L’importanza dei bisogni: il marketing interno

L’importanza dei bisogni: il marketing interno

 

Sino a qualche anno fa un errore comune, dal punto di vista della gestione manageriale, è stato quello di pensare al marketing come ad una funzione completamente rivolta all’esterno: il mercato. Molto trascurato è stato invece il versante interno.

I nuovi orientamenti di marketing  propongono una visione del prodotto-servizio come un insieme di asset tangibili ed intangibili, o comunque come il risultato di un più ampio processo di creazione del valore.

Va da se che uno degli asset principali che il prodotto-servizio deve contenere è proprio la componente di lavoro, intesa in un’accezione allargata, ossia la dose di entusiasmo, energia, precisione, empatia, conoscenza e passione immessa dal lavoratore.

Parimenti ogni prodotto-servizio dovrebbe incorporare una quota di valore-lavoro, concetto questo da interpretare non da un punto di vista contabile, ne marxianamente inteso, ma come valore del lavoro, ossia insieme di condizioni di lavoro ottimali a determinare l’eccellenza del prodotto-servizio stesso.

Le tendenze pioneristiche del marketing hanno coniato l’espressione di prosumer , per indicare che oggi il cliente dovrebbe essere sempre più partecipe della realizzazione di un bene attraverso l’esplicitazione delle sue esigenze, tanto da dover essere allo stesso tempo consumatore e produttore.

Simmetricamente è possibile affermare che il lavoratore, per meglio comprendere le esigenze del cliente, dovrebbe immedesimarsi egli stesso nella figura dell’utente, fornendo così all’azienda una sorta di testing continuo sull’appropriatezza della configurazione dei benefit che si vogliono offrire al cliente finale (il modello giapponese, come si è visto, insegna).

Il  processo osmotico di valore fra l’azienda e i suoi clienti andrebbe pertanto presidiato su una dimensione globale, che prenda cioè in considerazione non solo i bisogni degli utenti finali del prodotto-servizio, ma anche e soprattutto i bisogni e le motivazioni degli utenti intermedi del prodotto “azienda”. Una volta soddisfatto il cliente interno (lavoratore), si saranno costruite le basi per una efficace soddisfazione del cliente esterno.

Per questi motivi accanto alla tradizionale visione del marketing mix, che prevede l’impiego di quattro leve di marketing (le famose “quattro P”, ossia product, price, place, promotion), si fa sempre più strada una visione a cinque P, in cui l’elemento innovativo è people , ovvero l’attenzione verso le persone.

Oggi si parla quindi di marketing interno, intendendo l’insieme delle attività finalizzate a creare e mantenere una cultura aziendale in cui ogni risorsa umana è al servizio del cliente.

È ormai ampiamente riconosciuto come le Risorse Umane interne all’impresa rivestano un ruolo centrale per ottenere vantaggi nel mercato finale.

Ciò in conseguenza della loro importanza nell’accrescere la soddisfazione del cliente, tramite la valorizzazione delle componenti relazionali dello scambio  e, per tale via, nel contribuire alla creazione di fiducia e fedeltà del cliente esterno, risorsa fondamentale per il successo di un’azienda; ecco perché è importante il marketing interno.

L’internal marketing  mira quindi ad accelerare lo scambio di informazioni e a rendere partecipi i lavoratori, avvalendosi di due fattori: motivazione e coinvolgimento.

Le persone possono così esprimere le proprie considerazioni o raccontare esperienze utili, condividendo le informazioni e proponendo nuove tematiche da approfondire.

Soprattutto nel settore dei servizi, o nelle aree di realizzazione di un prodotto che richiedono l’innesto di servizi aggiunti (quali la logistica, la ricerca dei fornitori, la progettazione, la R&S, gli ordini, la commercializzazione, il post-vendita, etc.) l’idea base del marketing interno è di mettere tutto il personale in grado di dare un contributo al miglioramento del marketing esterno, attraverso una interazione con il cliente che aggiunga valore al prodotto-servizio e l’abbattimento delle barriere interfunzionali.

In tale prospettiva il personale riveste il duplice ruolo di erogatore e fruitore di una prestazione orientata alla massima qualità, in quanto è chiamato a proporre soluzioni sempre nuove. Per raggiungere questo obiettivo, il coinvolgimento del personale nelle strategie aziendali è di vitale importanza.

La disponibilità a condividere le informazioni e la propensione all’interazione sono delle caratteristiche innate nelle persone, pertanto va stimolata la loro espressione con strumenti ad hoc. Il soggetto è chiamato comprendere i vantaggi ottenibili dall’utilizzo di questo strumento e deve sentirsi attore principale in questo processo.

La motivazione di ogni singolo crea così nuovi input costruttivi, portando ad un miglioramento crescente che il collaboratore percepisce essere creato in parte da lui stesso.

In definitiva, l’implementazione di un sistema di marketing interno consente notevoli vantaggi. Innanzitutto riduce drasticamente il time-to-market .

Viene inoltre aumentata la produttività e la collaborazione, dando vita a sinergie, stimolando la manifestazione delle “skill” (qualità personali), di idee nuove e di suggerimenti costruttivi.

Forse l’aspetto più importante è però che un sistema di internal marketing permette il monitoraggio del livello di soddisfazione delle persone verso l’azienda, in quanto è un modo per ascoltare i colleghi e saggiare la condivisione spontanea alle decisioni aziendali, rappresentando una bussola motivazionale per il top management.

L’importanza di un approccio di marketing nella gestione delle risorse interne, suggerisce infine l’analisi dell’oggetto verso cui è tradizionalmente orientato il marketing esterno: il bisogno del cliente.

Come il cliente esterno, anche quello interno ha dei bisogni che devono essere rilevati dal marketing strategico, e successivamente soddisfati attraverso il marketing operativo.

Allo stesso modo dell’approccio classico di marketing, anche in questo caso il problema principale è individuare i valori ricercati dal soggetto che viene in contatto con l’azienda, per poi tradurli in concetti di prodotto (posizione lavorativa) adatti alle sue attese.

Il motivo che spinge alla redazione di questa sezione poggia sulle considerazioni fatte nell’introduzione, riguardanti le recenti tendenze in ambito manageriale rivolte alla soddisfazione delle risorse umane, in conseguenza delle quali è possibile individuare un percorso metodologico di analisi che, come il marketing classico, ponga al centro il consumatore, in questo caso consumatore di occasioni di impiego, cioè il lavoratore.

Quest’approccio, trova tra l’altro una ulteriore giustificazione concettuale dalla tendenza, sempre più riconosciuta in ambito manageriale, dell’impiego di una gestione per processi, il cui punto fondamentale è la relazione del tipo fornitore-cliente tra un soggetto è un alto, tra un’area e un’altra, secondo una logica di reciproco servizio e di soddisfazione dei reciproci bisogni. È quanto si evidenzierà nel prossimo paragrafo.

Generalmente al concetto di bisogno viene comunque attribuita una funzione motivazionale, nel senso che esso viene ritenuto come un’esigenza avvertita da un soggetto, collettivo o individuale, di entrare in possesso di risorse, materiali o immateriali, per conquistare uno stato di maggior benessere o per superare una situazione di malessere. Il concetto di bisogno che così emerge si presta tuttavia a molteplici interpretazioni, tante quanti sono i significati che si attribuiscono al concetto di benessere.

Si prenderà pertanto in considerazione, nei successivi pargrafi, il contributo che i teorici hanno dato nel definire la nozione di benessere in un’ottica di marketing, mettendo in luce la struttura pluridimensionale delle motivazioni alla base dei diversi comportamenti.

Tali teorie sono focalizzate esplicitamente sul contenuto della dimensione motivazionale, dal momento che cercano di sviluppare una comprensione dei bisogni fondamentali dell’uomo, o dei fattori ad essi associati, che determinano le scelte di azione o non-azione nel contesto lavorativo.

L’approccio maggiormente utilizzato è stato quello di compilare un elenco di bisogni descrittivi del fenomeno motivazionale nei suoi molteplici aspetti. Si passeranno pertanto brevemente in rassegna le teorie motivazionali del marketing rivolto al consumatore e quelle della psicologia dell’acquisto, con i dovuti adattamenti, dato che è mutato il soggetto di analisi, e il concetto di bisogno. Tale percorso includerà anche la trattazione della theory of planned behavior di Ajzen, relativamente recente, molto importante nell’interpretazione dei processi decisionali, nella progettazione delle mansioni e nella previsione del comportamento organizzativo.

Concluderà la sezione un altrettanto breve accenno di un approccio alla motivazione molto in voga al momento, pur essendo assolutamente poco diffuso, se non nell’ambiente anglosassone, perchè ancora scarsamente codificato all’interno di un quadro teorico di riferimento, nonostante il suo estremo rilievo di natura pratica: la Programmazione Neuro-Linguistica (PNL) e le sue nuove tecniche del cambiamento, dello sviluppo personale e della comunicazione.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Il valore strategico della motivazione in azienda: dalle Relazioni Umane alle Risorse Umane

Il valore strategico della motivazione in azienda: dalle Relazioni Umane alle  Risorse Umane

Dalle critiche successive all’opera di Mayo si è visto che l’effetto della Scuola delle Relazioni Umane sull’organizzazione del lavoro non era stato dirompente.

Queste teorie vanno progressivamente in crisi nel momento in cui si prende coscienza che gli interessi umani dei dipendenti sono intrinsecamente contrapposti a quelli delle aziende organizzate in modo tradizionale.

L’unico modo per superare il contrasto poteva allora essere il ripensamento dell’organizzazione del lavoro, in modo che le mansioni, arricchite di contenuti intelligenti, avrebbero stimolato le motivazioni dei dipendenti e garantito una reale crescita psicologica e intellettuale.

A partire dalla metà degli anni ‘50, si andava pertanto configurando una situazione sociale che rendeva la teoria del lavoro di Taylor necessariamente da superare, a causa della necessaria riprogettazione del sistema organizzativo di fronte all’incalzare di un elevato tasso di obsolescenza tecnologica e dei prodotti.

In più il benessere economico verificatosi in maniera crescente a partire dal dopoguerra, i miglioramenti nell’ampiezza e nella qualità della formazione, l’erosione dei modelli tradizionali di autorità, hanno ridotto l’importanza della soddisfazione dei bisogni elementari, ponendo invece l’accento verso la soddisfazione dei bisogni di ordine superiore, come quelli di “autorealizzazione” e “autodeterminazione”.

Si affaccia in questo scenario la corrente delle neo-relazioni umane la quale ha cercato, invece, di integrare l’uomo nell’organizzazione, modificando le strutture formali in modo che queste siano realmente rispondenti ai bisogni dei lavoratori.

Viene attuato così un rovesciamento delle prospettive nei confronti delle teorie classiche e della corrente delle Relazioni Umane: per accrescere l’efficacia dell’organizzazione, non è più l’individuo che deve adattarsi ad essa, spinto da incentivi finanziari o relazionali, ma spetta all’organizzazione modificare le proprie strutture formali per soddisfare i bisogni di appartenenza, di stima e di realizzazione dell’individuo.

I tentativi teorici più avanguardisti nel superamento del taylorismo si sostanziano in una grande scuola del pensiero organizzativo: quella motivazionalista.

La Scuola comprende un gruppo di studiosi sociali che, soprattutto in America, nel periodo 1960-70, cercano un superamento del taylorismo su un piano volontaristico, ossia nella realizzazione della personalità.

I meriti principali di tali autori sono quelli di aver saputo interpretare le esigenze del loro tempo, dando voce alle migliaia di operai che avevano bisogno di sentirsi uomini e persone anche nel lavoro alla catena di montaggio.

Ancora, l’aver affermato apertamente che i lavori svolti in autonomia e piena responsabilità procurano soddisfazione e migliorano la produttività. D’altro canto, i modelli motivazionali, si sono caratterizzati per un’attenzione, quasi esclusiva, alla dimensione psicologica dei soggetti  e alle dinamiche microsociali (ciò che rappresenta il loro maggiore limite), e hanno comunque avuto una bassa efficacia nel modificare concretamente l’organizzazione del lavoro.

Argyris è l’autore che testimonia la transizione dalle Relazioni Umane alle teorie motivazionali. Argyris, infatti, afferma che l’organizzazione moderna del lavoro (quindi la teoria tayloristica e le teorie ad essa legate) comprime troppo la personalità del singolo lavoratore e non favorisce la crescita della sua individualità .

Il fatto di eseguire continuamente ordini e di svolgere un lavoro per niente creativo ma solo esecutivo, non sviluppa la fantasia e la creatività del soggetto, comprimendone l’indipendenza, la capacità di ricerca e di adattamento, la capacità di programmare il proprio futuro, di assumere responsabilità e di conoscere le potenzialità del proprio ego. I sistemi di gestione vengono quindi ritenuti responsabili delle frustrazioni e della demotivazione, a causa della struttura rigidamente formale dell’organizzazione, di una direzione autoritaria, di sistemi di controllo ristretti come quelli budgetari, i piani di incentivi e l’analisi dei tempi e dei metodi.

Dalla razionalità aziendale discendono conseguenze incompatibili con lo sviluppo della maturazione personale: Argyris individua tali conseguenze proprio in quei principi che la scuola classica ha indicato come i cardini fondamentali di un’organizzazione “razionale” del lavoro.

La specializzazione dei compiti, ad esempio, se da un lato aumenta il rendimento lavorativo, dall’altro frena la naturale ricerca umana della novità e sviluppa solo “poche e superficiali capacità” , mentre le altre sono condannate ad una lenta atrofia.

In sintesi, Argyris ritiene che le teorie classiche, quelle delle Relazioni Umane e delle neo-relazioni umane si sono avvalse di una concezione quasi deterministica del fattore umano: l’uomo è considerato sottomesso passivamente alle pressioni dell’organizzazione.

Ognuna di queste teorie auspica un tipo di stimolo (finanziario, relazionale o motivazionale) per scatenare i comportamenti desiderati e raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione

Finché le aziende resteranno organizzate in modo scientifico, incomberà sempre il dilemma tra perseguire i fini aziendali, sacrificando l’integrità psicologica dei lavoratori, oppure salvaguardare i lavoratori rinunciando a massimizzare i profitti aziendali.

La soluzione che in più occasioni e scritti  propone Argyris, consiste nel creare una dirigenza più sensibile e più democratica, ma nel promuovere la nascita di gruppi informali che si autogestiscano il lavoro discutendo fra loro e trovando le migliori soluzioni, per rendere il lavoro più piacevole.

Naturalmente tale proposta è un po’ debole ed in seguito la sua teoria si è evoluta. La debolezza consiste nel fatto che c’è un rinvio troppo ottimistico ad una presunta democrazia di base che non sempre si riscontra nella realtà quotidiana.

Nella terza fase di sviluppo delle Relazioni Umane (fine anni ‘60), si consolidano, con una maggiore attenzione ai problemi di implementazione ed in una prospettiva sistemica e di pianificazione, le diverse tecniche del personale: sistemi di valutazione, di programmazione delle carriere, di pianificazione retributiva (fasce retributive, dinamica retributiva individuale, i “fringe benefits”).

Si avverte, contestualmente, una diffusa esigenza di coniugare i processi di cambiamento organizzativo, con le politiche di crescita del personale e di collegare la dinamica retributiva dei quadri e dei dirigenti alla performance aziendale ed individuale; la quarta fase di sviluppo della corrente di Mayo (negli anni ‘70) è stata profondamente influenzata dalla diffusione delle teorie e dei modelli organizzativi di matrice “sistemico-situazionale” .

Esse applicano allo studio delle organizzazioni i fondamenti della teoria dei sistemi, sulla base della considerazione che un’organizzazione va intesa come un sistema (insieme di elementi in reciproca relazione tra loro, organizzati per la realizzazione di un fine) complesso (ovvero a sua volta costituito da più sub-sistemi tra loro interagenti) e aperto (nel senso che scambia risorse e restituisce risultati con l’ambiente che lo circonda).

Una più ottimale predisposizione della mansione può pertanto consentire il raggiungimento di prestazioni di livello superiore, qualora preveda la necessaria integrazione reciproca tra fattori tecnologici e fattori umani della mansione stessa, in cui sono contenuti gli aspetti legati alla motivazione ed ai rapporti sociali tra l’individuo e l’organizzazione. Un tale cambiamento di rotta è possibile scorgerlo, in fase primordiale, già a partire dagli anni ‘50 ad opera della Teoria dei sistemi socio-tecnici di Trist, elaborata da un gruppo di ricercatori del Tavistock Institute in Inghilterra e successivamente, trova una più decisa affermazione negli anni ‘70, con la Teoria dei sistemi aperti  e quella del sistema organizzativo globale.

La riflessione muove da un’analisi dell’attività lavorativa intesa appunto come “sistema sociotecnico” all’interno della quale tutte le persone impiegate nella produzione costituiscono il “subsistema sociale”, mentre le macchine e le altre strutture costituiscono il “subsistema tenico”.

L’organizzazione efficiente nasce dalla capacità di individuare le migliori modalità possibili per far interagire i due subsistemi e armonizzare le varie componenti.

Negli ultimi decenni il ruolo e l’importanza delle persone all’interno delle organizzazioni è stato progressivamente oggetto di un processo di continua e straordinaria rivalutazione, tanto da assumere il ruolo di vero protagonista delle fortune (o meno) dell’attività dell’organizzazione stessa.

Mantenere collaboratori validi all’interno della propria azienda richiede però forti doti motivazionali. Si ritiene infatti che il lavoro debba essere sempre più un “piacere” piuttosto che un “dovere”, con il conseguente insorgere del rifiuto per i lavori di routine o meno graditi. Queste considerazioni, seppur attuali, erano tuttavia state oggetto di approfondimento già qualche decennio prima.

Nel corso degli anni ‘70, l’Occidente industrializzato venne invaso dai prodotti industriali giapponesi (automobili, radio e televisori, prodotti fotografici) .

Ci si rese conto e si scoprì che tali successi produttivi e di vendita erano legati ad un’organizzazione del lavoro molto innovativa, che di fatto aveva definitivamente superato il modello fordista. Lo studio approfondito della produzione giapponese porta gli occidentali a comprendere che i risultati raggiunti sono il frutto certamente di una grande capacità di lavoro e di disciplina in fabbrica, ma alla base vi è un nuovo modello di organizzazione produttiva avviato già nell’immediato dopoguerra nella fabbrica di automobili Toyota e poi perfezionato, il così detto “modello giapponese”.

Con questa espressione si intende un insieme di modelli organizzativi del lavoro in fabbrica, che trasformano alcuni limiti dello sviluppo industriale classico in risorse innovative.

Di questi vari tentativi il più riuscito è il modello organizzativo che venne attuato alla Toyota nel periodo 1948-60, sotto la direzione di Tsjichi Ohno e che prende il nome di “toyotismo”.

La caratteristica essenziale è innanzitutto la forte riduzione del magazzino sia in entrata che in uscita . A sua volta il prodotto finale doveva arrivare al termine della catena di montaggio senza alcun difetto ed in questa maniera essere rapidamente portato fuori dallo stabilimento per la vendita. Per ottenere tutto ciò (avere i prodotti nel momento in cui servono) è necessaria una stretta collaborazione all’interno dell’azienda, ma anche al di fuori della stessa.

Un’altra caratteristica molto importante è quindi il coinvolgimento dei dipendenti e dei fornitori, ma anche il primato della “qualità totale”.

In realtà il segreto di questo modello risiede nell’enfasi posta sulla creazione di valori aziendali condivisi (quella che viene chiamata la “corporate culture”), sui processi di socializzazione ed internalizzazione della conoscenza attraverso la frequente fluttuazione di informazioni dal top management ai gruppi di produzione, sul caos creativo attraverso la sovrapposizione delle mansioni.

Nel modello giapponese, infatti, le mansioni hanno confini poco precisi ed i dipendenti sono sollecitati a partecipare alle decisioni riguardanti la produzione. Gli operai hanno il diritto-dovere di interrompere il flusso produttivo ogni qualvolta notano anomalie o difetti. Inoltre gli operai vengono preparati ad affrontare nuove situazioni lavorative e, pur mantenendo una specializzazione, sono abituati ad essere polivalenti.

La collaborazione ed i suggerimenti vengono sollecitati ed espressamente richiesti anche ai fornitori esterni rispetto all’azienda ed ai venditori dei prodotti finiti.

Le nuove richieste ed i nuovi suggerimenti possono diventare nuovi stimoli per modificare i prodotti.

Tali modifiche possono essere effettuate con estrema rapidità in quanto tutta l’officina ed il ciclo produttivo è stato impostato per facilitare e non ostacolare i continui aggiornamenti e miglioramenti.

In definitiva, il perno centrale su cui si fondano le tecniche di motivazione del personale, nel modello giapponese, è costituito da un elevato coinvolgimento e partecipazione attiva agli obiettivi aziendali.

Dopo gli anni della cosiddetta “scoperta” del modello giapponese in Occidente vi furono dei tentativi di applicazione. Negli anni ‘80 e ‘90 in varie fabbriche automobilistiche si tenta un aggiornamento delle strutture organizzative.

Il problema principale da superare era quello di acquisire il consenso degli operai ad una produzione più intensa ma anche più responsabile, in presenza di conflitti sindacali o di una manodopera non abituata da decenni ad essere considerata autonoma e responsabile sul lavoro.

In tale contesto, la funzione del personale, che nel passato aveva svolto prevalentemente le attività di amministrazione e gestione dei rapporti contrattuali di lavoro, allarga le proprie attività allo sviluppo organizzativo e del personale, enfatizzandone la valenza economica e collegandolo con il processo di pianificazione strategica e di budgeting.

All’inizio degli anni ‘80 la perdita di competitività delle imprese americane e il successo delle aziende giapponesi ha sollevato l’importanza delle “Risorse Umane”.

Si afferma così la scuola americana dello Human Resource Management basata su un modello teorico contingente: non esiste una scelta ottima, ma è importante la coerenza con la strategia e l’ambiente organizzativo.

Le organizzazioni e la gestione del personale vengono a configurarsi sempre più come sistemi complessi di conoscenze. La quantità e la qualità delle risorse umane disponibili condizionano la formazione e la realizzazione della strategia aziendale, così come le scelte organizzative orientano le politiche di gestione delle risorse umane verso modalità e obiettivi coerenti con la strategia. Il rilievo strategico attribuibile alle politiche di gestione delle risorse umane e alla costante ricerca della motivazione in ambito lavorativo, costituiranno da questo periodo in poi un punto fermo.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

L’approccio delle Relazioni Umane

L’approccio delle Relazioni Umane

I problemi che le teorie classiche lasciavano irrisolti, ed in particolar modo l’alienazione che si respirava nell’ambiente di lavoro, ispirarono diverse ricerche nel campo della psicologia industriale e della sociologia del lavoro.

Questi studi, dati gli orari e i ritmi massacranti imposti dalla fabbrica di stampo tayloristico, si focalizzarono sull’analisi della fatica, sia da un punto di vista fisico che psicologico, e sulle ripercussioni che la monotonia del lavoro poteva avere sulle spinte motivazionali .

Un gruppo di ricercatori, che diede un notevole impulso all’approfondimento di queste tematiche, è rappresentato da tre autori inglesi: Wyatt, Fraser e Stock . In seguito al loro contributo è possibile affermare che la noia sul lavoro è massima quando bisogna effettuare un compito particolarmente ripetitivo e che al tempo stesso non consente distrazioni. I tre autori proposero alle direzioni aziendali alcune innovazioni per eliminare la noia e diminuire la monotonia: la rotazione delle attività fra gli operai; il non isolamento del singolo operaio nell’ambiente di lavoro; l’introduzione di pause nel turno di lavoro; la retribuzione a giornata e non a cottimo.

Queste raccomandazioni e suggerimenti, come si vede, sono in contrasto con il modello taylorista e soprattutto con la catena di montaggio del modello fordista , mettendo in relazione la motivazione con una maggiore “umanizzazione” dell’ambiente e dei rapporti di lavoro, e non con incentivi economici.

Nel corso degli anni ‘50, l’attenzione a questi temi si sviluppa ulteriormente per effetto della diffusione della Scuola delle Relazioni Umane e delle teorie di Elton Mayo, che godette di grande seguito ed influenza. Gli studi condotti da una squadra di ricercatori diretta da Elton Mayo, furono preceduti da un lavoro di analisi e sperimentazione condotto dalla stessa direzione aziendale della Western Electric Company, sul rapporto fra luminosità e rendimento operaio.

L’ipotesi era che, aumentando l’intensità luminosa, doveva crescere la produttività.

Vennero organizzati un gruppo sperimentale ed un gruppo di controllo. Al termine dell’esperimento venne fuori che la produzione era aumentata sia nel gruppo sottoposto alle variazioni di intensità luminosa che nell’altro, dove era stata lasciata la stessa intensità. Si provò a diminuire la luce e la produzione continuò ad aumentare anche se in forma non molto elevata. I risultati misero in crisi i dirigenti della compagnia , i quali intuirono che vi erano in questo comportamento importanti fattori umani da valutare e perciò venne richiesta una consulenza scientifica esterna alla fabbrica.

A questo punto entrò in gioco Mayo e la sua squadra, con un programma che fu molto lungo (durò cinque anni) ed ambizioso. Nel corso di questo lungo periodo, furono condotte varie modifiche per verificare l’effetto di alcuni cambiamenti ambientali sulla produzione degli operai.

Tali modifiche si possono riassumere in  riduzione complessiva dell’orario, introduzione di una pausa lavorativa e poi di una seconda pausa, reintroduzione delle condizioni di partenza, introduzione di pause diverse dalle prime e possibilità di poter effettuare una rapida colazione.

I ricercatori notarono subito che la produzione aumentò fin dall’inizio e tendenzialmente continuò sempre a crescere. Gli autori della ricerca, ed in particolare gli assistenti di Mayo, Reetthlisberger e Dickson, affermarono che l’aumento del rendimento operaio dipendeva soprattutto dall’instaurarsi di rapporti amichevoli e positivi; buoni risultati vennero infatti forniti dalle pause di riposo (la produzione aumentava sempre dopo una breve pausa); l’incentivo economico non ebbe una grande rilevanza. Scopo della ricerca fu quindi quello di verificare le dinamiche informali nell’ambito di un gruppo di lavoro in rapporto all’andamento della produzione, concentrandosi quindi sulla funzione del fattore interazionale nella produttività aziendale .

Un attacco più frontale al taylorismo si ha ad opera di alcuni studiosi di matrice marxista come Braverman, Burawoy e Roy , che collegano le problematiche motivazionali all’alienazione operaia, causata dalla mancanza di padronanza sui mezzi di produzione, legata anche all’ambiente di lavoro ed al fragile legame fra l’operaio e la propria azienda. Secondo Blauner , un altro fattore determinante è poi “l’autoestraneazione”, ovvero l’isolamento del soggetto nel posto del lavoro, il sentirsi isolato pur appartenendo ad una squadra o ad una catena di montaggio. Secondo le ultime revisioni della teoria marxista  la fabbrica ha invece sempre più bisogno di operai che siano disponibili a comprendere le nuove tecnologie e per fare questo c’è bisogno di maggiore collaborazione adesione e consenso.

Pertanto il progresso tecnologico non tende a far aumentare il conflitto nelle fabbriche, né crea una generale de-qualificazione del lavoro umano. Al contrario l’inserimento dell’automazione, della robotica e del computer in fabbrica ha obbligato il capitalista ad aumentare la collaborazione con i propri dipendenti, in quanto dipende soprattutto dalle capacità tecniche e dalla intelligenza di questi operai altamente qualificati il buon funzionamento del sistema.

Secondo Touraine , con la diffusione delle macchine automatizzate molta manodopera diventa superflua e quindi aumenta la disoccupazione (e questo rappresenta l’aspetto negativo); nel contempo l’operaio, sempre più tecnico, si libera di molti lavori routinari e soprattutto di molti lavori pesanti . La fase acuta del taylorismo comincia ad essere superata ed una nuova fase del lavoro, divenuto ora più coinvolgente ed intrinsecamente motivante perché denso di contenuti e significati, inizia ad intravedersi: la tecnologia è il motore principale di tali trasformazioni, innescando un rovesciamento del rapporto uomo-macchina.

Un altro autore che ha una linea meno dura di quella marxista, ma allo stesso tempo rivoluzionaria per le ulteriori considerazioni sul fattore umano nell’organizzazione del lavoro, è il sociologo Barnard. Egli, delinea le funzioni del moderno dirigente industriale , inserendo tale figura in un disegno teorico più ampio che sinteticamente lo stesso Barnard chiama “sistema cooperativo”, ovvero una azienda nella quale la collaborazione necessaria fra proprietà, dirigenti, capi reparto ed operai non è più lasciata al caso e alla buona volontà, ma viene vista come parte integrante e strutturale della stessa. Inoltre, la convinzione profonda di Barnard è che nel campo del lavoro, pur essendo importanti gli incentivi materiali (quindi lo stipendio, il salario, il cottimo) sono altrettanto importanti gli incentivi non materiali (prestigio, soddisfazioni morali, onorificenze, promozioni).

Il passo in avanti che compie rispetto a Mayo è che, mentre il fondatore delle Relazioni Umane poneva l’accento soprattutto sui rapporti informali nel piccolo gruppo, Barnard ritiene importante formalizzare questi incentivi e renderli il più possibile espliciti. Affinché ciò si possa realizzare è necessario fondare la vita giornaliera dell’azienda su norme formali e riconosciute e non su aspetti paternalistici; la persuasione e gli incentivi morali non debbono essere una concessione o un omaggio casuale legato alla bontà del proprietario o del dirigente, ma una ricerca continua di consenso e di incentivazione, utilizzando di volta in volta sia gli incentivi economici che quelli morali e non strettamente economici.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Il concetto di motivazione nella visione tayloristica

Il concetto di motivazione nella visione tayloristica

I primi tentativi di miglioramento delle prestazioni lavorative non prendevano in considerazione le variabili legate agli aspetti motivanti, ma erano caratterizzati da un’enfasi sulla pura strumentalità del lavoro, in conseguenza “dell’assorbimento sempre maggiore dell’uomo nella sua interezza nel sistema economico”, e nella svalutazione di tutte le attività e propensioni umane diverse da quelle economiche.

Tale approccio, sviluppatosi già agli inizi del ‘900, si fonda principalmente sui contributi dello Scientific Management e in primo luogo di Taylor , che parte dal presupposto che “la snaturazione razionalizzata del lavoro è il migliore o l’unico modo di raggiungere gli obiettivi tipici dei modelli culturali allora prevalenti di alta produzione e basso costo”.

Il loro fine era pertanto quello di mobilitare in modo ottimale le risorse materiali ed umane dell’organizzazione, inserendo razionalità e prevedibilità, in un contesto produttivo caratterizzato da metodi di lavoro molto empirici e da una direzione dove prevalevano le decisioni personali e l’arbitrio, ma che doveva affrontare adeguatamente le nuove sfide poste dalla produzione di massa.

I criteri maggiormente utilizzati nella progettazione delle mansioni non potevano che essere quelli della massima specializzazione, della massima ripetitività e del minimo tempo di addestramento, ottenendo così la limitazione sia del numero di compiti elementari, sia delle loro variazioni all’interno di una stessa mansione.

La specializzazione e la divisione del lavoro nascono dall’esigenza di dividere le attività lavorative che non possono essere svolte da un solo soggetto o che non è conveniente affidare ad un solo lavoratore.

In altri termini, essa si presenta come una soluzione opportuna quando ci si accorge che l’accentramento di queste attività in un solo individuo produrrebbe inefficienze (sprechi di risorse) e risultati non soddisfacenti.

In una situazione del genere ci troviamo di fronte ad un compito, o un’attività, di natura collettiva, la quale per definizione richiede l’intervento di più soggetti. In quest’ottica, è quindi necessario suddividere il compito, assegnarlo ai diversi soggetti, in modo da massimizzare le prestazioni di ciascuno e quelle del gruppo di persone, unico responsabile del compito collettivo.

I lavoratori che partecipano alla realizzazione di un’attività collettiva si troveranno così a svolgere compiti frazionati e parziali ed avranno bisogno del contributo degli altri membri del gruppo, se vorranno realizzare l’attività collettiva alla quale partecipano.

Nell’organizzazione scientifica del lavoro, il soggetto non ha un ruolo attivo nel determinare la propria mansione, ma “esegue” semplicemente i compiti rigidamente assegnati, ai fini di una maggiore efficienza produttiva .

Per questi fini si ritenevano anzi necessari dei veri e propri gruppi di lavoro che dovevano occuparsi della misurazione di tempi e metodi.

Essi, infatti, dovevano scomporre i singoli movimenti ed eliminarne le fasi superflue, ricomporre il lavoro stabilendo quali debbano essere le attività e gli utensili da utilizzare, fissare il tempo teorico di effettuazione di quella determinata fase lavorativa in modo da migliorare la tempistica globale.

È chiaro come in un’organizzazione siffatta il lavoro poteva facilmente diventare alienante, perdendo quel fascino e quella soddisfazione che invece dava, ad esempio, il lavoro artigianale in cui il soggetto poteva esprimere le proprie capacità e la propria arte creativa.

Così le teorie organizzative tayloristiche postulavano una struttura motivazionale del lavoratore limitata solo ai motivi economici.

In questa fase i modelli di gestione del personale erano basati sui sistemi di incentivazione della manodopera (cottimi), ancorati ad una rigida predeterminazione dei tempi.

Il coinvolgimento del lavoratore veniva quindi garantito, oltre che con i sistemi di incentivazione monetaria, con una rigorosa applicazione delle norme contrattuali e dei regolamenti interni.

Pertanto non si possono individuare elementi motivanti in una siffatta organizzazione del lavoro, se non quelli associati ad una progressione dei sistemi di incentivazione al crescere della produttività.

In definitiva, per avere un livello di motivazione elevato in un’organizzazione scientifica, bisogna accettare almeno due postulati delle teorie tayloristiche, che risultano tuttavia inverosimili sia dal punto di vista economico che umano:

    • la produttività del lavoro deve essere sempre crescente affinché la rimodulazione degli schemi organizzativi porti a maggiori prestazioni e impegno sul lavoro il soggetto trae soddisfazione sul lavoro solo da incentivi di natura economica.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo