Verso una risposta psicologica al quesito dell’altruismo

Verso una risposta psicologica al quesito dell’altruismo

L’esistenza di un altruismo puro, motivato solo dall’interesse di accrescere il benessere del prossimo, come abbiamo visto, è stata messa in discussione dai pensatori di ogni epoca. Anche la psicologia sin dalle sue origini ha cercato di rispondere a questa millenaria questione.  Tuttavia, un attenzione ad uno studio sistematico sulle motivazioni che portano ad aiutare le persone si è avuto solo a partire degli anni ’70.

Pionieristici in questo senso sono stati gli studi di Isen e i suoi collaboratori (1970; Isen e Levin, 1972) che sono stati tra i primi ad indagare l’incidenza dell’umore nel comportamento d’aiuto. In un esperimento, Isen e Levin (1972) chiedevano ai partecipanti quanti minuti fossero disposti a concedere allo sperimentatore per aiutarlo come complici in alcuni altri esperimenti. Coloro che avevano ricevuto un biscotto subito prima della prova mostravano una disponibilità significativamente maggiore rispetto agli altri. Isen (1970) ha anche dimostrato come il fatto di aver avuto successo o aver fallito in una prova possa essere sufficiente ad indurre le persone ad essere più o meno generose quando fanno un offerta di beneficenza. In un esperimento, infatti, degli insegnanti di un sistema scolastico suburbano che avevano ricevuto un feedback positivo erano significativamente più propensi a lasciare più monete ad un complice dello sperimentatore che chiedeva loro un contributo per l’istallazione dell’aria condizionata nel loro istituto rispetto a quelli che invece avevano ricevuto un feedback negativo. Quest’ultime poi non facevano donazioni significativamente più elevate rispetto ad un gruppo di controllo in cui non era stato manipolato l’umore in alcun modo. Il fatto che l’induzione di un affetto negativo portasse i partecipanti di questo esperimento a donare quanto quelli il cui affetto era neutrale è particolarmente interessante alla luce del fatto che in altri studi è stato mostrato invece che gli affetti negativi, tristezza in particolare, possono motivare le persone ad un comportamento altruistico.

 

In questa direzione vanno gli studi di Cialdini e colleghi (Cialdini, Darby, Vincent, 1973; Cialdini, Kenrick, 1976; Cialdini, Schaller, Houlihan, Arps, Fultz, Beaman, 1987) che hanno proposto un modello secondo il quale le persone quando sono tristi sono più propense ad aiutare un altro in difficoltà perché questo gli consente di “sollevarsi” dallo stato negativo che sperimentano. Questo modello prende il nome di negative state relief model, ovvero modello del sollievo dagli stati d’animo negativi, e propone un’idea edonistica dell’altruismo. Infatti secondo questo punto di vista le persone aiutano altre persone perché questo gli procura piacere, esattamente come gliene procurerebbe una somma di denaro o una gratificazione esterna di altro genere. Cialdini, Darby, Vincent (1973) per testare questo modello fecero in modo che i partecipanti di un loro esperimento fossero coinvolti in un disastro. In particolar modo gli sperimentatori avevano sistemato una sedia in modo tale che spostandola si rovesciassero tre scatole di schede per computer. Metà dei partecipanti, ignari della trappola, spostando la sedia ribaltavano le scatole ed il loro contenuto. Per la metà restante invece la sedia veniva spostata dallo sperimentatore e quindi loro assistevano solo alla scena. I partecipanti di queste due condizioni erano a loro volta suddivisi in altre due condizioni. Nella condizione di sollievo (relief)  il partecipante otteneva 1$ oppure un feedback positivo riguardo la sua prestazione in un compito. Nella condizione di non-sollievo (no-relief) invece non era prevista alcuna gratifica. Infine, a tutti i partecipanti era data la possibilità di aiutare uno studente nello svolgimento di alcuni altri compiti. Come ipotizzato da Cialdini et al. (1973) i partecipanti che avevano ricevuto una somma di denaro o una gratifica erano significativamente meno propensi ad aiutare lo studente rispetto a coloro che non avevano ricevuto alcuna gratificazione. Inoltre, diversamente da quanto mostrato da Isen (1970), i partecipanti di un gruppo di controllo che non avevano affrontato alcuna manipolazione sperimentale erano significativamente meno altruistici rispetto ai partecipanti della condizione di no-relief.  Cialdini e collaboratori (1973; 1976; 1987) con i loro studi e le loro argomentazioni teoriche hanno dunque dato valido supporto ad una visione egoistica della natura umana dove l’uomo aiuta non per un vero e proprio interesse verso il prossimo ma perché ha appreso, grazie alla sua esperienza, che questo aiuta a migliorare il proprio stato d’animo.

Non tutti gli studiosi tuttavia hanno condiviso la teoria proposta da Cialdini e colleghi.

In questo senso, uno dei più grandi sostenitori dell’altruismo puro, è stato sicuramente Daniel Batson che con i suoi collaboratori (Coke, Batson & Davis, 1978; Batson & Coke, 1981; Batson, et al. 1997) ha dimostrato che l’empatia può portare ad aiutare un’altra persona sofferente. Batson e colleghi (1978; 1981) inducevano alcuni dei partecipanti a provare un interesse empatico verso una ragazza di nome Elaine che in un compito di apprendimento composto da dieci prove avrebbe dovuto subire delle scosse ogni volta che sbagliava. In una condizione, detta di fuga difficile, i partecipanti dovevano assistere a tutte e dieci le scosse. Nell’altra potevano limitarsi ad osservare solo le prime due scosse e poi andarsene. Elaine, che in realtà era un attrice, dopo le prime due scosse appariva visibilmente turbata, perché da piccola, in seguito ad un incidente a cavallo, era finita su una staccionata elettrica. Lo sperimentatore, anch’esso un attore, chiedeva allora al partecipante se fosse disposto a scambiarsi di posto con la ragazza. Come si aspettavano gli sperimentatori, coloro che erano costretti a guardare tutta la serie di prove avrebbero aiutato la povera Elaine, pur di non vederla soffrire ancora, ma solo quelli che prima del compito erano stati indotti a provare un interesse empatico per la ragazza erano disposti a sostituirsi a lei anche quando era offerta a loro una facile via di fuga.

Batson e colleghi hanno riproposto questo paradigma in diversi studi, spesso con piccole varianti, riguardo alla persona verso cui i soggetti provavano empatia, oppure nelle modalità in cui quest’ultima veniva indotta, ma in tutti gli esperimenti hanno mostrato che l’empatia è una motivazione fondamentale del comportamento d’aiuto e più in generale dell’altruismo puro.

Sulla base di questi risultati Batson ha anche proposto il modello dell’altruismoempatia. Questo modello sostiene che tanto più una persona tende a provare empatia con un’altra tanto più sarà probabile che l’aiuti. Dunque, le persone non aiutano necessariamente per una motivazione edonistica, come sostenuto da Cialdini e collaboratori (1973; 1976; 1987) ma piuttosto perché potrebbero essersi immedesimate nella situazione e nelle emozioni della persona che  hanno aiutato.

Più di recente, Batson, Polycarpou, Harmon-Jones, Imhoff, et al. (1997) hanno dimostrato anche che l’interesse empatico verso il membro di un gruppo stigmatizzato può portare non solo ad un migliore atteggiamento verso il singolo, come nel caso di Elaine, ma anche nei confronti del gruppo di appartenenza. Per esempio, in un esperimento i partecipanti erano indotti a provare empatia per Harold, un senza tetto di 56 anni, dopo aver ascoltato un intervista in cui lo sentivano parlare della sua situazione, erano maggiormente propensi ad avere un atteggiamento più positivo anche verso la categoria più ampia dei barboni, oltre che verso Harold stesso. Inoltre, questo atteggiamento positivo verso Harold e i senza tetto più in generale non variava significativamente a seconda del fatto che Harold fosse reso più o meno responsabile della sua condizione sociale.

Batson et al. (1997) hanno anche dimostrato che questo fenomeno può verificarsi anche con membri di gruppi altamente stigmatizzati, verso i quali c’è una minore attitudine ad inibire giudizi negativi.

In un esperimento, ad esempio, chiedevano ai partecipanti di ascoltare l’intervista di James, un uomo condannato per l’assassinio di un vicino di casa. Una o due settimane dopo, a loro insaputa, queste stesse persone furono contattate per un intervista telefonica su una presunta “Riforma sulle Prigioni”. Subito dopo aver ascoltato James coloro cui era stato chiesto di mettersi nei suoi panni non mostravano un atteggiamento significativamente più positivo rispetto a chi aveva invece assunto un punto di vista più freddo e distaccato. Infatti,  in conseguenza dell’alta stigmatizzazione della categoria sociale degli assassini, i livelli di empatia erano significativamente più bassi rispetto a quelli provati verso altri gruppi.  Nonostante ciò, quando una o due settimane dopo venivano intervistati su una possibile riforma della prigione, l’atteggiamento nei confronti di misure meno rigide nelle carceri era più favorevole quando venivano intervistate persone a cui veniva chiesto di mettersi nei panni di James. In questo esperimento, dunque, Batson et. al (1997), hanno dimostrato non solo che l’effetto dell’empatia può migliorare l’atteggiamento anche verso gruppi con reputazione altamente negativa, ma che può anche manifestarsi a distanza di tempo. Questi risultati suggeriscono che i partecipanti che avevano assunto il punto di vista di James in un primo momento possano aver resistito ai sentimenti di empatia che provavano verso di lui perché erano sospettosi della relazione causale che ci poteva essere tra questi affetti e la manipolazione sperimentale mentre, in un secondo tempo, quando venivano colti alla sprovvista e dunque questa relazione causale era più difficile da richiamare alla memoria, erano meno inclini a controllare il loro atteggiamento positivo verso i carcerati e dunque più favorevoli ad una riforma che migliorasse le loro condizioni di prigionia.

Sulla base di questi studi sembra evidente che la percezione di un altro bisognoso e la presa di prospettiva della persona bisognosa siano due antecedenti fondamentali dell’interesse empatico verso una persona in difficoltà. Tuttavia il fatto che in Batson et al. (1997) i partecipantiavessero più difficoltà ad assumere la prospettiva di un colpevole per omicidio rispetto ad uno sconosciuto ha portato Batson, Eklund,Chermok, Hoyt e Ortiz (2007) ad ipotizzare che la valutazione del benessere di un’altra persona in difficoltà possa essere un antecedente fondamentale dell’empatia. In un loro

esperimento i partecipanti leggevano la storia di Bryan, uno studente che in seguito ad un incidente in cui si era trovato coinvolto mentre andava a scuola di corsa, perché era in ritardo, si era infortunato seriamente. Si diceva poi che siccome Bryan era costretto a stare a casa da scuola era a forte rischio di saltare l’anno. Nella  condizione di valutazione positiva i partecipanti leggevano che questo ragazzo era in ritardo perché aveva incontrato un’anziana signora in stato confusionale si era fermato ad aiutarla. Nella condizione di valutazione negativa invece i partecipanti leggevano che nella stessa situazione Bryan si era comportato in modo scortese facendole cadere la spesa quando questa l’aveva afferrato per un braccio. Come si aspettavano gli sperimentatori i partecipanti erano molto più propensi ad aiutare Bryan portandogli gli appunti delle lezioni quando questo era valutato positivamente rispetto a quando invece il giudizio nei suoi confronti era più negativo. Batson et al (2007) hanno in oltre dimostrato che questi risultati si verificavano anche quando ai partecipanti non veniva detto di assumere un punto di vista distaccato o non distaccato rispetto alla storia di Bryan. Nonostante non vi fosse stata alcuna manipolazione sperimentale l’effetto della presa di prospettiva sull’interesse empatico risultava più alto per coloro che avevano un impressione positiva per il malcapitato. Dunque sembrerebbe che la valutazione del benessere di un’altra persona in difficoltà abbia sia un effetto diretto che un effetto indiretto sull’empatia e che questo sia mediato dalla presa di prospettiva. Sulla base di questi risultati, Batson et al. (2007) hanno proposto che la valutazione del benessere di un’altra persona bisognosa sia, insieme alla percezione di un altro bisognoso l’antecedente più importante dell’empatia. Infatti, se è vero che assumere il punto di vista di un’altra persona ha un forte impatto nell’interesse empatico che proviamo verso di lei, è vero anche che, mentre in un laboratorio dove lo sperimentatore chiede esplicitamente al partecipante di assumere il punto di vista di una persona sofferente o comunque bisognosa d’aiuto, nella realtà di tutti i giorni è più probabile che sia il giudizio positivo o negativo sul profilo morale di una persona in difficoltà che ci porta a cercare di vedere le cose nella sua prospettiva oppure ad assumere un atteggiamento freddo e distaccato. Il modello altruismo-empatia proposto da Batson e collaboratori è forse uno dei tentativi più eclatanti di dimostrare che l’altruismo puro esiste. Tuttavia Cialdini, Shaller, Hulihan, Arps, Fulz, Beaman (1987) hanno dimostrato che l’empatia negli studi di Batson in realtà mediava il rapporto tra la tristezza ed il comportamento d’aiuto. Per dimostrarlo, questi autori hanno replicato il Paradigma di Elaine. Diversamente dal disegno sperimentale di Batson e colleghi (1978; 1981), alcuni partecipanti della condizione di alta empatia ricevevano una gratifica materiale subito prima che lo sperimentatore chiedesse loro se erano disponibili a prendere le scosse al posto di Elaine. Come si aspettavano Cialdini et al. (1987), nella condizione di alta empatia e fuga facile, questi partecipanti erano meno propensi ad un comportamento altruistico rispetto agli altri che invece non avevano ricevuto nulla. Questi risultati sono coerenti con quanto dimostrato precedentemente  (Cialdini, Darby, Vincent, 1973; Cialdini, Kenrick, 1976) e dunque forniscono supporto empirico all’ipotesi secondo la quale le persone quando sono tristi aiutano un altro bisognoso perché questo consente loro di ristabilire il proprio umore. Un altro elemento di interesse dello studio proposto da questi ricercatori è che ad un incremento dell’empatia corrispondeva un incremento della tristezza. Sulla base dei risultati emersi Cialdini e colleghi (1987) hanno proposto che il modello altruismo-empatia proposto da Batson e colleghi (1978; 1981) non sia altro che un estensione del modello del sollievo dagli stati d’animo negativi dove le persone che provavano empatia verso una persona sofferente sono più propense a rattristarsi e quindi hanno più necessità di ripristinare il proprio umore.

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

 

 

 

 

 

 

 

 

Cos’è l’altruismo

Cos’è l’altruismo?

Altruismo: definizione ed origini

L’interesse per l’altruismo da parte delle scienze sociali si può far risalire addirittura alla nascita di queste stesse. Infatti, fu proprio uno dei padri della sociologia e del positivismo, il filosofo francese August Comte (1851), ad introdurre il termine altruismo all’interno del suo “Sistema di Politica Positiva”, in contrapposizione invece al termine egoismo, già precedentemente esistente. Più precisamente, per Comte sono propri della  natura umana sia una motivazione ad agire negli interessi degli altri, che una motivazione ad agire negli interessi propri.

Una definizione più recente è stata fornita da Batson (1991) secondo cui altruismo ed egoismo sono due stati motivazionali che differiscono a seconda dello scopo finale che si prefiggono. Infatti, mentre l’egoismo ha l’obiettivo di soddisfare unicamente il proprio benessere, l’altruismo ha lo scopo di aumentare il benessere di un’altra persona.  Dunque, sulla base di questa definizione possiamo affermare che solo quando l’obiettivo finale è quello di agire negli interessi del prossimo si possa parlare di vero altruismo. In letteratura questo tipo di altruismo è spesso chiamato altruismo puro e viene solitamente contrapposto ad un altruismo egoistico che è invece dettato dagli interessi personali più che da quello degli altri.

Sebbene solo recentemente si sia giunti ad una definizione più strutturata della questione, il dibattito  riguardante l’esistenza di un altruismo realmente disinteressato ha origini antichissime.

Già Platone (395-387 a. C./ 1982) s’interrogava sulla questione chiedendosi se l’interesse per il benessere di un amico fosse motivato da un interesse autentico e fine a se stesso o piuttosto dalla ricerca di un beneficio personale. Pensatori di ogni epoca tentarono di rispondere a tale domanda. Già il suo allievo più celebre, Aristotele (360 a.C./ 1996), sosteneva che i sentimenti di amicizia avevano come primo obiettivo la propria soddisfazione ma, sosteneva  anche (335-321 a. C/ 2000) che il buon uomo vedesse l’altro come un estensione di se stesso. Presso l’Antica Roma invece  l’amara concezione di una natura umana egoistica affondava le sue radici addirittura nel mito fondativo della Città Eterna, nata secondo la leggenda dal fratricidio di Remo ad opera di Romolo. Forse non è un caso la relazione tra il fatto che i due fratelli, secondo questa leggenda, fossero stati allevati da una lupa e presso l’Urbe fosse largamente diffuso il detto “Homo Homini Lupus”, che per la prima volta troviamo nella commedia di Plauto, gli Asinaria (206-211 d.C/ 1994), che tradotto dal latino significa l’”Uomo è lupo degli uomini”. Ma anche presso l’Antica Roma non vi era un pensiero omogeneo.

Per Seneca (65 a.C), infatti, “Homo Sacra Homini”, l’uomo è cosa sacra per gli uomini.  Anche i filosofi cristiani diedero un contributo importante a questo dibattito. Non a caso nel Cristianesimo, e prima ancora nell’Ebraismo, si ritrova il precetto: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Già nel Nuovo Testamento, nel Vangelo (Mt 22, 27-40), si afferma l’importanza di questo comandamento, ritenuto secondo solo ad “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, tutta la tua anima e con tutta la tua mente” .  Proprio, dall’Amore verso il prossimo deriva la Carità, ritenuta da Paolo di Tarso (54-55 d.c/ 1999) la più importante delle virtù teologali (le altre due sono la Fede e la Speranza). In Tommaso D’Aquino (1265-1275/ 1996-2012) il punto di vista paolino viene riproposto con una visibile influenza dei Socratici: la Carità coincide addirittura con l’Amicizia verso Dio.

Col Rinascimento, tuttavia, si riafferma l’idea di un “uomo lupo degli uomini”. Niccolò Macchiavelli (1513/ 2007) riteneva, ad esempio, che la natura umana fosse malvagia, crudele, avida e codarda e proprio per questi motivi il Principe, ovvero chi possedeva il potere, doveva diffidare dei propri sudditi ed essere temuto più che amato. Questa concezione egoistica della natura umana era condivisa anche da Hobbes (1651/ 2005), secondo il quale gli uomini vivono in una condizione di guerra contro tutti in cui se un uomo dà qualcosa ad un altro è solo perché si aspetta di essere ricambiato. Non la pensava così David Hume (1740/ 1982) secondo il quale, invece,  un puro interesse al benessere altrui esisteva e ne era una prova la tendenza naturale a “simpatizzare” con qualcuno per le sue gioie o i suoi dolori. Rousseau (1754/ 2006), in linea con Hume, sosteneva che la “pietà” verso i propri simili che soffrono è uno dei naturali sentimenti dell’uomo. Per il filosofo illuminista tale sentimento si contrappone all’amor di sé, fondamentale per la conservazione dell’individuo, ed è invece fondamentale per la conservazione della specie. Anche Adam Smith (1759/ 1969) credeva che esistesse una tendenza ad interessarsi agli altri fondata sulla simpatia, ovvero una naturale tendenza a immedesimarsi con gli altri e a scambiarsi di posto immaginariamente con chi soffre.  Diversamente Bentham (1789/ 1996), partendo dalla concezione egoistica di Hobbes, proponeva che l’uomo fosse un freddo calcolatore di interessi personali e che prima di ogni azione ponderasse attentamente costi e benefici di ogni azione unicamente in funzione di piaceri da ottenere e dolori da evitare. Secondo Mill (1861/ 1998), che fu allievo di Bentham, questi dolori potevano essere classificati in esterni ed interni. I primi coincidevano con la mancata speranza in un favore di ricambio oppure nella paura di un dispiacere da parte di un altra persona o da Dio stesso, i secondi invece coincidevano con una sofferenza interna legata al mancato adempimento ad un dovere. Di conseguenza dovrebbe essere conveniente per l’uomo pensare alla felicità altrui in egual misura alla propria.

Comte (1851), quando coniò la parola altruismo intendeva criticare proprio la visione Utilitaristica di Bentham e Mills. Non ci volle molto perché il nuovo termine entrasse nel vocabolario comune dei pensatori successivi, tuttavia il dibattito fu tutt’altro che chiuso.

Con Nietzche (1888) si ebbe forse una delle visioni più pessimistiche ed egoistiche della natura umana. Infatti per il filosofo tedesco l’altruismo era addirittura un segno di cedimento di fronte alla pietà, che invece bisognava sovrastare.

Nuovi spunti al dibattito furono apportati da Charles Darwin e dalla sua Teoria dell’Evoluzione (1859). Secondo Darwin, la nostra tendenza ad interessarci degli altri potrebbe essere il risultato della selezione naturale e dunque un istinto che in qualche modo abbiamo ereditato dai nostri più diretti antenati: i primati. Per Darwin (1871), dunque, esistono sia un altruismo egoistico che deriva da motivazioni ad evitare dolori ed ottenere piaceri che un altruismo motivato dalla simpatia e dall’amore per la prole e i propri parenti. A fianco a questi, Darwin pone anche una terza tipologia di aiuto dettata dall’istinto o dall’abitudine, tuttavia non si può considerare altruismo perché non riflette una motivazione finale consapevole.

Come abbiamo visto l’esistenza di un altruismopuro e disinteressato è stata oggetto di discussione di moltissimi pensatori di ogni epoca.

Solo di recente, in seguito ad una maggiore strutturazione di questo dibattito, si è cominciato ad indirizzare la questione verso uno studio sistematico. Dunque, come vedremo nel prossimo paragrafo, l’esistenza di un altruismo puro è sempre più divenuto oggetto di studio della moderna psicologia, la scienza che più di ogni altra può dare una risposta a questo ultra millenario quesito.

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

 

 

Emozione e decisione

Emozione e decisione

La psicologia del giudizio e delle decisioni a partire degli anni ’60 ha cominciato ad accendere i riflettori sui processi cognitivi che guidano la scelta dell’attore decisionale. In particolare, la ricerca in quest’ambito della psicologia sperimentale ed applicata ha dimostrato che i meccanismi sottostanti la presa di decisione sono del tutto irrazionali

(e.g. Kahneman e Tversky, 1979). Infatti molto spesso il nostro bisogno di prendere la decisione migliore incontra la necessità di risparmiare le nostre risorse cognitive (Simon, 1957). Dunque, quando prendiamo una decisione siamo più propensi ad usare dei processi cognitivi automatici ed intuitivi detti procedure satisfacing (Simon, 1957) o euristiche di ragionamento (Kahneman e Tversky, 1973; 1974),  piuttosto che a fare un attenta valutazione di pro e contro di ogni scelta, come sostenevano le Teorie della scelta razionale (e.g. Von Neumann e Morgenstern, 1947). Solo recentemente la ricerca sulle decisioni ha dimostrato che le emozioni giocano un ruolo fondamentale nel processo di scelta (Epstein, 1994; Damasio, 1994). Molti studiosi concordano sul fatto che nei processi decisionali siano coinvolti due sistemi distinti legati a diverse modalità di elaborare l’informazione (Zajonc, 1980; Epstein, 1994; LeDoux, 1996; Kahneman, 2003). Epstein (1994) per esempio ha proposto un modello secondo il quale l’adattamento all’ambiente avverrebbe mediante un sistema esperenziale ed uno razionale. Il primo agisce in maniera rapida, automatica e  senza sforzo ma sacrifica l’accuratezza delle percezioni a cui ci conduce in favore della velocità con cui opera. Il secondo è invece più lento, comporta il dispendio di molte risorse cognitive ma allo stesso tempo è capace di un altissimo livello di astrazione in un ottica progettuale anche di lungo termine. Questi due processi di elaborazione dell’informazione coinvolgono anche meccanismi neurali differenti. II sistema esperienziale coinvolge maggiormente il talamo e l’amigdala, due delle strutture più antiche del cervello, mentre quello razionale coinvolge maggiormente la corteccia, che è l’area più evoluta e giovane dell’encefalo. Questi due sistemi si compensano ed interagiscono tra di loro in ogni situazione, tuttavia il sistema esperienziale, per la sua stessa natura è portato a precedere quello razionale nell’elaborazione dell’informazione. Zajonc (1968, 1980), come abbiamo visto, è stato tra i primi a dimostrare la supremazia dell’emozione  sulla cognizione. I suoi studi sulla mera esposizione hanno mostrato, inoltre, come le reazioni affettive possano influenzare la nostra preferenza per uno stimolo piuttosto che per un altro. Cosa ancor più sorprendente, non è necessario che l’emozione raggiunga la soglia della consapevolezza perché influenzi il nostro pensiero. Queste scoperte hanno portato molti teorici a parlare di un vero e proprio inconscio cognitivo (e.g. Epstein, 1994), ovvero un sistema fondamentalmente adattivo che organizza l’esperienza senza sforzo, in modo automatico ed intuitivo e così facendo indirizza il nostro comportamento. Naturalmente, questo modalità di organizzare l’esperienza gioca un ruolo determinante anche nei processi di presa di decisione.

Gli studiosi delle decisioni hanno proposto che le emozioni possano influenzare le nostre decisioni in diversi modi.  Loewenstein, Weber, Hsee e Welch (2001), ad esempio, definiscono un emozione anticipatoria quando indica una reazione viscerale connessa con la percezione del rischio e dell’incertezza che accompagnano una decisione. Damasio (1994) sulla base di osservazioni fatte su pazienti con lesioni della corteccia ventromediale frontale ha proposto che le nostre scelte siano normalmente guidate da marcatori somatici. Questi corrispondono a sensazioni viscerali e non viscerali che anticipano l’esito al quale può condurre una data azione spingendoci ad evitarla o ad approcciarla. In altre parole, quando un marcatore somatico è negativo funziona come un campanello d’allarme che ci avverte che è meglio evitare quella decisione, quando è positivo invece rappresenta un incentivo verso quella determinata azione. Bechara, H. Damasio, Traner, A. Damasio, (1997) chiedevano a pazienti neurologici con lesioni della corteccia prefrontale e a persone sane di partecipare ad un gioco d’azzardo il cui obiettivo era quello di vincere la maggior somma di denaro possibile. A tutti i partecipanti veniva affidata una somma iniziale di 2000$ fittizi e veniva chiesto di pescare una carta da quattro diversi mazzi. Ogni carta comportava una vincita o perdita di denaro. Tuttavia, due mazzi portavano ad alte perdite ed alte vincite e alla lunga risultavano svantaggiosi mentre gli altri due che mostravano un equilibrio maggiore tra vincite e perdite alla lunga portavano ad un guadagno. Coerentemente con l’ipotesi del marcatore somatico, man mano che le persone sane  procedevano nel gioco imparavano a diffidare dei mazzi svantaggiosi, e si concentravano su quelli che portavano a vincite e perdite più contenute. Contrariamente, i pazienti, la cui lesione comportava un grave deficit nell’elaborazione dell’emozione e nella pianificazione, continuavano a scegliere i mazzi svantaggiosi anche dopo che avevano subito ampie perdite. Inoltre, subito prima di effettuare la scelta  i pazienti mostravano anche un’attivazione della conduttanza cutanea significativamente inferiore rispetto alle persone sane. Questo studio non solo da una valida dimostrazione di come le emozioni anticipatorie possano guidare le nostre decisioni ma dimostra anche che possono avere un valore adattivo. Tuttavia, le stesse reazioni viscerali che si rivelano utili in un compito come quello che Bechara e colleghi (Bechara, H. Damasio, Traner, A. Damasio,1997) possono rivelarsi fortemente maladattive in altri contesti decisionali. Benartzi e Thaler (1995) hanno mostrato come le emozioni anticipatorie possano spingerci ad investire in obbligazioni sicure piuttosto che in titoli azionari che mediamente offrono un maggior ritorno nel lungo termine.

Oltre alle emozioni anticipatorie, anche le emozioni non strettamente legate alla decisione che dobbiamo prendere giocano un ruolo chiave nell’influenzare le nostre scelte. Isen e Mean (1983) hanno mostrato, ad esempio, che gli affetti positivi ci portano a prendere decisioni in modo più accurato e  veloce rispetto agli affetti negativi. I partecipanti di un loro esperimento dovevano valutare sei automobili come se le dovessero comprare. In particolare nella decisione di acquisto dovevano prendere in considerazione nove dimensioni diverse. Tra i partecipanti coloro che subito prima del compito erano stati indotti a provare un emozione positiva  mostravano una minore ridondanza nel processo di ricerca ed erano più propensi ad eliminare gli aspetti inutili al fine della decisione. Di conseguenza, questi soggetti giungevano ad una decisione più velocemente rispetto a quelli della condizione di controllo. Isen e Patrick (1983) hanno dimostrato anche che gli affetti positivi influenzano la propensione a rischiare dell’attore decisionale. In un loro esperimento, ad esempio, le persone cui era stato indotto uno stato d’animo positivo nel gioco della roulette erano più propense a affrontare scommesse ma solo se queste comportavano un basso rischio di perdita. Quando la probabilità di perdere la scommessa era alta invece mostravano un avversione al rischio più alta rispetto alla condizione in cui l’affetto non era stato manipolato in alcun modo. Per spiegare questi risultati Isen, Nygren e Ashby (1988) hanno proposto che le persone quando sono di buon umore siano meno propense a correre rischi che potrebbero minacciare il loro stato d’animo.

Ulteriori evidenze di come l’umore possa influenzare la decisione sono state fornite da Forgas (1989) il quale ha preso in considerazione affetti positivi e negativi. In uno studio chiedeva ai soggetti che prendevano parte al suo esperimento di prendere una decisione in merito ad 8 potenziali partner. In una condizione la scelta li riguardava personalmente, mentre nell’altra riguardava un’altra persona. Come Forgas si aspettava i partecipanti che erano stati indotti a provare tristezza erano propensi a considerare variabili interpersonali, mentre coloro che erano stati indotti a provare gioia o piuttosto uno stato emotivo neutrale, facevano più caso alle variabili inerenti il compito. Inoltre, nella condizione di tristezza i partecipanti tendevano ad usare strategie decisionali meno efficaci rispetto agli altri. In particolare, erano più lenti e propensi a considerare aspetti meno importanti ai fini della scelta. Nella condizione di felicità invece erano più veloci, ma in contrasto con quanto dimostrato da Isen et al. (1983), solo se la scelta li interessava personalmente.

Altri ricercatori hanno dedicato i loro studi all’emozione legata all’anticipazione dell’esito della decisione. Loomes e Sudgen (1982), ad esempio, nella loro Teoria del Regret, suggeriscono che il fatto di anticipare la delusione (regret) legata all’esito indesiderato di un alternativa condiziona la scelta. In un’ampliamento di questa teoria Loomes e Sudgen (1986) hanno proposto che oltre al regret, altre due emozioni possono influenzare il comportamento dall’attore decisionale: il disappunto e l’entusiasmo.  Ad esempio, Ritov e Baron (1990) hanno mostrato che le persone che sono meno propense a vaccinare un figlio anticipano il regret che deriverebbe in seguito agli effetti collaterali del vaccino.

Mellers, Schwartz e Ritov (1999) hanno proposto una teoria della decisione che mette in relazione emozione anticipata ed emozione esperita. Questa teoria sostiene che l’attore decisionale quando valuta delle scommesse soppesa il dolore anticipato ed il piacere anticipato. Più precisamente, in un primo momento, il decisore valuta il piacere medio legato ad ogni scommessa e successivamente sceglie l’alternativa che massimizza il piacere atteso soggettivo. Mellers et al. (1999), per testare questa teoria hanno messo a punto degli esperimenti piuttosto elaborati in cui i partecipanti dovevano effettuare una scelta tra più alternative. In una condizione, detta di feedback parziale, i partecipanti una volta effettuata la scelta vedevano solo il risultato della propria decisione, in un altra condizione, detta di feedback completo, i partecipanti vedevano anche l’esito che sarebbe uscito nel caso avessero scelto una scommessa differente. I risultati hanno mostrato che i partecipanti si sentivano meglio sia se sapevano di aver evitato perdita più maggiore di quella ottenuta (effetto disappunto), sia se sapevano di aver scelto l’opzione migliore (effetto regret). In aggiunta, i partecipanti erano soggetti ad un effetto sorpresa: il piacere di vincere o di perdere era più intenso quando era inatteso. Mellers e colleghi (1999), dunque, hanno dimostrato che l’attore decisionale preferisce la scommessa che gli consente di minimizzare il massimo dispiacere possibile e di massimizzare il massimo piacere possibile.

Gli sviluppi più recenti hanno portato i teorici a suggerire che il decisore usi i sentimenti che percepisce come informazioni (Loewenstein et al. 2001). Quest’ipotesi è coerente sia con il fatto che l’affetto precede la cognizione (Zajonc, 1968; 1980) sia con il fatto che le persone codifichino affettivamente le conseguenze di alternative come linee d’azione (Damasio, 1994; Bechara et. al 1997). Slovic, Finucane, Peters e Mc Gregor (2002) hanno proposto addirittura che l’affetto possa essere rappresentato come una vera e propria euristica di giudizio: l’euristica dell’affetto o affect heruristic. L’affetto, infatti, proprio come un euristica, ci conduce in una direzione piuttosto che un’altra in modo automatico ed inconsapevole. Quest’euristica è fortemente collegata alla percezione del rischio e quindi anche al processo decisionale. Alhakeacami e Slovic (1994) hanno dimostrato che il piacere che proviamo in una certa attività è correlato negativamente con la rischiosità che le attribuiamo. Per esempio giovani fumatori che iniziano a fumare sono più propensi a farsi prendere dall’impulso del momento e a sottovalutare i rischi legati al fumo.  In un esperimento, Finucane, Alhakeacami, Slovic e Johnson (2000) chiedevano ai partecipanti di valutare i benefici ed i rischi associati a diverse attività (ad es.: alcolici, energia nucleare, cellulari, conservanti, motociclette). In una condizione per rendere più difficile l’accesso al sistema razionale (da loro chiamato analitico) davano un limite di tempo per ogni risposta. Come si aspettavano, le attività ritenute più piacevoli erano anche quelle ritenute meno rischiose. In un altro esperimento, Slovic et al. (2002), hanno dimostrato come quest’euristica possa condurci ad incoerenze nel processo decisionale. Questi studiosi in un esperimento chiedevano ai partecipanti di valutare il grado di attrattività di una scommessa. Per alcuni la scommessa implicava una probabilità elevata di vincere una somma di 9$ mentre non si perdeva niente. Ad altre persone, invece, veniva proposta una scommessa che offriva un’elevata probabilità di vincere 9$ ma anche la  possibilità di perdere 5 centesimi. Contro ogni regola della logica coloro che avevano visto il secondo formato della scommessa la trovavano più attraente, nonostante implicasse la possibilità di perdere. Gli autori spiegano questo risultato sostenendo che quando la possibilità di vincere 9$ è affiancata dalla possibilità di una piccola perdita è più facile da valutare e quindi anche più facile di da associare ad un emozione, rendendola così più invitante. Coerentemente con questo risultato, Peters (2006) ha suggerito anche  che le persone ricorrano a sensazioni affettive quando non hanno abbastanza informazioni per valutare gli stimoli. In contrasto con questo punto di vista, tuttavia, Rubaltelli, Rumiati e Slovic (2010) hanno dimostrato che le persone sono più abili ad utilizzare le loro reazioni affettive quando due stimoli sono valutati in modalità congiunta rispetto a quando queste sono valutate separatamente. In un esperimento questi ricercatori hanno proposto ai loro partecipanti una replica del Paradosso di Ellsberg (1961).  Questo Paradosso mostra che le persone preferiscono scommesse dove la probabilità di vincita è nota rispetto a scommesse vaghe, la cui probabilità non è conosciuta. Alcuni partecipanti vedevano entrambe le scommesse appaiate, altri vedevano soltanto una delle due scommesse.

Quando la scommessa ambigua era valutata separatamente (separate evaluation) era valutata significativamente più attraente rispetto a quando era valutata appaiata all’altra (joint evaluation). In un estensione di questo lavoro ho dimostrato (Righi, 2010) che la preferenza per una esito certo rispetto ad uno incerto (effetto certezza; Allais, 1953, Kahneman e Tversky, 1979) si verifica solo nella condizione di joint evaluation. Questi risultati sembrerebbero dimostrare che l’attore decisionale ricorra a feedback affettivi sopratutto quando può operare un confronto tra alternative.

Concludendo, le emozioni influenzano fortemente il comportamento dell’attore decisionale, sia un livello conscio che ad un livello inconscio. A volte le reazioni affettive ci possono indurre in errore, ma in un gran numero di situazioni giocano un ruolo estremamente adattivo nel comportamento del decisore. Un campo strettamente legato al comportamento dell’attore decisionale è quello della beneficienza. Nel prossimo capitolo vedremo il potere delle  emozioni nella motivazione all’altruismo.

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

Emozioni di base vs. emozioni complesse

Emozioni di base vs. emozioni complesse

Un’altra questione molto dibattuta dai teorici è la distinzione delle emozioni in due categorie principali: emozioni di base ed emozioni complesse. Le prime sono dette anche emozioni primarie o fondamentali e molto spesso in letteratura vengono accostate al blu, al rosso e al giallo dei colori primari la cui mescolanza può generare altri colori ancora. Le emozioni complesse, dette anche secondarie, proprio come questi ultimi colori, sono la derivazione della combinazione di altre emozioni. La distinzione di emozioni fondamentali ed emozioni complesse è stata condivisa da molti teorici, tuttavia non c’è un grande accordo su quali debbano essere i criteri di classificazione e dunque su quali siano le emozioni da includere in una categoria piuttosto che in un’altra. Silvian Tomkins (1962) fu tra i primi a proporre che le emozioni primarie possano essere distinte dalle emozioni secondiarie su base biologica. Il lavoro di Tomkins ha ispirato la ricerca di Paul Ekman e Wallace Friesen (1971), che hanno dimostrato che alcune espressioni facciali sono universalmente associate a particolari emozioni. Questi due studiosi chiedevano ai membri di una tribù della Papua Nuova Guinea, i Fore, quale espressione facciale, tra quelle loro mostrate in alcune foto,  fosse le più adeguata  rispetto alla storia che di volta in volta ascoltavano. I Fore hanno vissuto per secoli isolati dalla cultura occidentale, eppure le loro risposte non differivano significativamente da quelle date dagli studenti di un college americano.

Carrol Izard (1977) ha suggerito che oltre ad un’espressione facciale o al pattern di attivazione neuromuscolare-espressivo sottostante, due caratteristiche delle emozioni fondamentali siano un substrato neurale specifico ed una qualità distinta fenomenologica. Più di recente, Ekman (1992) ha individuato 9 caratteristiche che distinguerebbero le emozioni fondamentali dalle altre. Queste sono: segnali distintivi universali, presenza in altri primati, fisiologia distintiva, eventi antecedenti universali, coerenza tra risposte emozionali, principio veloce, durata breve, appraisal automatico ed, infine, manifestazione spontanea.

Per P.N. Johnson-Laird e Keith Oatley (1992) perché un emozione sia considerata primaria deve avere anche delle caratteristiche semantiche peculiari. In primo luogo, il significato di un emozione deve essere spiegabile senza dover fare ricorso a nessun’altra emozione. In secondo luogo, ogni termine che denoti un emozione di base è primitivo, ovvero non analizzabile da un punto di vista semantico.

Robert Plutchick (1984) la cui analisi si basa su quattro criteri che sono: l’ampia condivisione che si ritrova nella letteratura sull’argomento, la possibilità di fornire la base per un modello strutturale, la possibilità di guidare la ricerca ed infine la possibilità di mostrare la relazione tra discipline che generalmente vengono considerate come separate.

Il numero di emozioni cui è attribuito lo stato elettivo di emozione fondamentale varia in maniera notevole a seconda delle caratteristiche prese in considerazione di volta in volta.

Tomkins (1962) ne individua 9: interesse-eccitazione, piacere-gioia, sorpresa-spavento, distress-pena, paura-terrore, vergogna-umiliazione, disprezzo-disgusto, rabbia-furore, nausea-disgusto. Questa lista di emozioni si avvicina molto a quella che propone Izard (1977) che però prende in considerazione anche il senso di colpa. Ekman e Friesen

(1971) ne individuano 6: rabbia, tristezza, gioia, disgusto e sorpresa. A queste Ekman (1992) ne ha successivametnte aggiunte tre: imbarazzo, incanto ed eccitazione. Plutchik (1980) ne considera invece 8, che sono: gioia, accettazione, paura, sorpresa, tristezza, disgusto, rabbia e anticipazione. Johnson-Laird ed Oatley (1992) individuano 6 emozioni fondamentali: gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto e desiderio. In particolar modo, ognuna di queste emozioni sarebbe causata da alcune categorie generali di eventi. La felicità corrisponde alla percezione di un avvicinamento ad un obiettivo mentre la tristezza corrisponde al mancato raggiungimento di questo. Proviamo rabbia quando un piano è ostacolato. La paura invece è la conseguenza di un obiettivo contrastante oppure di una minaccia alla propria sicurezza. Il disgusto corrisponde alla percezione di qualcosa che deve essere rigettato mentre, infine,  il desiderio corrisponde alla percezione di qualcosa da avvicinare.

Ekman (1992) ha proposto che le emozioni di base siano delle famiglie di emozioni cioè come dei gruppi di emozioni che condividono caratteristiche comuni. Per esempio, la famiglia della rabbia corrisponderebbe a 60 espressioni di ira diverse tra di loro ma che condividono tutte alcune caratteristiche quali sopracciglia più basse ed aggrottate simultaneamente, palpebre superiori sollevate e muscoli delle labbra irrigiditi.  Plutchik (1980) ha proposto invece un modello dove le 8 emozioni fondamentali da lui individuate sono disposte all’interno di un cerchio. La posizione che ognuna di queste emozioni occupa all’interno del cerchio è in relazione alla similarità che possiede rispetto alle altre. Ad esempio, la gioia è situata all’opposto della tristezza ma adiacente all’anticipazione e all’accettazione. Proprio come colori primari due emozioni primarie che si fondono danno origine ad una nuova emozione secondaria che Plutchik chiama diadi. Si parla di diadi primarie se le emozioni mischiate tra di loro sono adiacenti, di diadi secondarie se sono separate da un emozione, di diadi terziarie se sono separate da due emozioni e così via. Per esempio, l’ottimismo è considerato una diade primaria in quanto somma di gioia e anticipazione a differenza della delizia che è una diade terziaria essendo la derivazione dell’incontro tra gioia e sorpresa.

Tuttavia la distinzione tra emozioni di base e complesse non è stata universalmente accettata. Tra le critiche più dure vi è quella apportata da Andrew Ortony e Terrence Turner (1990) che puntano il dito sull’ampia discordanza che si trova in letteratura che riguarda quali siano le emozioni cui sia attribuibile lo stato elettivo di fondamentale. Per questi studiosi non ha senso descrivere la realtà in termini di emozioni primarie e secondarie. In alternativa, propongono che una risposta emozionale completa sia piuttosto il risultato di un insieme di componenti biologici e psicologici. In particolare, emozioni diverse deriverebbero da diverse configurazioni di valutazioni emozionalmente significative e altri elementi costituenti della stessa. Di conseguenza, non è necessario vedere le emozioni come se fossero generate da  altre emozioni.

Tuttavia, LeDoux (1996) ha a sua volta criticato le argomentazioni di Ortony e Turner (1990), infatti l’appraisal può essere sia psicologico che biologico. In seconda istanza, se certe componenti delle reazioni sono innate non significa che non lo siano anche certi livelli superiori di espressione.

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

 

 

 

 

 

 

Emozioni: Quando si decide con il cuore

Emozioni: Quando si decide con il cuore

L’interesse della psicologia per le emozioni si può far risalire addirittura alle origini della psicologia medesima. Già, James (1884), più di un secolo fa apriva un suo celebre trattato chiedendosi che cosa fossero le emozioni. Ancora oggi non si è trovata una risposta che metta d’accordo tutti gli studiosi. Una delle possibili cause di questa difficoltà a definire le emozioni in psicologia potrebbe essere l’enorme mole di teorie e modelli differenti proposti dagli studiosi. Per esempio, come ha osservato Kagan (2006), una delle discipline che si è incentrata di più sulle emozioni è la psicanalisi, ma questa ha generato un suo specifico vocabolario, provocando uno sbarramento a tutti coloro che non appartenevano a questa corrente.

Una definizione, nonostante tutto, abbastanza accettata è quella di Lang (1995) che definisce l’emozione come “una vasta disposizione a rispondere che può comprendere un comportamento linguistico misurabile, azioni manifeste organizzate e un sistema fisiologico (somatico e viscerale) di supporto per tali eventi”.

In passato, James (1884) e Lange (1885) avevano proposto che le emozioni fossero la conseguenza di una reazione fisiologica. Questa teoria, che prese il nome di Teoria Periferica di James-Lange, faceva sue alcune considerazioni di Charles Darwin (1872). Secondo Darwin alcuni comportamenti eseguiti volontariamente dai nostri antenati erano divenuti col tempo automatici. Questi comportamenti, vantaggiosi per la sopravvivenza della specie, erano stati trasmessi per via ereditaria fino ad arrivare ai giorni nostri.

La Teoria di Lange-James rappresentava l’esatto contrario della concezione allora più in voga, sostenuta tra gli altri da Wundt, secondo cui le emozioni sono la causa delle reazioni fisiologiche e non l’effetto. Tuttavia non passò molto tempo perché tale teoria si affermasse.

Ci vollero gli studi di due fisiologi inglesi, Cannon (1927) e Bard (1929), che potevano avvalersi di tecniche e conoscenze ai tempi di James e Lange non ancora disponibili, perché venisse dimostrata l’infondatezza di tale teoria. Cannon (1927), in particolare, dimostrò che la separazione dei visceri dalla corteccia cerebrale tramite resezione midollare non impediva che si manifestassero emozioni nel gatto.  Secondo Cannon e Bard, dunque,  l’attivazione dei meccanismi responsabili delle reazioni emotive comportamentali e l’attivazione dei centri corticali superiori, responsabili dell’attività cosciente, erano mediati dai centro talamo-ipotalamici. In altre parole, la valutazione cognitiva, in inglese appraisal, ha un ruolo fondamentale nel mediare tra l’emozione e l’attivazione fisiologica.

Schacter e Singer (1962) portarono ulteriore supporto alla Teoria Centrale di Cannon-Bard dimostrando il ruolo chiave dell’interpretazione cognitiva nel determinare l’emozione elicitata.

In un esperimento somministravano ai loro partecipanti una dose di adrenalina, dicendo loro che si trattava di una vitamina speciale e che si volevano valutare le sue capacità benefiche sulla vista. Si diceva inoltre che perché la vitamina facesse effetto occorreva aspettare un tempo di 20 minuti. Dunque ai partecipanti veniva chiesto di accomodarsi in sala d’attesa. Mentre i soggetti attendevano la seconda parte dell’esperimento entrava un altro partecipante il quale per alcuni appariva manifestamente euforico, per altri invece piuttosto arrabbiato. I partecipanti informati dei possibili effetti collaterali della finta vitamina erano meno propensi a conformarsi all’attività di questo partecipante. L’adrenalina è un neurotrasmettitore associato ad un aumento del battito cardiaco, dilatazione dei bronchioli ed altre reazioni fisiologiche tipiche di un emozione forte. A differenza di quanto postulato dalla Teoria Periferica di James-Lange la sola reazione fisiologica associata alla somministrazione di questa sostanza non era sufficiente perché fosse elicitata un emozione. Inoltre, come sostenuto da Cannon e Bard, l’interpretazione cognitiva del contesto aveva un ruolo fondamentale nel determinare il tipo di reazione emotiva sperimentata dai partecipanti.

Più recentemente, Siemer, Mauss e Gross (2007) hanno dimostrato in uno studio che l’appraisal è condizione sufficiente e necessaria per determinare differenti emozioni. A differenza di Schacter e Singer (1962), Siemer e colleghi hanno usato una tecnica d’induzione dell’emozione standardizzata per tutti i partecipanti. Nel loro esperimento i partecipanti vedevano un film neutro di 5 minuti e subito dopo dovevano eseguire una prova che consisteva in 3 ripetizioni. Al termine di questa prova i soggetti ricevevano un feedback sociale negativo da parte dello sperimentatore che diceva loro che dovevano ripetere il compito. La particolarità è che i partecipanti sentivano la voce dello sperimentatore attraverso un citofono e questa era stata registrata in precedenza in modo che risultasse uguale per tutti. Come si aspettavano Siemer e colleghi, i partecipanti rispondevano alla stessa situazione con emozioni anche molto differenti tra di loro. Dunque, sembrerebbe che la differente interpretazione data ad una stessa situazione possa indurre persone diverse ad avere reazioni emotive differenti.

Già a partire dagli anni ’60, l’appraisal è stato incorporato come antecedente fondamentale delle reazioni emotive in molte teorie cognitive. Magda Arnold (1961) è stata la prima a proporre una teoria che prendesse in considerazione l’appraisal come antecedente fondamentale della reazione emotiva. In particolare la Arnold ha proposto che l’interpretazione di una situazione sia istantanea, diretta e non intenzionale e sarebbe strettamente connessa alla tendenza all’azione, percepita come un emozione.   Lazarus (1991a, 1999) ha proposto una teoria secondo la quale il significato, costruito al di fuori di una relazione in corso tra la persona e l’ambiente, e l’obiettivo che crea un coinvolgimento emotivo in quella situazione, sono fondamentali perché un emozione sia elicitata. Lazarus (1991b) ha proposto anche che esistano due tipi diversi di appraisal: un appraisal primario e un appraisal secondario.

    • L’appraisal primario interviene quando è avvenuto qualcosa di rilevante per il benessere della persona.
    • L’appraisal secondario invece è strettamente connesso con una valutazione delle strategie di coping a disposizione per far fronte  al problema.

 

Queste due tipologie di valutazione cognitiva sono allo stesso tempo distinte e connesse e variano in continuazione in funzione dei feedback derivanti dall’ambiente in cui ci si imbatte in conseguenza del fatto che questo stesso è in continuo mutamento. Lazarus (1991b), per enfatizzare la circolarità di questo processo ha proposto anche un terzo tipo di valutazione cognitiva: il reappraisal. Questo tipo di appraisal, infatti, non è altro che la reinterpretazione del cambiamento della relazione persona-ambiente in funzione degli altri altri due tipi di appraisal.

Un alternativa fenomenologica alla Teoria di Lazarus è stata proposta da Nico Frijda (1986), per il quale il processo emotivo che porta da un evento stimolo ad una risposta manifesta coincide con un processo di elaborazione dell’informazione che attraversa un percorso di sette fasi.

La prima fase, detta analizzatore coincide una codifica e rilevazione dell’informazione derivante dall’evento stimolo. Se è possibile questa codifica avviene in termine di eventi noti e nei termini di ciò che l’evento può implicare per quanto riguarda la sua causa o il suo effetto.

    • A questa fase, segue il comparatore in cui si ha un primo appraisal che coincide con una valutazione della rilevanza dell’evento stimolo. Questa valutazione avviene in funzione di quelli che sono gli interessi (concerns) del soggetto.

Nella terza fase, detta diagnosticatore si ha un secondo appraisal che coincide con una valutazione del contesto che ha la funzione di fornire una diagnosi di quelle che sono le possibili strategie di coping.

Segue dunque il valutatore che, in base a quanto emerso nelle prime tre fasi, fornisce una valutazione dell’urgenza, dell’emergenza e della difficoltà della situazione.

Dunque, il suggeritore d’azione in base all’informazione prodotta genera una preparazione all’azione, che preme per avere il controllo o se ne appropria.

Seguono, più o meno in maniera parallela, le fasi del generatore del cambiamento fisiologico, che predispone all’azione suggerita precedentemente, e dell’attore, che coincide con la selezione di un azione manifesta o cognitiva.

Nel modello proposto da Frijda (1986) ogni fase del processo centrale, prima di sfociare nella successiva, è influenzata da input diversi dall’evento stimolo e da un processo di regolazione dell’emozione.

Come Arnold (1960), Lazarus (1991a) e Frijda (1986) anche molti altri studiosi hanno proposto teorie che si basano sull’assunto fondamentale che la valutazione cognitiva sia condizione necessaria e sufficiente perché un’emozione sia elicitata. Tuttavia, la ricerca ha messo in serio dubbio questo assunto.

Robert Zajonc (1968, 1980) è stato uno dei primi a dimostrare che le reazioni emotive possono essere elicitate anche senza un estensivo coinvolgimento dell’attività cognitiva e percettiva. Ad esempio, Zajonc ha dimostrato che l’ordine in cui vengono presentate delle parole senza senso oppure degli ideogrammi cinesi di cui non si conosce il significato è sufficiente ad influenzarne la preferenza. Infatti, nei suoi esperimenti le parole viste per prime dai partecipanti erano anche quelle valutate più positivamente. La cosa più sorprendente è che questo effetto, chiamato da Zajonc effetto attitudinale di mera esposizione, si verifica anche quando vengono usati degli stimoli subliminali (Zajonc, 1980).  I risultati di Zajonc (1968, 1980) suggeriscono non solo che l’emozione possa essere indipendente dall’appraisal ma addirittura che possa precederlo. Andando oltre, Zajonc (1980) ha proposto che pensiero e sentimento possano essere due sistemi distinti.

Le scoperte del neurologo Joseph Le Doux (1996) hanno confermato quest’ipotesi. In particolare, Le Doux ha scoperto che nel meccanismo che porta all’apprendimento della paura esistono due vie neurali. Una via “alta”, più lenta, che dal talamo va alla corteccia, sede dell’elaborazione cognitiva, prima di andare all’amigdala. Una via “bassa”, più veloce, che va direttamente dal talamo all’amigdala. Questi dati forniscono un’ulteriore controprova del fatto che la cognizione sia un antecedente necessario per l’emozione.

Del resto, già il premio nobel alla medicina Hess (1957) aveva dimostrato che è sufficiente la diretta stimolazione del tessuto cerebrale perché siano elicitate delle emozioni.

Proprio studi come questi hanno portato Carrol Izard (1993) a proporre un modello alternativo alle teorie della valutazione cognitiva. Questo modello propone che esistano quattro diversi sistemi di attivazione dell’emozione che sono di tipo cognitivo, neurale, sensomotorio e motivazionale. Queste quattro componenti sarebbero tra loro indipendenti ma allo stesso tempo continuamente operative e in interazione tra loro al fine di far si che vengano mantenuti i nostri tratti di personalità oppure che venga elicitata una nuova emozione adeguata alle informazioni derivanti dall’ambiente. Izard ha anche proposto che i processi neurali siano presenti in tutti i processi di attivazione delle reazioni emotive e in alcuni casi possano anche agire in maniera indipendente.

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

 

 

 

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: introduzione

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto

Introduzione

Non accade di raro  in una piazza oppure una stazione di una grande città trovarsi davanti ad una schiera di mendicanti,venditori ambulanti, buskers, volontari in cerca di offerte per una qualche buona causa. Una parte di noi  donerebbe qualcosa a tutti, un’altra ci ricorda che se eccedessimo nella nostra generosità finiremmo rapidamente per essere al verde.

In situazioni come queste le persone spesso si trovano immerse in un bagno di emozioni sia positive che negative.

Molte ricerche hanno focalizzato la loro attenzione su come questi affetti influenzino le persone quando devono decidere se fare o non fare una donazione.

Tuttavia solo di recente si è cominciato a studiare anche il ruolo giocato dalle differenze individuali nell’elaborazione di questo affetto.

In questo lavoro viene presentato il primo esperimento che mostra il ruolo fondamentale dell’Intelligenza Emotiva di tratto(IE di tratto) nel moderare il comportamento altruistico.

In particolare, viene mostrato che l’IE di tratto gioca un ruolo chiave nel mediare la percezione di successi ed insuccessi. Per questo studio, inoltre, ci si è serviti di un paradigma di ricerca innovativo.

In questo paradigma i partecipanti dovevano affrontare al computer cinque prove consecutive, in ognuna delle quali dovevano salvare un bambino in pericolo di vita. Dopo ognuna di queste prove i partecipanti sapevano se erano riusciti a salvare questo bambino.

 

In realtà la percezione di efficacia in questa serie di compiti era manipolata. In una condizione, ai partecipanti veniva detto sempre che erano riusciti a salvare il bambino, nell’altra, al contrario, veniva sempre detto che non riuscivano a salvare il bambino. Venivano misurate sia la velocità che l’accuratezza con cui i partecipanti eseguivano il compito. I risultati hanno dimostrato che persone con alta e bassa IE di tratto reagivano in modo diverso alla manipolazione sperimentale. In questa tesi, prima di entrare nel dettaglio di questo esperimento ne verranno mostrati approfonditamente i presupposti teorici.

Nel primo capitolo, “Quando si decide con il cuore: il potere delle emozioni”, verranno illustrate le principali questioni teoriche e concettuali riguardanti le emozioni. Per prima cosa, verranno esposte le principali teorie riguardanti il processo mediante il quale viene elicitata una reazione emotiva. In secondo luogo, verrà affrontata la distinzione tra emozioni di base ed emozioni complesse. Infine, vedremo come le emozioni influenzino il modo in cui prendiamo decisioni.

Nel secondo capitolo, “Che cos’è l’altruismo?”, vedremo da vicino la questione sull’esistenza di un altruismo puro, che affonda le sue radici nella scuola di Atene e che è stata dibattuta da pensatori di ogni epoca fino ad arrivare all’affascinante duello Batson-Cialdini. Vedremo anche come le emozioni possano guidare il nostro comportamento morale e più in specifico quello altruistico.

 

Nella terza parte di questo capitolo vedremo anche come la ricerca abbia cominciato a focalizzare l’attenzione sulle differenze individuali nel modo in cui vengono elaborate queste emozioni e quindi anche nel modo in cui ci spingono ad adottare un comportamento altruistico.

Nel terzo capitolo, “Intelligenza Emotiva”, sarà presa in considerazione l’Intelligenza Emotiva di tratto e verrà mostrato, il Trait Emotional Intelligence Questionnaire (TEIQue; Petrides e Furnham;2000), un questionario che ne permette la misurazione.

Inoltre, verranno mostrati alcuni studi che oltre a testimoniare la validità di questo strumento, mostrano che l’intelligenza emotiva di tratto si può collocare al livello più basso delle gerarchie di personalità.

Solo dopo questa rassegna teorica, nel quarto capitolo, “Intelligenza Emotiva ed Altruismo: Un esperimento”, verrà mostrato un esperimento che mostra il ruolo moderatore dell’intelligenza emotiva nel comportamento altruistico quando le persone incorrono in ripetuti successi e quando incorrono in ripetuti insuccessi.

Infine, il quinto capitolo, “Discussione”, sarà presa in considerazione un analisi ed una lettura approfondita dei risultati trovati, con un particolare riguardo  per le implicazioni che possono derivare da questo esperimento.

 

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi