L’intuizione altruistica nella beneficienza

L’intuizione altruistica nella beneficienza

Le ricerche fin qui esposte dimostrano ampiamente il ruolo fondamentale giocato dalle emozioni nella motivazione all’altruismo e corroborano ulteriormente l’idea che le persone usino due sistemi, uno analitico ed uno esperienziale, nell’adattamento all’ambiente (Zajonc, 1980; Epstein, 1994; LeDoux, 1996; Haidt, 2001; Kahneman, 2003). Il sistema esperienziale per la sua velocità ed automaticità è portato ad anticipare quello analitico, che è invece più lento ed accurato. Kahneman (2003) sostiene che il sistema esperienziale presenta delle forti analogie con il nostro apparato percettivo mentre il sistema analitico avrebbe il compito di monitorare la qualità di queste intuizioni. Un gran numero di ricerche tuttavia ha dimostrato come spesso il sistema analitico segua, letteralmente, le intuizioni del sistema esperienziale. Haidt (2001) paragona addirittura il ragionamento alla coda di un cane emozionale. In linea con queste argomentazioni, appare oggi inconcepibile l’idea che l’altruismo sia dettato da un freddo calcolo di costi e benefici come proponeva, ad esempio, Jeremy Bentham (1789). Haidt (2001) ha recentemente proposto un modello di intuizionismo sociale in cui viene proposto invece che il giudizio morale sia principalmente causato dalle intuizioni morali e che sia seguito dal più lento ragionamento morale. Quest’ultimo spesso arriva quando è troppo tardi e spesso costruisce giustificazioni post hoc che ci danno l’illusione di un ragionamento oggettivo. Secondo Haidt (2001) il modello dell’intuizionismo sociale darebbe dunque conto di un gran numero di situazioni in cui le persone non sanno spiegare le reali ragioni che le hanno condotte a dare un giudizio positivo o negativo su una determinata situazione. Queste argomentazioni teoriche sono coerenti col fatto che gli affetti agiscano spesso al di sotto della coscienza dei decisori nel portarli in una direzione piuttosto che in un’altra (e.g. Zajonc, 1980, Damasio, 1994, Slovic et al. 2002).

Recentemente molti studi hanno dimostrato che il modo in cui processiamo le informazioni influenza fortemente le nostre decisioni di aiutare altre persone in difficoltà. Ad esempio, Slovic e collaboratori (Slovic, Finucane, Peters, MacGregor, 2002; Slovic, 2006) in un esperimento sulla sicurezza aerea, hanno chiesto ai soggetti di valutare quanto trovassero attraente acquistare un nuovo equipaggiamento che si sarebbe reso utile nel caso di un incidente aereo. I partecipanti valutavano significativamente più attraente questo investimento se veniva loro detto che in caso d’incidente avrebbero salvato il 98% di 150 persone, piuttosto che se semplicemente veniva loro detto che avrebbero salvato 150 persone. Questi risultati sono coerenti col fatto che le persone trovino più attraenti gli stimoli che sono più facili da valutare. In particolare, sembrerebbe che l’opzione sulla carta più conveniente, cioè il programma che avrebbe consentito di salvare 150 persone, fosse giudicato in modo meno favorevole rispetto all’altra opzione perché era più difficile attribuirle un valore. Dunque, il fatto che al numero di vite da salvare fosse accompagnata una percentuale chiaramente alta contribuiva a rendere lo stimolo meno ambiguo e dunque più attraente. In aggiunta, i processi che ci guidano ad un atto di beneficenza presentano delle forti analogie con quelli legati alla percezione dei cambiamenti che avvengono nel nostro ambiente fisico. Infatti, così come il nostro apparato percettivo è più sensibile allo stesso cambio di temperatura quando questa è prossima ai 0°C rispetto a quando questa è 30° C più alta, come fù notato per la prima volta da Weber (1834) e Fechner (1860/ 1964), anche il nostro sistema esperienziale è più sensibile alle vite salvate in un piccolo villaggio rispetto a quando lo stesso numero di persone viene salvato in un villaggio più grande. In altre parole, la nostra sensibilità ai cambiamenti è inversamente proporzionale alla grandezza dello stimolo. Una conseguenza di questo insensibilità al cambiamento è quello che  Fetherstonhaugh, Slovic, Johnson e Friedrich (1997) hanno battezzato col nome di psychophysical numbing, che tradotto letteralmente significa intontimento psicofisico. In uno studio Fetherstonhaugh e colleghi (1997) chiedevano ai partecipanti di immaginare di essere un ufficiale del governo che doveva valutare quale tra una serie di programmi governativi sostenere. Due alternative, in particolare, prevedevano di stanziare fondi in favore della fornitura di acqua potabile in un campo di rifugiati del Rwanda. Entrambe queste alternative implicavano grossomodo la stessa spesa per il governo e avrebbero permesso di salvare 4.500 profughi a rischio di colera.

L’unica alternativa riguardava l’ampiezza dei due campi profughi. Nel primo campo profughi vivevano 250.000 persone, nel secondo solo 11.000, tuttavia gli “ufficiali governativi” preferivano significativamente il secondo programma. Si potrebbe

obiettare che i partecipanti fossero più propensi a fornire aiuti al secondo campo perché presentava probabilità di contagio o rivolta più ridotte rispetto al campo più grande, tuttavia in una replica di questo studio Fetherstonhaugh e colleghi (1997) hanno dimostrato che questo fenomeno si verificava anche nel caso l’intervento venisse pianificato verso la fine della carestia, cioè quando la possibilità di risoluzione del rischio di un epidemia di colera era massima.

Un effetto ancora più estremo della nostra incapacità di dare un valore alla vita umana è l’ identifiable victim effect, ovvero la maggior propensione ad aiutare una persona che si può identificare rispetto ad uno sconosciuto piuttosto che una statistica. Jenni e Loewenstein (1997) sono stati i primi ad utilizzare un approccio sistematico per studiare quali tra diverse cause determino questo fenomeno. In un esperimento i partecipanti dovevano assumere il punto di vista di un amministratore di un ospedale e dovevano valutare quanto si sentissero responsabili del decesso di un bambino che era morto in seguito ad una loro decisione che comunque avrebbe avuto una probabilità ridotta (0,1%) di salvare il bambino. In una condizione (vittima identificabile) però si diceva che il bambino era stato ospedalizzato in seguito ad un avvelenamento da piombo e la decisione riguardava un trattamento di nuova generazione e molto costoso ma che avrebbe potuto salvarlo. In un’altra condizione (statistica) veniva detto che un gruppo della comunità locale aveva richiesto all’ospedale di svolgere gratuitamente dei test relativi ai livelli di piombo nella comunità. In oltre, Jenni et al. (1997) avevano provveduto a manipolare anche altre variabili nella condizione di vittima identificabile.

Venivano infatti manipolate la vividezza con cui era descritto l’evento, rendendo il bambino più o meno anonimo, l’incertezza riguardo all’eventualità di un incidente mortale ed infine il momento in cui l’amministratore avrebbe potuto prendere la decisione, prima dell’ospedalizzazione o dopo che l’intossicazione aveva già avuto luogo. Tra quelle prese in considerazione da Jenni et al. (1997) l’unica variabile indipendente che aveva effetto sul senso di responsabilità dei partecipanti era quella riguardante l’identificabilità della vittima.

Dopo Jenni et al. (1997) molti altri studi hanno approfondito l’identifiable victim effect. Small, Loewenstein e Slovic (2007), ad esempio, hanno mostrato che nella condizione di identificabilità fornire delle informazioni statistiche relative al numero di persone a rischio non solo non favorisce una maggior propensione a donare contributi alla vittima ma addirittura li riduce significativamente. In un esperimento, i partecipanti dovevano decidere se volevano dare 5$ a Save the Children. Lo scopo di questa donazione era quello di ridurre la denutrizione nell’Africa Meridionale e dell’Etiopia. In una condizione i partecipanti leggevano alcune informazioni su una bambina di nome Rokia. Insieme a queste informazioni era mostrata anche una foto di questa bambina. In un altra condizione erano invece provviste informazioni statistiche relative alla fame nella regione dell’Africa dove erano destinate le donazioni. Tra queste due informazioni i partecipanti mostravano una chiara preferenza per la prima condizione. Tuttavia, i partecipanti che vedevano una terza condizione dove alla vittima identificabile venivano affiancate anche informazioni statistiche non era valutata significativamente più attraente rispetto alla condizione statistica. Sembrerebbe dunque che le informazioni statistiche riducano la tendenza a donare ad una vittima identificabile. Una possibile spiegazione di questo fenomeno potrebbe essere che, quando dovevano decidere se fare una donazione a Rokia, i dati statistici li inducevano a fare un minor ricorso alle reazioni affettive elicitate dallo stimolo e, dunque, anche ad una minor propensione a farle una donazione.

Nella stessa direzione vanno gli studi di Kogut e Ritov (2005a) che hanno dimostrato che i partecipanti sono più disponibili ad aiutare una persona in difficoltà rispetto ad un gruppo anche quando queste ultime vengono rese identificabili. In un loro esperimento questi ricercatori chiedevano ai  partecipanti quanto fossero disponibili a contribuire all’acquisto di una dose di farmaci dal valore di 1,5 milioni di Sicli Israeliani (circa 300.000 Euro). In una condizione, tuttavia si diceva che questi farmaci erano necessari per il trattamento di un bambino malato mentre nell’altra si diceva che erano necessari per il trattamento di otto bambini malati. In aggiunta, i ricercatori per ognuna delle due condizioni principali avevano creato due ulteriori versioni che si differenziavano per le informazioni fornite in modo da rendere le vittime più o meno identificabili. Indipendentemente da queste manipolazioni i partecipanti che leggevano lo scenario con un solo bambino da aiutare erano significativamente più desiderosi di contribuire alla sua guarigione di quanto non fossero gli altri che invece avevano letto lo scenario in cui i bambini malati e in pericolo di vita erano otto. La cosa più incredibile è che questa asimmetria singolo vs. gruppo si verificava anche quando per ogni bambino nel gruppo erano fornite informazioni anagrafiche (età, nome) e persino una foto che lo ritraeva. In linea con quanto trovato in alcune ricerche precedenti  che hanno indagato la motivazione ad aiutare un altro in difficoltà (Batson et al. 1978; 1981; 1997;2007; Cialdini et al.1973; 1976; 1987),  Kogut et al. (2005a) hanno dimostrato che i partecipanti nella condizione dove la vittima era presentata singolarmente mostravano un interesse empatico ed uno stress significativamente maggiori rispetto ai partecipanti a cui veniva presentato il gruppo di otto bambini. In aggiunta Kogut e Ritov (2005b) hanno elaborato anche un disegno sperimentale che prendeva in considerazione sia la valutazione separata (separate evaluation, SE) che quella congiunta (joint evaluation, JE) dei due prospetti. Sorprendentemente, quando i partecipanti avevano la possibilità di comparare le due opzioni erano più desiderosi di contribuire alle terapie del gruppo di otto bambini piuttosto che aiutarne uno solo. In altre parole si verificava una netta inversione di preferenza (preference reversal) tra la condizione SE e quella di JE.

 

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi