Smart Working

 

Smart Working: siamo o non siamo pronti a correre il rischio ?

 

Secondo la ricerca in Italia si contano oggi 480mila smart worker, il 12,6% degli occupati che potrebbero essere interessati da questa tipologia lavorativa (smart working): numeri in aumento del 20% rispetto al 2017 e con ampi spazi di crescita, ma percentuali ancora al ribasso rispetto alla media dei paesi a più alto sviluppo industriale.

Gran parte delle previsioni non sembrerebbe lasciare dubbi sulla direzione e l’intensità del cambiamento: per citare una sola tra le tante fonti che concordano sul trend in atto, secondo il Rapporto Future of Jobs presentato a Gennaio 2016 a Davos al World Economic Forum2, nel 2020 la metà delle persone lavoreranno da casa o comunque non in azienda (Massimo Neri, 2017). Numeri alla mano, però, la distanza da questa stima ipotetica è ad oggi considerevole in Italia dove manca quell’accettazione condivisa di un fenomeno ancora in grado di muovere scetticismo specialmente nelle PMI e nella PA. Non si può negare che ci siano alcune difficoltà nell’implementazione di un progetto di smart working. Da un punto di vista pratico, innanzitutto, occorre essere in possesso o fornire gli smart worker di una strumentazione adeguata per lo svolgimento del lavoro da sede remota (server, software, laptop, tablet).

Sullo stesso livello una formazione adeguata al personale si presenta come conditio sine qua non. La formazione dovrà riguardare sia aspetti concreti che temi quali la pianificazione del lavoro, la gestione degli imprevisti e il problem solving, fino ad arrivare alla comunicazione con gli stakeholder in assenza o in presenza di criticità. Tra le questioni più delicate troviamo l’allineamento della cultura aziendale alle pratiche di smart working per quanto riguarda la definizione del monte ore, il monitoraggio delle attività e il processo di feedback.

Occorre ci sia coerenza tra la somministrazione delle pratiche di lavoro agile e la consueta gestione del personale in azienda seguendo quelle che sono la cultura e i valori organizzativi tipici.

Un ultimo rischio connesso al lavoro agile è legato a fattori personali e di contesto quali la tendenza a procrastinare (Zappalà, 2017), il senso di responsabilità personale, le aspettative di familiari e amici sapendo che la persona lavora da casa e il riuscire a creare un ambiente che minimizzi le distrazioni. In questo senso risulta fondamentale selezionare le persone più adatte a svolgere lavoro a distanza, in grado di elargire quantomeno lo stesso livello di performance di quello abituale. Per alcune persone, però, “l’investitura” potrebbe sortire un effetto responsabilizzante spingendo la persona ad offrire un livello di performance superiore a quello abituale.

Charles Darwin sosteneva che “non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere ma quella che si adatta meglio al cambiamento”. Nonostante gli ostacoli sopra citati è impossibile non notare come la concezione tradizionale del lavoro stia andando incontro ad una netta evoluzione he impone un allineamento al cambiamento per incrementare il proprio business.

Di fronte ad una competizione sempre più sfrenata sono i dettagli a fare la differenza e lo smart working rappresenta un fenomeno in grado di apportare innumerevoli benefici. Utilizzando le evidenze raccolte dall’Osservatorio del Politecnico di Milano attraverso questionari e casi pilota, si può stimare l’incremento di produttività per un lavoratore derivante dall’adozione di un modello “maturo” di Smart Working nell’ordine del 15%.

Volendo proiettare l’impatto a livello di sistema Paese i lavoratori che potrebbero fare Smart Working sono almeno 5 milioni tanto che l’effetto dell’incremento della produttività media in Italia si può stimare intorno ai 13,7 miliardi di euro (https://blog.osservatori.net).

Volgendo uno sguardo alle giovani generazioni un interessante studio dimostra come se si parla di remunerazione, per il 52% dei millennial italiani benefits e lavoro agile contano di più di uno stipendio corposo. In particolare, rinuncerebbero fino a 3mila euro all’anno (250 euro al mese), a fronte della possibilità di essere inclusi in programmi di smart working(Repubblica.it). Questo a dimostrazione di come lo smart working rappresenti un’importante leva motivazionale nell’attrarre talenti, con una forte influenza sul versante femminile. Grazie al lavoro agile le donne sarebbe in grado di adempiere più agevolmente alle note responsabilità famigliari nella cura di casa e bambini. In primo luogo, infatti, il lavoro agile permette una migliore conciliazione lavoro-famiglia (sfera personale) con la possibilità di lavorare da casa (e non solo) occupandosi di figli e svolgendo quei servizi che la routine quotidiana non ti permettere di fare.

Dal lato HR il lavoro agile garantisce una drastica diminuzione dei tassi di turnover e assenteismo da anni considerati come i principali indicatori di insoddisfazione lavorativa. Questo fenomeno, infatti, agisce sulle dimensione dell’autonomia e della flessibilità permettendo all’individuo di gestire deliberatamente modalità e luogo di lavoro.

Un effetto positivo lo si ha anche sulla strategia di employer branding con un riflesso sulla reputazione aziendale: attraverso lo smart working l’organizzazione compie un passo in avanti verso i bisogni profondi del capitale umano. Un ulteriore aspetto positivo riguarda l’impatto ambientale: secondo un recente studio, infatti, un solo giorno di remote working alla settimana diminuisce la produzione di anidride carbonica nell’aria nell’ordine di 135 kg ogni 12 mesi. Parallelamente si ha un grande risparmio in termini di tempo nell’ordine di circa 60 minuti per ogni giornata di lavoro da remoto e un risparmio da parte dell’organizzazione dei costi di gestione tipici del lavoro in sede.

Analizzando gli indici di gradimento, l’indagine della School of Management del Politecnico certifica la piena soddisfazione degli smart worker: il 50% è pienamente soddisfatto delle modalità di organizzare il proprio lavoro, contro il 22% dei dipendenti “tradizionali”, il 34% ha un buon rapporto con i colleghi e con i propri superiori, un dato più che doppio rispetto ai dipendenti “tradizionali”. Ulteriori riscontri positivi arrivano dalle numerose realtà organizzative che hanno scelto dapprima di sperimentare la procedura per poi renderla stabile a seguito dei risultati. In questo senso noti sono i casi di Tim, Enel, Ferrovie dello stato, Tetrapak, Provincia autonoma di Trento per citarne alcuni.

Di fronte a queste evidenze sceglieremo di sottometterci alla paura o di aprirci ad un cambiamento tanto evidente quanto ricco di speranza?

Bibliografia

 

© Smart Working – Andrea Pivetti