Una morbosa persecuzione: lo stalking occupazionale

Una morbosa persecuzione: lo stalking occupazionale

L’interesse per tutto ciò che concerne il disagio nelle relazioni che si stabiliscono negli ambienti lavorativi, ha portato facilmente e per ovvi motivi a parlare in larga misura del fenomeno di mobbing.

Le analisi che vengono condotte ai fini di questo elaborato, hanno evidenziato come quasi mai è “solamente mobbing”. È stato chiaro sin da subito che rinominare ogni atto vessatorio con il termine mobbing non sarebbe stato possibile oltre che ingiusto; molti degli atti violenti bensì hanno un nome ancora più specifico che per certi versi scaturiscono da azioni che portano a conseguenze a volte più ramificate rispetto a quelle pervenute a causa del mobbing.

La cultura del mobbing è vasta, nonostante questo ancora una volta l’Italia in confronto agli altri Paesi Europei non ha definitivamente modificato concretamente la propria legislatura affinché il mobbing venga riconosciuto come tale.

Nel paragrafo 1.5 dedicato alle norme giuridiche vigenti, viene fatta un’esamina dello stato attuale delle cose per quanto riguarda l’attenzione posta dai legislatori in fatto di mobbing; si può osservare come numerose siano le leggi del codice civile e di quello penale che parlano “fra le righe” di mobbing, nessuna di queste in effetti condanna apertamente i mobbers.

 

Può forse consolare pensare che, nonostante l’arretratezza in termini di leggi di questo Paese relative alla tutela del lavoratore, i mobbizzati possono fare appello a escamotage giuridici per poter agire come vittime davanti a un tribunale, come ad esempio accade nel caso delle vittime di stalking.

Il reato di stalking è spesso attribuito a cause legate all’ambito lavorativo, dove le molestie non solo esclusivamente sessuali, si perpetuano fra colleghi della stessa azienda.

 

Si commette il reato di stalking quando si tengono in maniera ripetitiva comportamenti invadenti, di intromissione, con pretesa di controllo, quando si minaccia qualcuno costantemente, con telefonate, messaggi, appostamenti, ossessivi pedinamenti.  Questo tipo di condotta arreca nella vittima un grave stato di timore per la propria salute e per la propria sicurezza o per quella di un altra persona a lei vicina, tanto da farle alterare – per sfuggire agli atti persecutori – lo stile di vita quotidiano (con conseguenze quali cambiamento di lavoro, rinuncia a svolgere determinate attività, mancanza di libertà nel decidere itinerari e mezzi di spostamento, variazioni di numero di telefono).

Una sola minaccia o un isolato episodio di “tampinamento”, anche se invadente, non sono sufficienti a realizzare il reato di atti persecutori: è necessaria una certa reiterazione delle condotte nel tempo .

Una delle differenze tra il mobbing e lo stalking è che in quest’ultimo l’aggressore pone in essere la condotta persecutoria nell’ambito della vita privata della vittima, mentre nel mobbing l’aggressore si muove all’interno dell’ambiente di lavoro.

 

Tuttavia, gli effetti negativi del mobbing non sono legati soltanto alla sfera economica e professionale (ad esempio, l’autoeliminazione della vittima che molto spesso si trova costretta a dimettersi), ma finiscono inevitabilmente col ripercuotersi nella vita sociale, personale, famigliare del lavoratore vittima di mobbing.

Ecco perché quello dello stalking è un fenomeno per certi versi simile a quello del mobbing, soprattutto per quanto riguarda gli effetti negativi sulla persona.

 

Si possono verificare episodi di stalking anche in ambito lavorativo, questo tipo di stalking è definito da Ege (2005) stalking occupazionale, una forma di stalking in cui l’effettiva attività persecutoria si esercita nella vita privata della vittima, ma la cui motivazione proviene invece dall’ambito lavorativo.

L’autore sottolinea come vi sia la presenza di conflitti lavorativi in cui l’aggressore o per meglio dire l’aspirante tale, non ha i mezzi e le possibilità di mettere in pratica la persecuzione che desidererebbe perpetrare ai danni di qualcuno.

L’esempio tipico è quello del sottoposto che vorrebbe tanto vendicarsi in qualche modo del suo superiore prepotente o limitante, ma non osa agire per paura delle conseguenze e dei troppi testimoni; potrebbe quindi decidere di prendersi la sua rivincita su un terreno a lui più congeniale, che forse potrebbe ritenere meno pericoloso, come appunto la sua vita privata.

In casi come questo, lo stalking occupazionale deriva da una situazione conflittuale sul posto di lavoro che praticamente non si è manifestata, ma è rimasta a livello di intenzione o desiderio.

In altri casi, invece, vi è già una storia di mobbing o di altro conflitto lavorativo e lo stalking occupazionale viene ad inserirsi come una sorta di completamento, parallelo o successivo, della persecuzione già in atto.

Nel primo caso lo stalking occupazionale viene attuato come una strategia aggiuntiva al mobbing, per esempio per costringere con maggior forza la vittima alle dimissioni o a rinunciare ad una promozione.

Nel secondo caso lo stalking occupazionale è attuato dopo che una strategia di mobbing si è esaurita o si è rivelata inefficace, avviene in sostanza in quei casi in cui un mobber, non essendo riuscito per qualche motivo a raggiungere i risultati sperati ai danni della vittima, decide allora di continuare la sua azione al di fuori dell’ambiente lavorativo.

Ci sono poi casi, rari ma attestati, di stalking occupazionale “al rovescio”, ossia attuati da vittime di mobbing o di straining o di altro conflitto lavorativo che decidono di vendicarsi dalle angherie del loro aggressore colpendolo nella sfera privata; oppure di lavoratori licenziati o allontanati che pensano così di rivalersi sull’ex datore di lavoro (Ege, 2005).

 

 

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova