizioni manageriali. La leadership al femminile non è valutata positivamente, cioè le doti o qualità che sono associate all’immagine stereotipata delle donne non vengono considerate utili o desiderabili.

Ciò significa eliminare dal mondo del lavoro delle competenze che possono essere comunque utili e dall’altra parte significa costringere le donne ad assumere comportamenti maschili per poi rimproverarle di essere poco femminili.

Le competenze chiave della leadership: c’è qualcosa di femminile?

Cosa manca alle donne per essere delle buone leader? Secondo Cristina Bombelli lo stereotipo femminile esclude competenze desiderabili al lavoro, come assertività, capacità di negoziare, la volontà e il comando. La leadership delle donne d’altro canto viene ostacolata da caratteristiche (in parte culturalmente trasmesse) che non rientrano nell’immagine del “buon capo“. Anche in questo caso l’ostacolo maggiore è lo stereotipo che abbiamo in mente, perché di per sé queste competenze potrebbero costituire anche delle ottime qualità, vediamone alcune:

  • empatia che porta le donne a non mettere sempre davanti le loro priorità
  • eccessiva solidarietà e considerazione dei rapporti umani
  • incapacità di mettere al di sopra di tutto gli aspetti economici-finanziari e la tendenza a sottovalutarsi.

Le qualità femminili da sfruttare al lavoro

Franco Gnocchi, HR consultant, in un’intervista fa un’analisi accurata della leadership al femminile e di come si possa inserire nella vita aziendale. Secondo Gnocchi una delle chiavi di maggior successo è l’intelligenza emotiva, che combina competenze individuali e sociali che migliorano le performance lavorative, come l’orientamento ai risultati e le competenze comunicative.

L’empatia è secondo Gnocchi l’elemento chiave di una gestione femminile, perché consente di evitare un approccio troppo freddo e quantitativo.

La leadership empatica mette il riconoscimento dei bisogni dell’altro al centro; in un’azienda ciò significa riconoscere i bisogni specifici dei dipendenti e dei gruppi di lavoro e attivare di conseguenza le giuste leve motivazionali.

L’apporto della ricerca sulla leadership

La ricerca sulla leadership si è interessata delle differenze di genere, ma i risultati non trovano un riscontro nella realtà, nonostante sia ampiamente dimostrato che un buon leader (maschile o femminile) aumenta l’impegno e la soddisfazione lavorativa.

Un esempio interessante è la meta-analisi condotta su 45 studi sugli stili di leadership (Eagly, Johannesen-Schmidt e Van Engen, 2003) che ha evidenziato che la leadership femminile è di stile più trasformazionale e che le donne sono più propense ad offrire ricompense.

Nonostante le differenze non siano enormi, un dato resta comunque evidente: le dimensioni in cui prevalgono le donne sono quelle a più alto impatto positivo sul lavoro, mentre quelle maschili non hanno forti relazioni con la buona leadership”.

 

Fig. 9 – Gli stili di leadership 

http://www.colonese.it/Immagini/Leadership.jpg

 

 

 

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[1] SOBRERO R., L’importanza delle risorse umane: focus sul welfare aziendale, CSRPiemonte, Regione Piemonte ed Unioncamere Piemonte, 2012

La Leadership

LA LEADERSHIP

La parola “Leadership” deriva dal verbo inglese “To Lead”, che significa dirigere, pertanto questo termine fa riferimento alla capacità di un individuo di saper guidare un gruppo di persone. Il leader è colui che guida il gruppo al successo, che ottiene che altre persone facciano determinate cose non perché si sentono obbligate, ma perché lo vogliono. Nel fare ciò, egli combina l’abilità di comprendere quali sono gli obiettivi raggiungibili con la capacità di motivare gli altri.

Gli studi iniziali sulla leadership hanno analizzato il fenomeno a livello individuale. Era importante capire quali tratti della personalità contraddistinguevano i grandi leader, ed in che modo essi riuscivano ad attirare a sé e ad influenzare gruppi di seguaci.

Negli anni ’60 lo psicometro americano Rancis Likert ha individuato quattro stili di leadership: l’autoritario minaccioso, che prende tutte le decisioni autonomamente circa scopi, modalità d’attuazione e tempi, per poi comunicarle al gruppo; l’autoritario benevolente, che incoraggia il gruppo attraverso delle ricompense e lo coinvolge nel processo decisionale, sebbene spetti a lui l’ultima parola; il consultativo, che aumenta la partecipazione del gruppo grazie ad una comunicazione bidirezionale; il partecipativo, che si avvale di una rete di comunicazione efficace basata sulla collaborazione e sulla presa democratica delle decisioni.

In seguito si è fatta avanti una nuova psicologia della leadership, secondo la quale la leadership efficace è un prodotto che deriva da come il leader riesce a far sentire i suoi seguaci parte di un gruppo o di una squadra, e che ha quindi poco a che vedere con l’individualità e le caratteristiche “speciali” del leader. Ciò che consente ai leader di fare i leader e ai seguaci di diventare seguaci è l’identità sociale: le persone coinvolte nel processo di leadership hanno un senso di comune appartenenza ad un gruppo (ingroup) e, di conseguenza, stabiliscono dei legami che li rendono diversi da altri gruppi (outgroup).

Vi sono 4 principi che caratterizzano il nuovo leader: egli deve apparire come “uno di noi”, deve rappresentare al meglio ciò che distingue il proprio ingroup dagli altri gruppi, esserne cioè il prototipo; deve apparire come “uno che lo fa per noi”, che agisce nell’interesse dell’ingroup e non per finalità personali; deve “costruire un senso del noi”, dare cioè forma ad un’identità di gruppo, con propri valori e caratteristiche unici; deve “farci contare nella realtà”, cioè calare nella realtà le idee e i principi del gruppo, metterli in pratica per realizzarne gli obiettivi.

Fig. 8 – Le caratteristiche di un buon leader – www.qualitiamo.com/articoli/Caratteristiche leader.html

 

 

 

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La Collaborazione

LA COLLABORAZIONE

Le relazioni ed interazioni tra colleghi sono un’altra dimensione che influenza le percezioni degli individui rispetto al proprio ambiente di lavoro.

Con il passaggio da un’economia industriale a una post industriale, i modelli organizzativi tradizionali hanno ceduto il posto a realtà che richiedono una maggiore integrazione tra le persone, anche per la tipologia delle attività che è diventata più complessa e ha quindi accresciuto l’importanza dei colleghi e della loro reciproca influenza. I lavoratori apprezzano molto il fatto di avere buone relazioni interpersonali sul luogo di lavoro ed un sostegno da parte dei colleghi, e ciò influisce positivamente sulla riduzione dello stress e sull’assenteismo.

Le dinamiche che si instaurano a livello interpersonale sono legate soprattutto a caratteristiche dei singoli lavoratori, ma le organizzazioni hanno un ruolo determinante nel creare i presupposti per alimentare e mantenere rapporti proficui. I datori di lavoro devono dare istruzioni precise, e mettere a disposizione strumenti e risorse adeguate per potenziare l’efficienza dei dipendenti, rendendoli produttivi senza rappresentare una sicura fonte di stress.

È importante inoltre creare schemi di lavoro standard per semplificare l’esecuzione delle mansioni di tutti, indipendentemente dal settore e dall’ufficio in cui si lavora.

Anche fornire strumenti di comunicazione efficienti serve ad agevolare la condivisione di informazioni e la collaborazione tra i membri del team, senza tuttavia distogliere l’attenzione dalle priorità, quindi è molto utile utilizzare canali di comunicazione veloci e semplificati.

Inoltre, stabilire obiettivi di efficienza è utile per favorire la produttività, impostando incentivi per i dipendenti e consentendo loro di monitorare costantemente il proprio andamento.

Per migliorare l’efficienza e la soddisfazione in un gruppo di lavoro, è fondamentale anche ottimizzare il tempo a disposizione.

Infine, è determinante creare scadenze realistiche; tuttavia, queste devono tenere conto di tutte le variabili che possono influire sulla conclusione di un progetto.

Rivalità interne e dissapori, invece, si ritorcono contro l’organizzazione.

 

 

Fig. 7 – La collaborazione -http://www.grupposistema.it/sitefinity/status?ReturnUrl=http:%2F%2Fwww.grupposistema.it%2Fimages%2Fdefault-source%2Fdefault-album%2Fdefault-album%2Fcollaboration.jpg%3Fsfvrsn%3D5e7ee223_4

 

 

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10 strategie per rendere felice i dipendenti

10 Strategie per rendere felici i dipendenti

Dagli esperti nelle risorse umane arrivano 10 consigli per favorire il benessere e la felicità dei lavoratori, migliorando rendimento e produttività.

Il benessere e la soddisfazione dei lavoratori paga, sempre. Per i manager delle risorse umane fare in modo che i dipendenti siano “felici” è un punto di partenza, più che un obiettivo, finalizzato a potenziare il rendimento dell’azienda.

Ma di cosa hanno bisogno i lavoratori per essere felici?

Esistono vari modelli di welfare aziendale, anche molto innovativi, tuttavia secondo gli esperti in HR basta focalizzare l’attenzione su poche ma fondamentali iniziative – che non richiedono ingenti investimenti – volte a migliorare la vita in ufficio e, soprattutto, favorire la conciliazione tra carriera e privato.

  1. Offrire spazi per la crescita: per i lavoratori è fondamentale sapere di avere la possibilità di avanzare nella carriera, con numerosi benefici per la produttività e il rendimento in ufficio.
  2.  Offrire un buon programma di formazione: attivare progetti formativi aziendali favorisce non solo l’effettivo miglioramento delle competenze, ma anche una il potenziamento della soddisfazione e dell’autostima dei dipendenti.
  3. Concedere piccoli bonus: i premi aziendali, anche di piccola entità, contribuiscono a rendere i lavoratori più motivati.
  4. Concedere autonomia ai lavoratori: una maggiore autonomia nella gestione delle proprie mansioni, o degli orari di lavoro, rappresenta una notevole dimostrazione di fiducia da parte del datore di lavoro.
  5. Creare un ambiente favorevole in ufficio: se i rapporti tra colleghi sono sereni anche la produttività aziendale ne gioverà.
  6. Promuovere il telelavoro: nonostante ci siano varie scuole di pensiero in merito al rapporto tra lavoro da casa e produttività, consentire ai dipendenti (se richiesto) di svolgere una parte delle loro mansioni da casa potrebbe rappresentare un ottimo incentivo per migliorare le proprie prestazioni lavorative.
  7. Favorire la concentrazione dei lavoratori: stop alle comunicazioni inutili (via email, ad esempio) che rischiano di rallentare il lavoro e far perdere la concentrazione.

 

Fig. 6 – Un esempio di personale soddisfatto – http://2.bp.blogspot.com/-0BQ5rLY_UAY/UVDJFCNmxWI/AAAAAAAAAZo/-4TZ_Xll-28/s1600/aziende-dove-si-lavora-meglio.jpg

  1. Offrire un pacchetto unico di benefici: gli esperti in HR consigliano di predisporre specifici “pacchetti di servizi” a favore dei dipendenti, ad esempio voucher finalizzati a favorire i servizi di cura (baby sitting, assistenza ai familiari anziani e simili).
  2. Aiutare i lavoratori a vivere uno stile di vita sano: le aziende dovrebbero investire il più possibile nella salute e nel benessere dei propri lavoratori.
  3. Concedere brevi ma salutari pause dal lavoro: lasciare ai dipendenti un po’ di tempo libero, per navigare su Internet o dare un’occhiata a Facebook, rappresenta un ottima strategia per migliorare il loro rendimento.

 

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[1] http://www.manageronline.it/articoli/vedi/8065/10-strategie-per-rendere-felici-i-dipendenti/

La motivazione

LA MOTIVAZIONE

La motivazione può essere definita come l’espressione dei motivi che portano un individuo a compiere una determinata azione. Essa dipende da due elementi: le competenze, cioè ciò che l’individuo è in grado di fare, ed i valori personali, ovvero ciò che l’individuo vuole fare. La spinta motivazionale inizia ogni volta che l’individuo avverte un bisogno, cioè quando percepisce uno squilibrio tra la situazione in essere e una situazione desiderata. Il bisogno è quindi uno stato di insoddisfazione che spinge l’uomo a procurarsi i mezzi necessari per porvi fine o limitarlo.

Nelle organizzazioni la motivazione dei collaboratori è una variabile strategica per l’impresa: rappresenta l’insieme degli scopi che spingono una persona ad agire e a mettere in atto un comportamento in direzione dei valori e degli obiettivi aziendali da raggiungere. Motivare i propri dipendenti significa quindi aumentarne la produttività e trattenere i talenti migliori.

Tutte le aziende, che siano ben organizzate o meno, si ispirano a dei valori, con l’auspicio che questi siano condivisi da tutte le persone coinvolte nei processi aziendali. I valori creano motivazione, perché danno identità sia all’azienda che anche al singolo lavoratore, se condivisi. I valori danno la consapevolezza di condividere non semplicemente un luogo di lavoro o degli obiettivi, ma qualcosa che va oltre il tempo e oltre il ruolo che si ha in azienda. Molto spesso capita invece che si lasci spazio all’autonoma interpretazione dei dipendenti, creando uno scostamento fra l’aspettativa dell’azienda e ciò che le risorse realmente esprimono.

 

 

 

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