Articoli

Il benessere organizzativo: foglietto illustrativo

Il benessere organizzativo: foglietto illustrativo.

Parliamo tanto di benessere, sentiamo parlare di benessere, ma sappiamo che cosa sia il benessere?

Intanto sappiamo che il malessere ha un costo, è quantificabile sia a livello macro che a livello micro.

Delle stime inglesi ci dicono che per ogni componente dell’azienda che ha delle problematiche psicologiche si spende, all’anno, 10.000 sterline. Su un campione di un’azienda diventano cifre molto più grandi.

Il costo complessivo, ogni anno, allo stato Italiano, ad esempio, costa un 3.3% dell’intero PIL nazionale, tra spese dirette e indirette. La cifra che pesa di più, su queste spese, è quella relativa al fatto che le persone che stanno male perdono il lavoro o non lo cercano e, se ce l’hanno, non sono produttive. Si stima una perdita annua che va dai 35 ai 54 miliardi.

Allo stesso modo abbiamo le cifre delle situazioni eccelse, dove di benessere, aziendale e quindi personale, si abbonda. Ci sono degli esempi da seguire che possono insegnarci tanto, solo dobbiamo andarceli a cercare uno per uno. Perché di esempi che sono andati male abbiamo abbondati dati, ma quelli che vanno bene sono molto gelosi del proprio funzionamento.
Abbiamo già parlato di benessere in altri frangenti, orta proviamo a definirlo meglio.

Siamo talmente tanto abituati a descrivere ‘che cosa non sia’ che dargli una definizione vera, renderlo un concetto a sé stante, diventa qualcosa di molto complicato. Forse è anche per questo che le persone e le aziende non riescono a comprenderlo in tutto e per tutto.

Viene comunemente accettata la definizione dell’OMS che definisce il benessere così:

“uno stato di benessere dove l’individuo può utilizzare le proprie abilità, riesce a cooperare con i normali stressor della vita, può lavorare produttivamente e fruttuosamente, ed è in grado di dare un contributo alla comunità”

Però, nella vita di tutti i giorni, non siamo sempre felici e produttivi al massimo delle nostre capacità. Possono anche esserci periodi della vita in cui non siamo in grado di avere a che fare con gli stressor delle nostre giornate.

Al contempo stare bene e provare benessere uccidendo persone allo stesso modo non è un sinonimo di benessere, come vorremmo intenderlo noi.

Per quanto sia difficile andare a definizione il benessere nella sua natura più intima è inevitabile che ci siano delle linee guida che possono renderla una definizione comprensiva e inclusiva, a prescindere dalle differenze dei vari luoghi di provenienza.

Ne abbiamo trovata una che ci soddisfa sa uno studio (che trovate qui) di Galderisi, Heinz, Kastrup, Beezhold e Sartorius:

La salute mentale è uno stato dinamico di equilibrio interno che rende gli individui in grado di usare le proprie abilità in armonia con valori universali della società. Abilità cognitive e sociali di base; abilità di riconoscere, esprimere e modulare le proprie emozioni, oltre all’empatizzare con gli altri; flessibilità e abilità di far fronte alle avversità della vita e alle funzioni dei ruoli sociali; una relazione armoniosa tra il corpo e la mente rappresenta un importante componente della salute mentale che contribuisce, a vari livelli, allo stato di equilibrio interno.

Una definizione tutt’altro che semplice e semplificata di benessere, che vuole contenere al suo interno tutto l’insieme di sfaccettature di cui siamo composti.

Ad esempio il concetto di ‘dinamico equilibrio interno‘ si riferisce alla capacità di far fronte e riadattarsi nei vari momenti della propria vita: le crisi adolescenziali, il matrimonio, il diventare gentiri, il perdere il lavoro, ecc. Tutti momenti che sono complicati da affrontare e che non sono per niente facili, dove le emozioni negative sono presenti. In questo senso il benessere risiede nella capacità di trovare un equilibrio interno e riassestarlo a seconda dei momenti che si stanno vivendo.

In generale, il concetto di equilibrio interno, è il cardine di tutta la presente definizione di equilibrio, in quanto permette di equilibrarsi anche quando una delle componenti non funziona come dovrebbe. Perciò nonostante determinate mancanze si riesce comunque a vivere una vita piena e soddisfacente.

La regolazione emotiva è un concetto estremamente importante, che permette di cooperare con le proprie emozioni e regolarle, permettendo di far fronte a momenti difficili. E’ un0abilità che aiuta nel far fronte allo stress e alla depressione.

L’empatia è quella capacità che permette di capire che cosa le altre persone stiano provando e di sentirlo sulla propria pelle. L’assenza di questa capacità inficia le relazioni sociali, è un fattore che aumenta la violenza e contribuisce alla strutturazione di un disturbo di personalità antisociale e inficia la socialità a tanti livelli.

La flessibilità è la possibilità di cambiare il modo di fare e le idee in corso d’opera, accogliendo differenti punti di vista e nuove prospettive. La mancanza di flessibilità, di evince da sé, può creare problematiche di rigidità, grandi difficoltà in situazioni nuove, ed è un tassello importante in alcuni disturbi come il disturbo ossessivo compulsivo.

Per ultimo un concetto a noi molto caro, ovvero che la mente e il corpo sono la stessa cosa, curi uno e curi anche l’altro. Sono profondamente interrelati e senza l’uno non ci sarebbe l’altro, e si influenzano e si ammalano insieme.

Eppure questo è così solo sulla carta. Innanzi tutto la maggior parte delle persone non sa cosa significhi davvero benessere e, soprattutto, ignora o teme la parte mentale. Non ci metteremo a ribadire, in quanto clinici, che già avere timore denota una certa resistenza che è già degna di nota.

Il considerare il benessere psicologico qualcosa di non ben definito, in qualche modo spaventoso, rema contro la realtà aziendale.

Con questa complessa definizione si riesce a capire molto meglio che cosa vogliamo dire come benessere. Spiega chiaramente tutte le componenti e le trame che si dipanano dal soggetto e tutta la catena che unisce l’interno (il nostro sé) con l’esterno (ambiente)

Un insieme di tasselli che vanno a comporre la persona, il comportamento, la cognizione e le emozioni. Si parla di consapevolezza e di analisi, della capacità di adattarsi alle situazioni che ci succedono, di mutare con le richieste interne o esterne, di essere in movimento.

Pertanto lo stesso concetto di benessere all’interno dell’azienda è un concetto estremamente sfaccettato che comprende tanti tasselli al suo interno che riguardano le persone che fanno parte di quella realtà.

Il benessere parte dalle persone singole quindi.

Occuparsene è qualcosa di complesso, che richiede grandi attenzioni e, sicuramente, non può essere messo in fondo alla lista dei ‘To do‘ dell’azienda.

Secondo delle stime un dipendente che non sta bene si assenta una media di 27 giorni all’anno, con un’impatto importante sui rate di assenteismo. Lascia anche il lavoro più frequentemente e, comunque, anche se presente al lavoro non produce come gli altri.

Riuscire a intercettare questi bisogni all’interno della propria azienda è il primo dovere dell’imprenditore e del management, che si deve occupare del proprio capitale umano. Non soltanto perché una persona che sta male gli frutta meno, ma anche perché una persona che sta bene ha un impatto che va ben oltre il fatturato aziendale, contribuisce anche a creare un mondo migliore.

E il benessere organizzativo quindi? Da cosa è composto?

Partendo dal presupposto che si basa su quello che è il benessere della singola persona e del gruppo e, di conseguenza, dell’azienda, si tratta di applicare il concetto di benessere a tutte le fasi che in un’azienda comprendono le persone.

Si parla quindi di:

  • Assessment per la selezione
  • Attenzione all’inserimento
  • Formazione continua
  • Possibilità di confronto dei dipendenti
  • Cura del dialogo e dei rapporti
  • Attenzione all’ergonomia e ai fattori strutturali
  • Creazione di sinergie
  • Focus su obiettivi condivisi
  • Coinvolgimento nelle direttive aziendali

Insomma, visto e considerato che l’azienda è un essere vivente e risponde esattamente come tale a ciò che succede, possiamo dire che comprende tutto.

Perché il benessere è la vera innovazione del domani.

Contattaci

Le 3 cose che i dipendenti vogliono dal loro lavoro: crescita, appartenenza, significato

Le 3 cose che i dipendenti vogliono dal lavoro: crescita, senso di appartenenza e significato.

E sì, nel caso in cui ve lo steste chiedendo, dipende proprio dall’azienda, dare tutto questo ai proprio dipendenti.

Queste necessità emergono dal bisogno dei lavoratori, che è decisamente cambiato rispetto al passato, mostrando delle necessità nuove che bisogna sapere.

Infatti assistiamo, a livello globale, ad un turnover e assenteismo che arrivano a cifre spaventose, con una spesa stimata di 3.000 dollari circa per ciascun dipendente. Senza contare tutto il costo che sta dietro alle dimissioni di un dipendente (personale qualificato che ricerchi un altro profilo, nuova assunzione, nuovo inserimento, ecc..). Queste, ovviamente, sono cifre della Harvard Business School, perché in Italia di studi scientifici ad ampio spettro come questi non ce ne sono.

Tutti conoscerete la famosissima Piramide di Maslow, un modello motivazionale basato su una gerarchia di bisogni, disposti a piramide, in base alla quale la soddisfazione dei bisogni più elementari è condizione necessaria per fare emergere quelli di ordine superiore.

I bisogni fondamentali, una volta soddisfatti, tendono a non ripresentarsi, mentre i bisogni sociali e relazionali rinascono con nuovi e più ambiziosi obiettivi da raggiungere. Ne consegue che l’insoddisfazione, sia sul lavoro, sia nella vita pubblica e privata, è un fenomeno molto diffuso che può trovare una sua causa nella mancata realizzazione delle proprie potenzialità. Per Maslow, infatti, l’auto-realizzazione richiede una serie di caratteristiche di personalità, competenze sociali e capacità tecniche.

E’ evidente, infatti, che se non riusciamo a sopravvivere con il guadagno lavorativo che abbiamo, passeremo nottate insonni cercando il modo per sbarcare il lunario.

In generale questa piramide riassume i bisogni che ci spingono ad agire in ogni frangente della nostra vita.

Ma, per noi, questa piramide è ancora valida? Possiamo aggiungere qualche gradino che ci permetta di calare più nello specifico il bisogno di auto-realizzarsi? Il significato, il senso di appartenenza e la crescita possono diventare bisogni primari?

Lo possiamo vedere direttamente da studi del mercato, dove le realtà imprenditoriali che si sono concentrate sul soddisfare bisogni non solo primari dei loro dipendenti hanno performato rispetto ai competitor (dal 1984 fino al 2011, coloro che hanno performato hanno avuto un rendimento azionario dal 2.3% al 3.8% ogni anno). Questo non è un caso.

E’ evidente che non è sufficiente per l’azienda rispondere solo ai bisogni primari, ma deve anche saper guardare oltre, a queste 3 cose che racchiudono il mondo: riuscire a comprendere i bisogni più profondi dei propri dipendenti e sapervi rispondere.

Perciò se la Piramide di Maslow venisse fatta adesso, cosa comprenderebbe?

Innanzi tutto, quello che emerge dalle realtà e dai lavoratori, il primo intramontabile bisogno è la crescita. Attenzione! Non si intende soltanto una crescita di carriera (anche se immagino, che per la maggior parte dei dipendenti, questa sarebbe ben gradita). Lo intendiamo in un’ottica personale, di upskilling e reskilling delle competenze e delle capacità sia soft che hard. Dare la possibilità ai propri lavoratori di crescere, svilupparsi e migliorare è fondamentale per far sentire le persone in grado di poter svolgere il proprio compito, motivarle e renderle maggiormente creative.

Un pilastro fondamentale, il principale motivo per cui una persona decide di andarsene o rimanere in azienda, è quello di avere un significato. Il lavoro deve riempire di significato la vita delle persone, i dipendenti devono sentire di avere un senso, un valore, all’interno della loro attività. Devono essere attivamente coinvolti e sentire di avere un peso all’interno della loro organizzazione. Costruendo realtà anche attente al sociale e impegnate nell’ambiente, il sentimento di compartecipazione che si può arrivare ad ottenere per i propri dipendenti è molto alto.

Un altro tassello fondamentale è quello del senso di appartenenza. Il lavoratore deve sentirsi parte del tutto, deve poter sentire questo senso di unione che lo integra perfettamente all’interno della sua realtà, rendendolo parte di un organismo che può lavorare in perfetta sinergia. Solo tramite il senso di appartenenza si può fidelizzare una persona, darle una casa che non lascerà e per la quale combatterà, con motivazione e spirito.

Dare un significato alla propria vita, avere la possibilità di crescere e sviluppare un senso di appartenenza per l’azienda danno alle persone orgoglio, un motivo per alzarsi tutte le mattine, permettono di trovare la soddisfazione nel proprio impiego.

L’orgoglio, il senso di appartenenza, l’acquisizione di un significato nelle proprie giornate lavorative, incrementano quello che è il senso di appartenenza e di gratificazione della persona, la rendono più felice.

Secondo alcuni studi dell’Harvard Business School dipendenti più ‘felici‘ sono il 13% più produttivi. Questo non significa che lavorino più ore del necessario, bensì che siano più efficienti nell’orario di lavoro. Ci sono tanti studi scientifici che analizzano la correlazione tra felicità e benessere sul posto di lavoro e produttività, con successivo incremento dei guadagni aziendali (un esempio qui)

La grande sfida per ogni azienda è occuparsi della motivazione, la crescita, del significato lavorativo e del senso di appartenenza di ogni dipendente.

Uno di questi studi che abbiamo trovato estremamente interessante pone l’accento su quelli che sono gli obiettivi dell’azienda e l’impatto che essa vuole avere nel mondo, dando ai dipendenti la possibilità di partecipare a questi obiettivi e portarli nel mondo.

Per fare tutto questo è fondamentale avere massima attenzione alle proprie persone, sono tantissimi punti di vista. Innanzi tutto individuare una leadership efficace, che sia emotivamente legate alle persone e che sappia motivarle. Un tassello che molte realtà dimenticano e/o danno per scontato è quello della comunicazione. Bisogna ritagliare momenti in cui si possa comunicare con tutti i dipendenti e in cui ci sia dell’ascolto reciproco, attivo e sincero.

In questo articolo si parla di come implementare il guadagno della tua azienda. Ma ricordati che il guadagno è quello che le tue persone ti permettono di ottenere.

 

Contattaci

I costrutti di turnover, soddisfazionelavorativa, altruismo e job burnout

I costrutti di turnover, soddisfazione lavorativa, altruismo e job burnout

Turnover

Il turnover rappresenta la volontà da parte del dipendente di lasciare l’azienda e si suddivide in fisiologico e patologico. Il turnover fisiologico è quello che fa parte di tutte le organizzazioni; il turnover patologico sopraggiunge quando la percentuale di persone che abbandonano l’azienda non è dovuta al normale e virtuoso ricambio di personale al suo interno. Per Sarchielli (2003) il turnover può avvenire per diverse ragioni, “alcune […] evitabili da parte dell’organizzazione, se fossero riconosciute anche per il loro valore di segnale di incertezza o malfunzionamento sistemico e le si affrontasse apportando i necessari cambiamenti per rimuovere le principali cause di abbandono (salari bassi, cattive condizioni di lavoro, problemi con i superiori) […] altre difficili da affrontare, essendoci scarse possibilità da parte dell’organizzazione di frenare l’esodo che deriva in prevalenza da aspetti personali in senso stretto (cause personali come: ingressi lavorativi intenzionalmente temporanei e di attesa per soluzioni migliori, decidere di ritornare a studiare, cambiare città, aspirare a un cambiamento di carriera possibile solo in un’altra organizzazione)” (pp. 295-296).

In una meta-analisi, Zimmerman (2008) mostra come sebbene molto spesso ci si focalizzi negli aspetti dell’attività lavorativa come predittori del turnover, alcuni tratti di personalità sono predittori più forti del turnover. Secondo la meta-analisi, i tratti di Coscienziosità (p = -.20), Stabilità Emotiva (p = -.18), Amicalità (p = -.25) sono legati negativamente col turnover, mentre l’Apertura Mentale (p = .10) positivamente.

Secondo il modello generale dell’impegno organizzativo di Meyer ed Herscovitch (2001) il turnover è considerato una variabile focale dell’impegno per continuità, tuttavia esso è predetto maggiormente dall’impegno affettivo, gli autori spiegano questa differenza mediante il fatto per cui, probabilmente, l’impegno affettivo è più ampio e lega più fortemente la persona all’organizzazione.

Soddisfazione lavorativa.

Locke definisce la soddisfazione lavorativa come: “uno stato emotivo piacevole che risulta dalla valutazione per cui il proprio lavoro facilita o permette di raggiungere i propri valori lavorativi. L’insoddisfazione lavorativa è uno stato emotivo spiacevole risultante dalla valutazione che il proprio lavoro frustra o blocca il raggiungimento dei propri valori” (Locke, 1969, p.317).

Secondo una delle definizioni più accettate, dunque, la soddisfazione è uno stato emotivo piacevole. Nella ricerca attuale, comunque, si distingue la soddisfazione lavorativa generale, che riguarda il lavoro in sé, da quella specifica che riguarda aspetti specifici dell’attività lavorativa (i colleghi, i capi, la retribuzione, le mansioni). Altre definizioni, tuttavia, considerano la soddisfazione come atteggiamento; ad esempio Brief (1998, p.10) afferma che la soddisfazione lavorativa è “un atteggiamento verso il proprio lavoro.” Come fa notare Weiss (2002) “nella letteratura sulle organizzazioni le due definizioni di ‘soddisfazione come affetto’ e ‘soddisfazione come atteggiamento’ non sono considerate come incoerenti”, principale critica di questo autore è rappresentata dalla necessità di distinguere la soddisfazione come atteggiamento dalla soddisfazione come affetto.

Burnout.

Maslach (1976, 1982) definisce il Burnout come una sindrome caratterizzata da esaurimento emozionale, depersonalizzazione e ridotta efficacia professionale, che può presentarsi in soggetti che, nella vita professionale, lavorano a contatto con le persone. Si tratta di una reazione di difesa alla tensione emotiva cronica creata dal contatto continuo con altre persone, in particolare quando esse hanno dei problemi o motivi di sofferenza. Nel costrutto, possono essere distinte tre dimensioni, l’esaurimento emotivo (emotional exhaustion) è la componente centrale ed atipica del Burnout; è definibile come la sensazione della persona di aver esaurito le energie psicologiche, fisiche ed emozionale per affrontare l’attività lavorativa. Il termine Burnout(“burned out”), infatti, fa pensare ad un ultimo guizzo di fiamma  .

La depersonalizzazione (depersonalization) è definibile come un distacco nella relazione con i clienti e con gli utenti mediante un processo di disumanizzazione basato sul trattamento degli altri come oggetti o numeri piuttosto che come persone (Maslach & Leiter, 2000).

Il ridotto senso di fiducia professionale (reduced personal accomplishment) è la terza componente del burnout. In questo caso l’operatore non si sente in grado di stabilire una  relazione d’aiuto efficace con i propri utenti, ha poca stima di sé a livello professionale, fino a sentirsi in colpa per non riuscire ad aiutare gli altri.

Secondo Nonnis e Rutelli (in De Carlo, Faa & Rutelli, 2008, pp.202-203) “per evitare l’insorgere di fenomeni di affaticamento e disaffezione […] l’azienda dovrebbe essere in grado di identificare gli elementi che legano l’individuo all’organizzazione, lo spingono a rimanere e a impegnarsi nel proprio lavoro, progettando e realizzando interventi di prevenzione della disaffezione lavorativa e, soprattutto, di promozione del benessere individuale e organizzativo […] si è rafforzata l’idea di collocare il job burnout lungo un continuum in cui al polo opposto si trova il job engagement.”

Inizialmente, si riteneva il Burnoutuna sindrome esclusiva delle professioni d’aiuto. Secondo le formulazioni più attuali del costrutto (Maslach & Leiter, 1997) si ritiene che il burnout possa manifestarsi in tutte le altre professioni. A livello diagnostico oggi ci sono difficoltà nell’identificarlo, uno dei più diffusi manuali nosografici, il DSM-IV, non contiene la descrizione del burnout. Alcune delle difficoltà principali nella diagnosi della sindrome di Burnoutsono:

    1.  si ritiene che a determinare il burnout siano soprattutto condizioni psicosociali e non individuali;
    1. è facile confondere i sintomi della sindrome di burnout con  sintomi dell’ansia, della depressione, dei disturbi somatoformi, psicosomatici, svalutazione di sé, sovra-affaticamento da lavoro (Pellegrino, 2000);
    1. è facile confondersi con i disturbi di adattamento;
    1. nei casi in cui la sindrome di burnout si verifichi in operatori che lavorano con utenti con patologie croniche c’è, inoltre, difficoltà nella diagnosi differenziale rispetto al disturbo post-traumatico da stress;

Nota Haslam (2004), che nello studio del Burnout, utilizzando soprattutto disegni one-shot o disegni correlazionali non si sia riusciti a cogliere realmente la relazione causale che si stabilisce tra le variabili legate al Burnout.

Uno dei motivi per cui oggi si presta attenzione a fenomeni e disagi soggettivi nelle organizzazioni è costituito dal fatto che tali disagi determinano costi (anche economici) oggettivi per l’organizzazione. Esistono una serie di sintomi legati alla sindrome da burnout. In Cherniss (1986) troviamo una lista di sintomi:

    1. a affaticamento, stanchezza, esaurimento, anche dopo il lavoro;
    1. tachicardia, cefalea, nausea, incapacità di ascoltare ciò che l’utente sta dicendo, rappresentazione stereotipata dell’utente, cinismo verso l’utente;
    1. disturbi gastrointestinali, mal di testa;
    1. assenteismo;
    1. rabbia, risentimento, ritiro, negativismo, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento;
    1. eccessiva preoccupazione per se stessi, eccessivo uso di farmaci o alcol;
    1. conflitti coniugali e familiari;

Altruismo.

Organ (1988) definisce i comportamenti di cittadinanza organizzativa come quei comportamenti individuali, discrezionali, non direttamente o esplicitamente riconosciuti dal sistema di riconoscimento formale, che nel complesso favoriscono il funzionamento efficace dell’organizzazione. Nel costrutto sono distinte due dimensioni cioè altruismo e compliance: l’altruismo fa riferimento a comportamenti svolti a favore di persone specifiche nell’organizzazione, la compliance, invece, fa riferimento a comportamenti favorevoli all’organizzazione in generale (ad esempio arrivare in orario).

Secondo il modello generale dell’impegno di Meyer ed Herscovitch (2001), l’altruismo è un comportamento discrezionale e non focale, influenzato in particolar modo dall’impegno affettivo.

Fonte:  Dott. Igor Vitale

© Clima Organizzativo e Stili di attaccamento in ambito ospedaliero – Dott. Igor Vitale