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La struttura della percezione della mente

La struttura della percezione della mente

Waytz et al. (2010) evidenziano come la rappresentazione bidimensionale (agency e experience) sia emersa anche in altri settori della ricerca psicologica, come la distinzione tra natura umana e unicità umana (già trattate dettagliatamente nel primo capitolo da Haslam e Leyens) o le due dimensioni fondamentali della valutazione sociale che distingue tra calore e competenza (Fiske, 2002). Nel dettaglio, l’experience viene collegata rispettivamente alla natura umana e al calore, mentre l’agency viene collegata all’unicità umana e alla competenza. Si può quindi comprendere il legame esistente tra il processo di percezione della mente, i fenomeni di deumanizzazioneinfraumanizzazione e di valutazione sociale, e come, per un efficace strategia di riduzione del pregiudizio, sia utile considerare queste teorie psicologiche, solitamente distinte.

Nei processi di attribuzione della mente ad altre entità (siano esse persone o gruppi) un fattore di complessità è dato dal fatto che sono coinvolte due menti differenti, quella del percipiente e quella dell’entità che viene percepita: ciò comporta che la struttura di questo processo sia rappresentabile con uno schema 2×2 (come da Figura 4), in cui sia le cause che le conseguenze sono suddivisibili in due categorie legate ai due attori coinvolti. Vengono adesso analizzate nel dettaglio le cause e le conseguenze della percezione della mente legate rispettivamente al percipiente e al percepito.

Figura 4 – Cause e conseguenze della percezione della mente per il percipiente ed il percepito (da Gray et al., 2011)

 

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

Teoria della Mente

Teoria della Mente

 

I concetti di deumanizzazione e infraumanizzazione sono legati alle attribuzioni di mente agli altri. Quasi tutti gli esseri umani hanno la possibilità di superare la propria visione egocentrica e di ragionare sulle capacità mentali altrui, ma spesso non la utilizzano a dovere (Waytz et al., 2010).

Quali categorie di persone, animali e oggetti hanno una propria mente? La risposta a questa domanda è sicuramente legata alla percezione che si ha di queste entità, e non è quindi solamente una loro proprietà intrinseca: spesso le persone riescono simultaneamente a negare le capacità mentali ad altre persone e, addirittura, ad attribuirle ad oggetti ed entità non-umane, come Dio (Waytz et al., 2010). La percezione della mente degli altri è sicuramente una componente cruciale per la comprensione dei processi sociali in generale e più in particolare dei fenomeni di pregiudizio sociale. La ricerca da alcuni anni si dedica allo studio della percezione della mente, provando ad individuarne le cause, le caratteristiche peculiari e le conseguenze. Esistono numerosi studi che evidenziano come il fenomeno della percezione della mente sia di fondamentale importanza sia nelle relazioni interpersonali che in quelle intergruppi. Per quanto riguarda l’attribuzione di una mente a entità non umane, possono essere citati alcuni esempi, come il giudizio della corte suprema di giustizia Americana sul fatto che le corporazioni ne posseggano una e quindi godano del diritto di libertà ed espressione o come il parlamento Spagnolo abbia attribuito agli scimpanzé in cattività abbastanza capacità mentali da garantirgli, anche se in maniera limitata, alcuni diritti umani. Analogamente, l’attribuzione di mente ad altre persone è un elemento controverso che è stato argomento di dibattito sin dai secoli passati (basti citare la lotta alla schiavitù che ha portato alla Guerra civile Americana o le decisioni sul diritto dei Nativi americani di godere di tutela da parte dei colonizzatori).

La teoria della percezione della mente (Waytz et al., 2010) analizza come le persone definiscano la mente stessa, quando riescono a percepirla come propria di altre entità (umane e non umane), quando e come ciò risulti importante nella vita e nelle interazioni sociali (Waytz et al., 2010). La comprensione di come si sviluppi la percezione della mente nelle persone si basa su tre domande fondamentali (Waytz et al., 2010): le persone pensano che entità particolari abbiano una mente? Qual è lo stato mentale degli altri che viene percepito? Quali sono le conseguenze comportamentali della percezione della mente di altre entità? La teoria della mente (o mentalizzazione) si è concentrata da tempo sulla seconda di queste domande; oggi la ricerca si sta focalizzando anche sulla prima e sulla terza domanda.

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

I mediatori dell’amicizia cross-group estesa

I mediatori dell’amicizia cross-group estesa

 

Wright et al. (1997), propongono quattro meccanismi mediante cui l’amicizia cross-group estesa può ridurre il pregiudizio migliorando l’atteggiamento verso l’outgroup: la riduzione dell’ansia intergruppi, le norme dell’ingroup, le norme dell’outgroup e l’inclusione dell’outgroup nel sé.

La riduzione dell’ansia intergruppi

Come per le amicizie di tipo diretto, anche osservando una relazione positiva tra i membri dell’ingroup e dell’outgroup si possono ridurre le aspettative negative circa le interazioni future con questi. Inoltre, rispetto all’amicizia crossgroup diretta, l’amicizia cross-group estesa non porta ad interazioni concrete, per cui i partecipanti non risentono dell’ansia iniziale legata all’incontro con l’altro gruppo.

Le norme dell’ingroup

In questo caso, la riduzione del pregiudizio è collegata alla percezione di norme dell’ingroup positive verso l’outgroup, in quanto coinvolge l’osservazione di comportamenti positivi di un membro dell’ingroup che interagisce con un membro dell’outgroup.  Whight et al. (1997) notano inoltre come l’appartenenza al rispettivo gruppo è più saliente per chi osserva il contatto rispetto a chi è direttamente coinvolto nell’interazione, e ciò porta alla categorizzazione di sè come un membro intercambiabile del gruppo, altamente influenzato dai suoi principi e atteggiamenti (Spears, Doosje & Ellemers, 1999). In queste circostanze, gli altri membri del gruppo sono visti come una fonte importante di informazioni riguardanti le opinioni condivise dal gruppo. In conclusione, osservare un membro dell’ingroup comportarsi positivamente verso l’outgroup porta alla percezione che vi siano dei principi generalmente positivi dell’intero ingroup verso l’outgroup.

Le norme dell’outgroup 

In maniera analoga, l’amicizia cross-group estesa sviluppa la percezione che anche l’outgroup abbia delle norme positive riguardo alle interazioni con l’ingroup. Infatti, vedere un membro dell’outgroup comportarsi in maniera amichevole verso l’ingroup genera l’informazione che l’outgroup è interessato a relazioni intergruppi positive. Come si è detto, inoltre, l’appartenenza al gruppo è particolarmente saliente nell’amicizia cross-group estesa, e ciò incrementa la probabilità che la persona coinvolta venga vista come rappresentativa dell’intero gruppo e che le sue azioni e i suoi atteggiamenti riflettano i principi generali dell’outgroup (Brown & Hewstone, 2005). In accordo al principio di reciprocità, vi è la tendenza a farsi piacere le persone a cui si percepisce di piacere e, quindi, se la persona vede un membro dell’outgroup interessato ad una relazione positiva con lei è probabile che si reagisca in maniera analoga.

L’inclusione dell’outgroup in se stessi (IOS)

Da diversi studi è emerso che, quando avviene la categorizzazione di sé come membro di un gruppo l’ingroup viene incluso in se stessi, ovvero si crede che le caratteristiche dell’ingroup rappresentino anche le proprie (Tropp & Wright, 2001). Inoltre, vi è la tendenza a raggruppare le persone che si percepisce essere amici trattandoli come una singola unità cognitiva. Quando avvengono contemporaneamente questi due fenomeni, il membro dell’outgroup è percepito sovrapposto cognitivamente al membro dell’ingroup, diventando dunque parte anche di se stessi. Infine, per lo stesso processo è probabile che il membro dell’outgroup includa il proprio gruppo in se stesso, e quindi per l’osservatore cresce anche la misura in cui l’outgroup viene incluso in se stessi (Turner et. al., 2007). In definitiva, tramite una amicizia cross-group estesa è maggiormente probabile che l’outgroup venga trattato come se stessi (e quindi positivamente) condividendo risorse, sentendosi orgogliosi dei successi dell’altro e triste per i suoi insuccessi (Aron, Aron, Tudor & Nelson, 1991).

Tutti e quattro i meccanismi sono stati testati simultaneamente mediante due studi (Turner et al., 2007): il primo su 142 studenti bianchi delle scuole medie, il secondo su 120 studenti bianchi delle scuole superiori. In entrambi, sono stati esaminate le amicizie cross-group estese e gli atteggiamenti verso individui del sud-est asiatico. Sono stati misurati tramite diversi item l’ansia intergruppi (chiedendo ad esempio quanto si sentissero a proprio agio durante l’interazione con i membri dell’outgroup),le norme dell’ingroup (chiedendo ad esempio ai partecipanti quanto essi pensino che siano amichevoli i loro compagni bianchi con l’outgroup), le norme dell’outgroup (chiedendo ad esempio quanto pensano che ai membri dell’outgroup piacciano gli individui bianchi) e l’inclusione dell’outgroup in se stessi. Quest’ultima è stata misurato mediante la scala di inclusione (IOS) proposta da Aron et al. (1991), che utilizza una serie di coppie di cerchi che si sovrappongono in maniera crescente tra di loro. In questa scala, il primo cerchio rappresenta se stessi ed il secondo rappresenta i membri dell’outgroup: più i cerchi si sovrappongono e maggiore è l’inclusione dell’outgroup nel sé. In questi studi si è ipotizzato che alti livelli di vicinanza con l’amico dell’outgroup più stretto predicano atteggiamenti maggiormente positivi verso l’intero outgroup; inoltre, si è analizzato se i quattro processi medino la relazione tra amicizie cross-group estese e atteggiamento verso l’outgroup, e se ognuno di questi fattori abbia un ruolo di mediatore indipendente quando vengono controllate le altre tre variabili. Dai risultati è emerso che le amicizie cross-group di tipo esteso sono associate ad una minore ansia intergruppi, alla percezione di norme più positive sia riguardo all’ingroup che riguardo all’outgroup e ad una maggior inclusione dell’outgroup nel sé. A sua volta, questi quattro fattori sono associati ad un atteggiamento maggiormente positivo verso l’outgroup. Anche se non si può stabilire con certezza la direzione causale, gli autori presumono che siano le amicizie estese a ridurre il pregiudizio piuttosto che il contrario. Infine, viene evidenziato il ruolo di altri processi nella relazione tra contatto esteso e pregiudizio e viene sottolineato come, mentre l’amicizia cross-group diretta è fortemente legata all’opportunità di contatto tra i due gruppi, l’amicizia estesa non lo è. Riguardo agli altri processi di mediazione in relazione al contatto esteso, ne vengono esaminati in particolare due (Tam, Hewstone, Kenworthy & Cairns, 2009): la fiducia intergruppi e la rivelazione di sé all’altro. In questa ricerca, si evidenzia come sia il contatto a predire la fiducia piuttosto che il viceversa; inoltre, secondo quanto descritto in precedenza e in accordo con la teoria dell’apprendimento sociale, anche la rivelazione di sé all’altro media la relazione tra amicizia cross-group estea e atteggiamento verso l’outgroup.

Riguardo i fattori mediatori nelle amicizie cross-group, sono da citare due lavori condotti in contesti italiani considerando diversi rapporti intergruppi: quello tra eterosessuali e omosessuali (Capozza, Falvo, Trifiletti & Pagani, 2014) è quello tra italiani Settentrionali e italiani Meridionali (Capozza, Falvo, Favara & Trifiletti, 2013).

Nello studio di Capozza et al. (2014) si è testato se le amicizie cross-group dirette ed estese siano collegate ad una riduzione dell’infraumanizzazione e ad una umanizzazione dell’outgroup. Gli autori evidenziano come nello studio di questo fenomeno si considerino generalmente come proprietà unicamente umane le emozioni secondarie (cognitivamente complesse) e tratti umani come razionalità e consapevolezza. Si sono ipotizzati tre processi di mediazione primaria (IOS, norme di ingroup e outgroup) e tre mediatori secondari (ansia intergruppi, fiducia ed empatia verso l’outgroup). Essi sottolineano come l’inclusione dell’outgroup nel sé, nel caso di amicizia cross-group estesa, prenda la forma di un’inclusione transitiva: da un’iniziale sovrapposizione tra sé e il membro dell’ingroup, a una successiva sovrapposizione tra questi ed il suo partner nel contatto, e infine a un’incorporazione finale di quest’ultimo con l’intero outgroup. L’ipotesi è che l’IOS riduca l’infraumanizzazione dell’outgroup sia direttamente sia attraverso i mediatori secondari. Anche le norme dell’outgroup possono essere efficaci nella misura in cui i membri dell’outgroup sono percepiti come prototipici; gli effetti di tali norme dovrebbero essere mediati, nella relazione con l’infraumanizzazione, da empatia, fiducia e ansia intergruppi. Le norme dell’ingroup, nelle amicizie dirette, agiscono tramite il processo di “selfanchoring”, mentre in quelle vicarie possono portare alla conclusione che l’ingroup abbia delle norme favorevoli verso l’outgroup.

I partecipanti erano studenti universitari eterosessuali. Sono state misurate tramite diversi item: l’amicizia cross-group diretta ed estesa; i mediatori di primo livello (per l’IOS è stato utilizzato l’item grafico della scala d’inclusione dell’altro nel sé di Aron, Aron & Smollan,1992); i mediatori di secondo livello; le attribuzioni di umanità tramite quattro tratti unicamente umani (es. moralità) e quattro non unicamente umani (comune anche agli animali, es. istinto) in modo da analizzare diverse componenti del concetto di umanità. Le misure sull’umanità sono state sintetizzate in due indici, uno di infraumanizzazione (differenza tra ingroup e outgroup sui tratti unicamente umani) ed un altro di umanizzazione

(attribuzione di tratti unicamente umani all’outgroup). I dati hanno mostrano che avviene infraumanizzazione ma non deumanizzazione (ovvero i due gruppi risultano differenti solo per quanto riguarda i tratti unicamente umani). Solo il contatto esteso è associato ad una riduzione dell’infraumanizzazione attraverso la mediazione dell’IOS, il quale assieme alle norme dell’outgroup, costituisce un mediatore anche per l’umanizzazione dell’outgroup. I risultati mostrano quindi che il contatto esteso può essere collegato a minor infraumanizzazione tramite l’IOS, che riduce la distanza tra i due gruppi riguardo all’umanità percepita. Se si considera l’umanizazione, l’IOS, legata al contatto esteso, agisce tramite la riduzione dell’ansia, facendo percepire un minor bisogno di atteggiamenti aggressivi o difensivi verso l’outgroup. Per quanto riguarda l’amicizia cross-group diretta, essa è collegata solamente ad un incremento dell’empatia verso l’outgroup; si suppone che ciò sia dovuto al contesto dell’analisi (eterosessuali/omosessuali), in cui l’IOS è di difficile realizzazione nel contatto diretto.

Nel secondo studio (Capozza et al., 2013) viene analizzato l’effetto dell’amicizia cross-group, sia diretta che estesa, sull’umanizzazione dell’outgroup, considerando gli stessi mediatori di primo livello (norme ingroup, norme outgroup, IOS) e di secondo livello (ansia, empatia e fiducia) in un contesto notevolmente diverso, ovvero quello tra italiani Settentrionali e  Meridionali; vengono inoltre testati alcuni modelli alternativi. Capozza et. al. (2013) evidenziano che oltre ad attribuire più emozioni secondarie all’ingroup rispetto all’outgroup, può anche avvenire deumanizzazione di tipo animalistico o meccanicistico, assimilando l’outgroup ad animali o oggetti inanimati. Ansia, fiducia ed empatia dovrebbero essere mediatori emozionali secondari tra le amicizie (sia dirette che estese) ed un aumento dell’umanizzazione dell’outgroup.

Gli autori considerano l’ansia un mediatore secondario proprio perché di tipo emozionale, e quindi un antecedente più diretto di atteggiamenti, percezioni e comportamenti. I partecipanti erano, anche in questo caso, studenti universitari settentrionali, con genitori settentrionali, nati e residenti nel Nord Italia. Si sono usate le stesse misure dello studio precedente, con la differenza che l’IOS è stato rilevato anche attraverso un item costituito da una domanda sull’inclusione nella propria identità di quella meridionale. I risultati mostrano che l’IOS è generalmente moderato, e che mentre vengono attribuiti più tratti unicamente umani all’ingroup, quelli non unicamente umani vengono attribuiti in misura maggiore all’outgroup. Le analisi hanno mostrato che l’amicizia diretta predice l’IOS, che a sua volta predice l’umanizzazione tramite la mediazione di tutte e tre le emozioni ipotizzate. Invece, per l’amicizia estesa, i mediatori di primo livello sono solamente le norme dell’ingroup. Vengono inoltre testati due modelli alternativi: nel primo vengono invertiti i mediatori di primo e di secondo livello, mentre nel secondo si testa il modello originale di Wright et al. (1997) in cui la relazione tra contatto esteso e umanizzazione è mediata da ansia, IOS, norme ingroup e norme outgrop. Entrambi questi modelli, comunque, forniscono dei risultati peggiori. Gli autori concludono che l’amicizia cross-group diretta ed estesa è collegata ad una maggiore attribuzione di tratti unicamente umani all’outgroup e quindi ad una maggiore umanizzazione. Inoltre, solo l’IOS è un mediatore di primo livello significativo nel contatto diretto e solo le norme ingroup lo sono nel contatto esteso (gli autori ipotizzano che il membro dell’outgroup abbia un ruolo periferico e quindi venga limitato l’IOS). L’effetto trascurabile del contatto esteso sulle norme ingroup potrebbe dipendere dal contesto analizzato in cui i settentrionali sono consapevoli della loro presunta superiorità socioeconomica e si curano poco dell’atteggiamento dei Meridionali verso di loro. Viene confermato il ruolo dell’ansia come mediatore di secondo livello, che agisce tramite un incremento dell’IOS nel caso di amicizie dirette e mediante la percezione di norme ingroup favorevoli nelle esperienze vicarie. In particolare, ciò dimostra che in questa relazione i fattori cognitivi e quelli affettivi operano seguendo un ordine sequenziale. Infine, gli autori suggeriscono che in altri contesti intergruppi (con outgroup etnici, religiosi, razziali o stigmatizzati) i mediatori possano agire in maniera differente. In particolare, per gruppi stigmatizzati come obesi e disabili, l’IOS può essere un mediatore nel contatto esteso, ma non in quello diretto, come dimostrato nello studio precedente sulla relazione con gli omosessuali.

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

Deumanizzazione: Strategie di riduzione

Deumanizzazione: Strategie di riduzione

Haslam e Loughnan (2014) evidenziano come combattere la deumanizzazione può non essere semplice, poiché molte delle sue manifestazioni sono legate a stereotipi e conflitti intergruppi di lunga data, possono essere inconscie e automatiche, e sono spesso rafforzate da motivazioni e bias difficili da sradicare,  come a proteggere l’identità dell’ingroup; spesso infine, sono rivolte verso “bersagli mobili”, in quanto la tendenza a giudicare umana qualsiasi caratteristica che distingua il proprio ingroup può portare alla deumanizzazione di tutti gli altri outgroup.

Nonostante queste difficoltà, vengono individuate due diverse strategie di riduzione della deumanizzazione: l’umanizzazione dei target sociali e la categorizzazione sovraordinata. Riguardo alla prima, viene sottolineata l’efficacia potenziale del contatto intergruppi: un contatto di alta qualità è stato associato a minori percezioni di deumanizzazione di minoranze nord Irlandesi (Tam et al., 2007), maniaci sessuali in un centro di riabilitazione (Viki, Fullerton, Raggett, Tait & Wiltshire, 2012) e immigrati ed Italiani Meridionali (Capozza, Trifiletti, Vezzali & Favara, 2013). Anche il contatto immaginario riduce la deumanizzazione in bambini italiani verso gli immigrati (Vezzali et al., 2012). La seconda strategia è quella di promuovere un’identità comune o sovraordinata, enfatizzando le similitudini e la presenza di un destino comune tra i gruppi e tralasciando i confini che li separano. In uno studio (Capozza et al., 2012) si mostra come l’effetto umanizzante del contatto è parzialmente mediato, facendo condividere ad Italiani e immigrati una singola identità di cittadini, e ad Italiani Settentrionali e Meridionali, una comune identità nazionale. Haslam e Loughnan (2014) suggeriscono però di utilizzare con cautela questa strategia, perché rendere saliente l’identità umana comune nei contesti intergruppi potrebbe, in alcuni casi, deviare la responsabilità collettiva o ridurre l’empatia verso i gruppi-vittima. Inoltre, rendere la categoria umana saliente potrebbe essere controproducente se questa viene etichettata in senso negativo, poiché ciò aumenterebbe il supporto a torture ed uso della forza riducendo simultaneamente i sensi di colpa. Infine Haslam e Loughnan (2014) individuano altri due metodi con potenziale efficacia nel ridurre la deumanizzazione: quello di enfatizzare le somiglianze tra esseri umani e animali, e la categorizzazione multipla in cui si forniscono informazioni più dettagliate riguardo alle differenze individuali all’interno dello stesso outgroup.

Nel caso dell’infraumanizzazione Leyens et al. (2007) effettuano una trattazione più completa delle strategie di riduzione, descrivendone quattro: contrasto delle tendenze essensialiste, affievolimento dei confini tra ingroup e outgroup, rafforzamento dei simboli comuni e contatti deprovincializzati. Riguardo all’essenzialismo, essi sostengono che le persone, sebbene in genere siano in difficoltà nello specificare l’essenza del proprio gruppo o siano addirittura inconsapevoli delle loro convinzioni sull’essenza dell’ingroup, spesso pensano e agiscono come se le differenze tra i gruppi costituissero dei muri invalicabili che prevengono la loro mescolanza. In base a questa affermazione, si suggerisce di enfatizzare in alcuni casi l’importanza della cultura e, in altri, di focalizzarsi invece sulla natura umana, nella descrizione dei diversi gruppi: questo contrasterebbe l’essenzialismo, porterebbe ad una riduzione degli effetti dell’infraumanizzazione e, nel lungo termine, potrebbe condurre a risultati ancora più ambiziosi come la fine delle giustificazioni per il razzismo. In accordo con quanto detto sulla deumanizzazione, si evidenzia inoltre come invece di enfatizzare le differenze e le dissimilarità tra gruppi si dovrebbe insistere sulla complementarietà e sull’universalismo, enfatizzando la comprensione, l’accettazione e l’interesse per il benessere di tutti gli esseri umani anche quelli con un modo di vivere diverso dal nostro. Per superare i confini intergruppi e ridurre i conflitti, può risultare importante anche promuovere un’identità trascendente comune, come evidenziato da Kelman (1999) nel conflitto tra Israeliani e Palestinesi: secondo l’autore, per riuscire a raggiungere la pace, questa identità trascendente non deve rimpiazzare l’identità tipica di ogni gruppo, ma si deve sviluppare parallelamente. Il mantenere la propria identità è importante per il bisogno della distintività psicologica postulata dalla teoria dell’identità sociale e dal modello della distintività ottimale. Anche Gaunt (2009) esamina la prospettiva di ricategategorizzazione partendo dal modello dell’identità comune dell’ingroup, che rende l’essenza dei gruppi quasi insignificante: egli sottolinea che, quando è possibile instaurare un’identità comune reale e quando ciò non costituisce una semplice coalizione contro un terzo gruppo, questo risulti particolarmente valido nel ridurre l’essenzialismo. Quindi, da un lato l’universalismo può impedire una visione erronea e razzista delle differenze tra gruppi, e dall’altro bisogna facilitare la flessibilità nell’appartenenza agli stessi, rendendo la differenziazione ingroup/ outgroup meno rigida: la cooperazione e l’identità comune possono essere usate entrambe per ridurre l’infraumanizzazione.

Riguardo ai simboli comuni, come già trattato, le emozioni secondarie rivestono per i membri dell’ingroup il ruolo di simbolo; l’interagire con un outgroup che esprime emozioni secondarie, e che tenta quindi di convincere l’ingroup di poter condividere gli stessi simboli può risultare controproducente, aumentandone il rifiuto. Tutto ciò è stato dimostrato sperimentalmente da Vaes, Paladino, Castelli, Leyens e Giovanazzi (2003) e può apparire come un paradosso, in quanto molte ricerchesull’acculturamento hanno mostrato che le società ospitanti preferiscono l’assimilazione dei nuovi membri, a patto che questi ultimi adottino valori e stili di vita dell’ingroup. Di conseguenza, non ci sarebbe un muro di differenze tra i gruppi, ma solo uno standard che appartiene all’ingroup e che deve essere rispettato. Il paradosso sta proprio nel fatto che esprimere queste somiglianze facilita l’accettazione e l’assimilazione, ma il possedere emozioni secondarie è invece un simbolo la cui unicità non può essere condivisa. Questa netta distinzione tra assimilazione ed unicità umana incondivisibile porta a pensare che è inutile combattere le convinzioni irrazionali come la piena umanità dell’ingroup cominciando da subito ad assumere la stessa prospettiva; i simboli non possono essere conquistati ma possono essere “donati”, e l’universalismo rende quelli irrazionali superflui. Per Leyens et al. (2007) quindi ci sono valori e simboli utili in quanto servono a distinguere il proprio ingroup, ma per abbattere i muri delle differenze tra i gruppi bisogna “sgonfiare” i credo essenzialistici ed i simboli irrazionali tramite strategie come l’universalismo ed i valori egalitari. Ovviamente non è facile questa condivisione dei simboli, e le somiglianze momentanee anche se rafforzate da valori egalitari possono non essere sufficienti a diffondere un’identità condivisa di tipo trascendente (Kelman, 1999).

Per quanto riguarda i contatti deprovincializzati, anche nel caso dell’infraumanizzazione, il contatto intergruppi risulta essere il miglior predittore di relazioni armoniose, specialmente quando è promosso dai gruppi dominanti e quando le condizioni sono quelle ottimali stabilite da Allport (1954): contatto informale, senza membri stereotipici degli outgroup, assenza di competizione e gerarchia, presenza di un supporto istituzionale. Pettigrew (1997) raccomanda anche un contatto deprovincializzato, in cui si riconosca il punto di vista dell’altro, che decentri la visione etnocentrica delle persone per accettare le specificità degli altri. La conoscenza, l’amicizia e la familiarità predicono l’umanizzazione dell’outgroup, e quindi il contatto intergruppi specialmente se deprovincializzato può combattere l’infraumanizzazione. Leyens et al. (2007) sottolineano che non è importante il contatto di per sé, ma la sua qualità: la sola conoscenza non è sufficiente a ridurre l’infraumanizzazione, ma deve essere accompagnata necessariamente da amicizia e similarità. Il contatto deve quindi rispettare i valori egalitari, altrimenti porta ad antagonismo, sfiducia, antipatia ed evitamento, che sono tutti potenziali fattori che promuovono l’infraumanizzazione. Una politica di successo basata su contatto ed amicizia intergruppi è rappresentata dal programma Erasmus, finalizzato alla diffusione di conoscenza e all’accettazione delle culture straniere: il progetto, inizialmente ristretto a studenti universitari che vivevano (per sei mesi o un anno) in un’università straniera, oggi coinvolge anche insegnanti e persone al di fuori dell’università ed è stato adottato da altre nazioni escluse dalla CE (come Svizzera e Stati Uniti).

In questo paragrafo sono state descritte diverse strategie di riduzione della deumanizzazione e dell’infraumanizzazione; vi è comunque una forte necessità di sperimentare anche altre strategie, stabilendo dei percorsi di umanizzazione diversi in base al target, alle caratteristichedi chi deumanizza, ai contesti dove ciò avviene e alle conseguenze che comporta (Haslam & Loughnan, 2014).

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

 

Le conseguenze di deumanizzazione e infraumanizzazione

Le conseguenze di deumanizzazione e infraumanizzazione

Secondo Haslam e Loughnan (2014), le conseguenze della deumanizzazione possono essere suddivise in quattro gruppi:

• la riduzione dei comportamenti pro sociali;

• l’incremento dei comportamenti antisociali;

• gli effetti sul giudizio morale;

• gli aspetti funzionali.

Per quanto concerne la riduzione dei comportamenti prosociali, essa può avvenire sia a livello individuale che collettivo. Vaes et al. (2002) hanno mostrato che le persone rispondono in maniera prosociale a coloro che si descrivono in termini di emozioni secondarie, poiché essi vengono percepiti come “più umani”.

In contrasto, i membri dell’ingroup tendono a discriminare i membri dell’outgroup (non fornendo loro alcun tipo di aiuto) perché li vedono come mancanti di emozioni unicamente umane. A livello collettivo ciò si manifesta con una minore propensione all’aiuto verso coloro che hanno subito atrocità, in quanto la percezione dell’outgroup come meno umano porta ad una minor empatia verso di esso e consente una maggior giustificazione per le loro sofferenze (Zebel, Zimmermann, Viki & Doosje, 2008). Inoltre, sia la deumanizzazione sia l’infraumanizzazione possono agire riducendo il perdono intergruppi: ciò è stato dimostrato in contesti come quello Nord Irlandese (Tam, Hewstone, Cairns, Tausch, Maio & Kenworthy, 2007), dove, in caso di infraumanizzazione, c’è una minore propensione al perdono dell’altro gruppo e, in particolare, eventuali scuse da parte dell’outgroup non vengono accolte se espresse in termini di emozioni secondarie (Haslam & Loughnan, 2014).

Gli effetti più evidenti della deumanizzazione sono sicuramente l’incremento degli atti antisociali, che riguardano soprattutto azioni violente ed aggressive. Ad esempio, ciò è stato rilevato nel bullismo nei bambini, che deumanizzando la propria vittima provano sia meno sensi di colpa precedenti sia meno rimorsi successivi ad un’eventuale aggressione. Anche percepire nemici e criminali come meno umani porta ad altre conseguenze negative, che possono andare da un maggior supporto ad azioni violente, ad una maggiore propensione alla tortura e ad azioni maggiormente punitive: ad esempio, la deumanizzazione dei criminali porta a sentenze dure e punitive indipendentemente dalla gravità del crimine commesso (Bastian, Jetten, Chen, Radke, Harding & Fasoli, 2013).

Come verrà trattato nel dettaglio nel capitolo 3, la deumanizzazione comporta effetti anche sul giudizio morale: in particolare, persone che sono percepite con un basso livello di agency (ovvero la capacità di autocontrollo e pianificazione) vengono giudicate mancanti di responsabilità morale, mentre a quelle con un basso livello di experience (ovvero la capacità di percepire e provare emozioni) vengono negati alcuni diritti umani come quello di essere protetti dalle aggressioni. Come evidenziato da Bastian e Haslam (2011), ciò dipende dalla percezione di umanità: le persone a cui mancano i tratti unicamente umani vengono viste come non giustificabili e meritevoli di punizione, mentre le persone a cui viene negata la natura umana vengono giudicate come meno degne di protezione e capaci di riabilitazione.

Le conseguenze viste finora sono tutte di natura negativa, ma ci sono casi in cui la deumanizzazione può anche risultare “vantaggiosa”, come è stato evidenziato da due studi in ambito medico. Il primo (Lammers & Stapel, 2011) fa riferimento a trattamenti più dolorosi ma più efficaci verso alcuni pazienti cui viene negata la natura umana; il secondo (Vaes & Muratore, 2013), basato anch’esso su pazienti fittizi, si riferisce, invece, ad una riduzione dei sintomi di burnout che sperimentano gli operatori sanitari che umanizzano in minor misura le sofferenze di un malato terminale. Ovviamente, queste affermazioni vanno prese con la dovuta cautela, poiché l’empatia e l’umanizzazione hanno effetti positivi e predominanti sul trattamento dei pazienti.

Anche Leyens et al. (2007) analizzano le conseguenze dell’infraumanizzazione: essa, soprattutto se associata ad elevata identificazione con il proprio gruppo, ha come conseguenza la riluttanza/negazione ad accettare i misfatti passati commessi dal proprio ingroup, perpetuando il rancore intergruppi ed interferendo sulla piena riconciliazione di gruppi precedentemente in conflitto.

L’outgroup viene infraumanizzato dall’ingroup solo se quest’ultimo è ritenuto responsabile delle sue sventure (Castano & Giner-Sorolla, 2006), portando quindi ad una giustificazione del triste destino delle altre nazioni. Inoltre l’infraumanizzazione, come si è detto, predice una minore propensione al perdono intergruppi, fattore cruciale per l’armonia. Il contatto intergruppi frequente e di buona qualità comunque, costituisce un fattore che può incidere positivamente su questo processo, in quanto più si entra in relazioni armoniose con l’outgroup, maggiore sarà la propensione a considerarlo come umano e quindi a perdonare i suoi membri.

Viene evidenziato anche come il legame tra l’infraumanizzazione e la moralità possa essere cruciale nel mantenere la discordia tra i gruppi: il fatto che le emozioni secondarie (positive e negative) vengano considerate proprie dell’ingroup fa sì che le persone possano considerare come simbolo di piena umanità anche quelle prettamente negative ed immorali (come odio e mancato rispetto), e quindi accettarle come caratteristiche dell’ingroup. Inoltre, diverse ricerche effettuate su Arabi, Israeliani ed Ebrei hanno suggerito che i membri dei gruppi dominanti hanno più difficoltà ad abbandonare l’infraumanizzazione rispetto a quelli di basso status. Ciò è importante perché, mentre la teoria di giustificazione del sistema (Jost & Banaji, 1994) postula che i gruppi di basso status accettano la loro posizione ed i valori del gruppo dominante, la teoria dell’identità sociale (Tajfel, 1981) propone alcune variabili che spiegano come e quando gli individui dei gruppi di basso status tentano di innalzare la propria posizione sociale. Tra queste variabili si distinguono strategie oggettive (quindi atti tangibili di cambiamento sociale come le rivolte) e strategie simboliche (cioè cambiamenti di mentalità con la potenzialità di generare azioni tangibili): ad esempio, membri di gruppi stigmatizzati possono cambiare il valore attribuito ad una dimensione. Tra le soluzioni simboliche di innalzamento del valore dell’ingroup gli autori includono, il fenomeno dell’infraumanizzazione, in quanto pensare che gli altri siano meno umani può condurre ad una identità sociale positiva. Per i gruppi di basso status l’infraumanizzazione può avere una serie di conseguenze reali (Leyens et al., 2007): credere in una superiorità fondata su un’unica essenza umana rafforza la coesione del gruppo, che si percepisce come più forte e capace di fronteggiare le minacce esterne, e incrementa l’identificazione, rendendo i membri più leali verso l’ingroup e meno propensi all’adozione di strategie personali come la mobilitazione individuale. Inoltre, secondo Leyens et al.(2007), può facilitare alcune condizioni che nel lungo termine possono portare ad azioni collettive. Così come le conseguenze dell’infraumanizzazione possono portare dei benefici a lungo termine sui gruppi di basso status, bisogna considerare il possibile effetto opposto sui gruppi ad alto status. La storia ci porta esempi di regni (come l’impero Romano, così convinto della propria essenza superiore da negare il potere emergente di gruppi opposti) che sono miseramente crollati proprio per aver considerato se stessi come gli unici detentori dell’essenza umana.

Infine Leyens et al. (2007) discutono del ruolo dei media, che spesso riportano le notizie in maniera infraumanizzante. Ciò porta naturalmente ad un circolo vizioso che conduce ad un incremento dell’infraumanizzazione, in particolare verso alcuni gruppi etnico/sociali o verso categorie di persone che hanno un particolare impatto mediatico, come i criminali.

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

 

 

 

Quando le persone deumanizzano?

Quando le persone deumanizzano?

Questo aspetto, già trattato in questo capitolo per quanto riguarda l’infraumanizzazione, viene analizzato separatamente per il caso della deumanizzazione da Haslam e Loughnan (2014). Secondo tali autori le condizioni in cui si verifica la deumanizzazione sono molteplici, ma i fattori principali includono stati emozionali, motivazionali, cognitivi, e aspetti situazionali, sociali e strutturali.

Relativamente agli stati emozionali, la propensione al disgusto è associata alla tendenza alla deumanizzazione: gruppi che inducono disgusto sono più soggetti ad essere deumanizzati. Buckels e Trapnell (2013) evidenziano come un disgusto indotto sperimentalmente produca un’associazione implicita maggiore tra l’outgroup e gli animali, più di quanto possa indurre la tristezza o un umore neutro.

Per quanto riguarda gli stati motivazionali, quelli analizzati da Haslam e colleghi (2014) sono principalmente quattro: la connessione sociale, le motivazioni sessuali, il desiderio di equità morale ed i processi di protezione dell’ingroup. Lo studio della connessione sociale mostra che così come un bisogno sociale insoddisfatto porta all’attribuzione di mente ad entità non umane, persone con connessioni sociali numerose e soddisfacenti sono più soggette a deumanizzare outgroup distanti. Il ruolo delle motivazioni sessuali è studiato mediante la percezione che gli uomini hanno delle donne oggettivate, mostrando che le donne sessualizzate vengono più facilmente associate ad animali.

Relativamente al desiderio di equità morale, è stato dimostrato che c’è una tendenza maggiore alla deumanizzazione di outgroup che hanno una storia sofferta nel caso in cui al proprio ingroup siano state assegnate delle responsabilità: in questo caso, il negare umanità o moralità alle proprie vittime storiche evita il senso di colpa collettivo ed una percezione negativa dell’immagine del proprio ingroup. I processi di protezione dell’ingroup, infine, fanno sì che le persone tendano a giudicare anche gli attributi negativi del proprio ingroup come maggiormente umani, indipendentemente dal favoritismo verso l’ingroup; ciò rende il proprio gruppo maggiormente giustificabile (in quanto “umano”), e quest’effetto si intensifica se l’identità di gruppo è minacciata.

Riguardo ai fattori cognitivi, sono stati analizzati in particolare l’egocentrismo e “l’abstract construal” (come gli individui percepiscono, interpretano e comprendono il mondo attorno a loro) come moderatori dell’effetto interpersonale di auto-umanizzazione, nel quale gli altri sono visti meno umani di se stessi (Haslam & Bain, 2007). Gli aspetti situazionali fanno invece riferimento alla percezione di minaccia, che porta ad una tendenza maggiore alla deumanizzazione. Inoltre, la percezione di minaccia può moderare gli effetti della deumanizzazione e la conseguente tendenza all’aggressività. Ad esempio, nello studio di Viki, Osgood e Phillips (2013), i partecipanti che percepivano una maggiore minaccia nei Musulmani, e che quindi li deumanizzavano maggiormente, mostravano anche una maggiore tendenza alla tortura dei prigionieri di guerra. Anche la minaccia esistenziale della morte è coinvolta nell’infraumanizzazione, in quanto l’attribuzione preferenziale di attributi unicamente umani a sé e all’ingroup è un modo, secondo la teoria di gestione del terrore (Greenberg, Solomon & Pyszczynski, 1997), per combatterne la paura.

Infine, l’unico fattore sociale e strutturale che è stato analizzato è quello del potere, che è riscontrabile in vari ambiti tra cui quello medico (Lammers & Stapel, 2011): i medici che sperimentano una situazione di potere hanno infatti maggiore tendenza a deumanizzare pazienti, provando su di loro trattamenti più dolorosi, anche se più efficaci. Un altro esempio è nell’ambito scolastico, dove è stato osservato che studenti a cui sono stati assegnati ruoli di potere valutano i loro compagni come mancanti di tratti unicamente umani. E’ interessante notare come questo effetto non dipenda né dalla presenza di un rapporto gerarchico né dal tipo di attività (cooperativa o competitiva).

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

 

La tendenza e deumanizzare e infraumanizzare gli altri

La tendenza e deumanizzare e infraumanizzare gli altri

Anche se la capacità di vedere gli altri come meno umani può essere universale ed è riscontrabile anche nei bambini (Costello & Hodson, 2013; Vezzali, Capozza, Stathi & Giovanni, 2012), ci sono varie differenze di personalità, credo, ideologie e atteggiamenti che rendono alcune persone più soggette a deumanizzare. Secondo Haslam e Loughnan (2014) uno dei più importanti predittori di tipo ideologico è quello dell’orientamento alla dominanza sociale (SDO, Hodson & Costello 2007). Come evidenziato dagli autori, l’SDO è un importante predittore della deumanizzazione verso gli immigrati, mentre altri studi hanno dimostrato il suo legame con la deumanizzazione verso rifugiati e vittime di guerra. In questi studi, l’SDO è associato alla deumanizzazione più di quanto lo sia l’autoritarismo di destra, in quanto dipende più dalla dominanza sociale che dalla conformità sociale e dalla percezione di minaccia. Ad esempio, i livelli di SDO dei genitori bianchi predicono le tendenze dei loro figli a deumanizzare i bambini neri (Costello & Hodson, 2013). Haslam e colleghi (2014) hanno analizzato anche il ruolo delle credenze, dimostrando che le persone che percepiscono una divisione maggiore tra uomini e animali sono più soggette alla deumanizzazione razziale. Nella fattispecie, questa convinzione promuove la visione che gli esseri umani “inferiori” siano in qualche modo bestiali, giustificandone la discriminazione.

L’ultimo set di variabili riconducibili alla tendenza alla deumanizzazione è rappresentato dagli atteggiamenti, che sono stati analizzati solo in relazione alla percezione delle donne. È stato dimostrato che il sessismo ostile predice la negazione di umanità ai target femminili (Viki & Abrams, 2003), e più nello specifico si negano loro le emozioni positive unicamente umane; per i sessisti benevoli avviene esattamente il contrario. A conferma di ciò vi sono due studi: il primo evidenzia come a livello neurale i sessisti ostili abbiano un’attivazione minore delle regioni dell’attribuzione di stato mentale quando vedono donne sessualizzate (Cikara, Eberhardt & Fiske, 2011); il secondo, invece, dimostra come il sessismo ostile non sia correlato con l’associazione implicita con animali o oggetti nel caso di donne non sessualizzate (Rudman & Mescher, 2012). In definitiva, la deumanizzazione è collegata a quattro aspetti diversi delle differenze individuali (Haslam & Loughnan, 2014):

    • caratteristiche ostili e sgradevoli, inclusi tratti di psicopatia, narcisismo, credo nazionalistico e atteggiamenti ostili;
    • avversione emotiva verso persone non familiari;
    • posizioni ideologiche e gerarchiche dell’SDO e alle convinzioni di dominio umano sugli animali;
    • disconnessione sociale o carenza empatica, visto anche il legame con i tratti autistici.

Anche Leyens e colleghi, nella teoria dell’infraumanizzazione, analizzano le caratteristiche individuali o collettive che incidono sulla propensione ad infraumanizzare, citando in particolare in nazionalismo (Leyens et al., 2007), distinguendolo dal patriottismo, in quanto non consiste solamente nell’orgoglio percepito per il proprio ingroup (legato comunque ad una forte identificazione), ma anche nella denigrazione degli outgroup. Inoltre, evidenziano come un’alta identificazione con l’ingroup sia necessaria perché si sviluppi l’infraumanizzazione: chi non presenta un forte legame affettivo o cognitivo con l’ingroup meno probabilmente percepisce che il confine arbitrario tra ingroup e outgroup comporti una minor essenza umana di quest’ultimo. In tutti gli studi analizzati (tra cui Viki & Calitri, 2008), viene evidenziato come chi ha un elevato grado di identificazione con il proprio gruppo presenta maggiore possibilità di infraumanizzare.

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

 

Target deumanizzati e infraumanizzati

Target deumanizzati e infraumanizzati

I ricercatori hanno documentato il fenomeno della deumanizzazione considerando una serie numerosa di gruppi target, tra cui possono essere citati gruppi etnici (in cui la deumanizzazione viene considerata una forma di etnocentrismo), gruppi razziali e gruppi che non hanno una diversa etnicità bensì mostrano differenze di tipo sociale e storico-culturale. Inoltre, espandendo la gamma di soggetti deumanizzati, sono state osservate altre forme latenti di deumanizzazione con gruppi occupazionali (disoccupati), persone appartenenti a basse classe sociali, pazienti, malati mentali, maniaci sessuali, criminali violenti e omosessuali (Haslam & Loughnan, 2014). Una categoria frequentemente soggetta a deumanizzazione è quella delle donne. Alcuni studi confermano che focalizzarsi sull’apparenza delle donne a discapito della personalità porta a percepirle come mancanti di natura umana (e quindi di tratti come valore e competenza), soprattutto se i loro corpi vengono sessualizzati: se in alcuni casi tutto ciò porta a percepirle come più simili agli animali (Vaes, Paladino & Puvia, 2011), in altri esse vengono assimilate ad oggetti inanimati, privi cioè della natura umana (Heflick, Goldenberg, Cooper & Puvia, 2011).

Finora abbiamo analizzato la deumanizzazione come un processo che riguarda individui e gruppi nei confronti di altri gruppi, ma secondo Haslam e Loughnan (2014) essa può avvenire anche a livello individuale. Ciò porta l’individuo ad attribuirsi più umanità rispetto agli altri (effetto auto-umanizzante); inoltre, se si verificano alcune condizioni, può anche avvenire una autodeumanizzazione, ovvero una percezione di minor umanità di se stessi. Essa è riscontrabile soprattutto in chi ha subito o subisce episodi di esclusione sociale (Bastian & Haslam, 2011), che mostra la tendenza a definirsi come mancante di alcuni tratti della natura umana.

Ma quali sono dunque gli elementi in comune dei target deumanizzati? Per rispondere a questa domanda Haslam e Loughnan (2014) citano alcuni esperimenti che esaminano la percezione verso molteplici gruppi. Il primo di questi (Harris & Fiske, 2006) è basato sul modello del contenuto degli stereotipi (SCM) e mostra che la corteccia mediale prefrontale, legata alla cognizione sociale, si disattiva con membri di gruppi appartenenti al quadrante basso-basso, ovvero caratterizzati da un basso valore percepito sia riguardo al calore sia alla competenza. Questo avviene durante il contatto con persone che appartengono alle classi sociali più basse, come ad esempio barboni o drogati. Analogamente, Vaes e Paladino (2010) rilevano che gli Italiani del Nord infraumanizzano diversi gruppi etnici, in particolare quelli stereotipati a cui vengono attribuiti minor calore e competenza. Anche Vaes e Paladino (2007) analizzano, tramite l’SCM, la funzione di moderazione dello status dei gruppi sull’infraumanizzazione.

Effettuando un’analisi sistematica su prototipicità di ingroup e outgroup, umanità e valenza, essi trovano come i diversi outgroup vengono distribuiti lungo due dimensioni ortogonali (calore e competenza); inoltre, la prototipicità dell’ingroup è predetta dall’umanità percepita così come le differenze di tipicità tra ingroup e outgroup (mostrando infraumanizzazione).Le caratteristiche valutate tipiche per gli outgroup bassi sia in calore sia in competenza sono quelle percepite come meno umane. Inoltre, diversi studi evidenziano anche come i gruppi vengono infraumanizzati anche in assenza di un aperto conflitto: per la scuola di pensiero di Leyens il conflitto non è una condizione necessaria, anche se in caso di conflitti lievi viene ad aumentare la possibilità di infraumanizzazione. Di fatto, visto che lo status non modera l’infraumanizzazione e che non è necessario un conflitto aperto, nessun gruppo è escluso dalla tendenza ad essere infraumanizzato, e ciò rende particolarmente complicato il fenomeno perché non solo è molto diffuso ma può anche essere difficile da individuare. Secondo Leyens et al. (2007) l’infraumanizzazione avviene anche verso i gruppi di altro status; essa è legata però solamente alle emozioni secondarie e non agli altri tratti della natura umana. In ogni caso, lo status non permette di predire i livelli di deumanizzazione: nello studio di Rodriguez-Perez, Delgado-Rodriguez, Betancor-Rodriguez, Leyens e Vaes (2011), l’attribuzione di emozioni secondarie ai membri di 27 gruppi diversi non risulta correlata con la percezione dello status di questi gruppi. Leyens et al. (2007) ne deducono che i gruppi dominanti usano più criteri di deumanizzazione rispetto a quelli dominati, giudicando questi ultimi meno umani sia sulla dimensione del calore (ovvero le emozioni secondarie) che su quella della competenza (ovvero le proprietà definite da Haslam come appartenenti alla natura umana).

Uno studio condotto nel contesto italiano (Capozza, Andrighetto, Di Bernardo & Falvo, 2012) suggerisce che tra gli attributi di calore e competenza siano questi ultimi ad essere più rilevanti; inoltre i gruppi di basso status sono deumanizzati più facilmente e, poiché la deumanizzazione avviene solo dall’alto verso il basso, le differenze intergruppi basate su stereotipi collegati alla competenza moderano la deumanizzazione. Gli autori infatti dimostrano che i gruppi di alto status deumanizzano implicitamente i gruppi di basso status, che invece non si percepiscono affatto come più umani dei gruppi di alto status (generando un’asimmetria). In conclusione, i target bassi-bassi (sia in termini di calore che di competenza) sono i più vulnerabili. La deumanizzazione verticale è legata allo status sociale e alla dominanza, mentre le altre forme di deumanizzazione orizzontale sono basate sulla distanza e sulla disconnessione tra gruppi; un esempio di questo fenomeno è nella medicina, dove i pazienti vengono trattati con un distacco emozionale (Lammers & Stapel, 2011).

Secondo Haslam e Loughnan (2014) un ruolo fondamentale è svolto anche dalla familiarità con l’outgroup, infatti gli effetti di deumanizzazione maggiori vengono riscontrati per gruppi che sono socialmente più distanti, o per quelli subordinati (ad esempio, in un rapporto schiavo-padrone). Secondo Leyens e colleghi (2007) invece ciò è legato alla rilevanza dell’outgroup, che viene descritta come una sorta di interdipendenza sociale tra i due gruppi: più essa è elevata (e quindi i due gruppi sono vicini geograficamente e “costretti” alla coesistenza con conseguenze reciproche) e maggiore è la probabilità che avvenga deumanizzazione.

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

 

Le diverse forme di deumanizzazione e infraumanizzazione

Le diverse forme di deumanizzazione e infraumanizzazione

Esistono due diverse forme di deumanizzazione: la prima è esplicita, manifesta e percepibile dal soggetto deumanizzato, mentre la seconda è una forma subdola, implicita e inconscia (Haslam & Loughnan, 2014). La prima forma presenta delle metafore esplicite che associano il gruppo alla mancanza di umanità, per cui vengono espressi giudizi assoluti sul gruppo deumanizzato.

Essa perciò è una forma radicale di svalutazione dell’altro che viene completamente escluso dall’umanità e ridotto, secondo i processi descritti, ad animale o oggetto. Queste forme più esplicite e violente di deumanizzazione sono direttamente offensive verso il target e vengono espresse tramite il linguaggio.

Ad esempio, Tileag? (2007) ha osservato come i cittadini Rumeniinsultano mediante il linguaggio gli zingari che abitano in Romania. Haslam, Loughnan & Sun (2011) dimostrano che le metafore animaliste sono chiara espressione di degradazione e disgusto. La seconda forma di deumanizzazione (implicita, inconscia e latente) si manifesta mediante l’attribuzione di tratti meno umani, ed implica giudizi relativi verso i gruppi. Queste sottili negazioni di totale umanità non hanno bisogno, per manifestarsi, di situazioni di ostilità sociale, ma accompagnano la vita quotidiana senza che il target ne abbia consapevolezza.

Tale forma di deumanizzazione è paragonabile all’infraumanizzazione descritta da Leyens e colleghi (2007), che però ne considerano solamente gli aspetti legati alle caratteristiche unicamente umane delle emozioni secondarie.

Un metodo utile per identificare la forma implicita di deumanizzazione è l’utilizzo delle scale self-report, che valutano le percezioni relative a devianti (“sono come gli animali”, Bandura, Barbaranelli, Caprara, Pastorelli, 1996), nemici (“i terroristi sono come vermi da sterminare”, Jackson & Gaertner, 2010) e gruppi etnici (“gli indiani erano come dei selvaggi prima dell’arrivo dell’uomo bianco”, Castano & Giner-Sorolla, 2006). Ma dove si trova il confine tra esplicito ed implicito? La forma più rilevante di deumanizzazione “sottile” è appunto l’infraumanizzazione che viene inclusa da Haslam e colleghi (2014) tra i processi di deumanizzazione animalistica: nella sua concezione di deumanizzazione tutte le varie forme, siano esse manifeste o latenti, fanno parte dello stesso fenomeno.

Per Leyens e colleghi (2007), come detto, deumanizzazione e infraumanizzazione sono, invece, processi distinti; anche l’infraumanizzazione però può essere deliberata o inconsapevole. Usando misure implicite si è trovato che si associano più rapidamente le emozioni secondarie all’ingroup rispetto all’outgroup. Questo risultato mette in luce quanto questo fenomeno sia radicato e quanto, dunque, possa risultare minaccioso a livello sociale (a causa delle sue conseguenze comportamentali negative nei confronti dell’outgroup), nonostante essa rappresenti una forma di bias più sottile e meno estremo delle deumanizzazione.

Per dimostrare il modello dell’infraumanizzazione, Leyens et al. (2007) effettuano uno studio della relazione tra ingroup/outgroup, emozioni secondarie ed umanità basato sulle seguenti ipotesi (Figura 1):

•    Esistono caratteristiche riconosciute come unicamente umane;

•    La relazione con questi attributi è più forte per l’ingroup rispetto all’outgroup.

Figura 1 – Le ipotesi alla base del modello di infraumanizzazione di Leyens  et al. (2007)

Nella loro rassegna di studi vengono analizzati diversi esperimenti che hanno testato separatamente queste relazioni e che verranno ora discussi nel dettaglio.

Caratteristiche unicamente umane (Collegamenti B-C e B’-C’). Per valutare l’umanità dei gruppi, è stato chiesto a studenti Spagnoli, Belgi di lingua francese (Leyens et al., 2000) e Portoghesi (Miranda & Gouveia-Pereira, 2006) di descrivere, mettendo in ordine decrescente, le caratteristiche unicamente umane che caratterizzano la propria razza. Al primo posto gli studenti hanno indicato l’intelligenza e le parole associate al ragionamento, mentre al secondo posto troviamo termini associati al linguaggio (come ad esempio la comunicazione) o la parola “sentimenti”. Si nota come gli studenti non abbiano mai utilizzato la parola “emozione”, poiché essa viene ritenuta non unicamente umana a differenza dei sentimenti, che al contrario sono considerati unicamente umani. Ma qual è la differenza tra le parole sentimenti ed emozioni? La risposta ci viene fornita da uno studio condotto in diverse culture (Demoulin, Leyens, Paladino, Rodriguez, Rodriguez & Dovidio, 2004), con ragazzi di quattro lingue diverse: Inglese, Fiammingo, Francese e Spagnolo. È stato loro chiesto di ordinare una lista di parole emozionali, sia positive che negative, in una serie di quesiti sulle caratteristiche umane ed animali. Una delle domande centrali era: “pensi che la capacità di vivere questa emozione sia solo per gli umani o anche per gli animali?”. Dai risultati dello studio è emerso che le emozioni unicamente umane sono valutate come meno intense, meno visibili, più interiori, più lunghe e soggette ad apparire più avanti negli anni. Ciò mostra un legame positivo tra emozioni secondarie e umanità e, dato che nel modello dell’infraumanizzazione vi è un legame positivo tra umanità e ingroup (A-C), deve necessariamente esserci un’associazione positiva anche tra ingroup ed emozioni secondarie (AB). Quest’associazione inoltre è più forte di quella tra gli outgroup e le emozioni secondarie (A’-B’) visto che per ipotesi si suppone che l’umanità dell’outgroup sia considerata minore di quella dell’ingroup (A’-C’). Per quanto riguarda le emozioni primarie, invece, non è stata riscontrata una differenza sostanziale tra la loro associazione con l’ingroup o con l’outgroup, suggerendo che queste emozioni non vengano percepite come esclusivamente umane. E’ interessante notare come nello studio citato si parli di emozioni secondarie in generale, il che vuol dire che all’ingroup vengono associate maggiori emozioni secondarie, sia positive che negative, rispetto all’outgroup. Questo ci permette di distinguere il fenomeno dell’infraumanizzazione dal favoritismo per l’ingroup, in cui le persone attribuiscono solo caratteristiche positive al proprio gruppo. In conclusione, l’infraumanizzazione consiste nell’attribuzione di più emozioni secondarie (sia positive che negative) ai membri dell’ingroup, mentre ciò non succede per le emozioni primarie. Bisogna quindi valutare, visto che la definizione comparativa di umanità mette in contrasto l’essere umano con gli altri animali, se in caso di infraumanizzazione si estenda anche agli outgroup infraumanizzati l’associazione con gli animali (Viki, Winchester, Titshall, Chisango, Pina & Russell, 2006).

Collegamento preferenziale delle emozioni secondarie agli Ingroup (links A-B e

A’-B’). Le ipotesi dell’infraumanizzazione sono state testate tramite differenti paradigmi sperimentali. I più interessanti sono i seguenti.

    1. Associazioni implicite dell’ingroup con le emozioni unicamente umane. L’ipotesi che vi sia un collegamento privilegiato tra ingroup ed emozioni secondarie è stata confermata grazie all’utilizzo dello IAT (Paladino et al., 2002), un test composto da due fasi, in cui i partecipanti devono associare emozioni primarie o secondarie rispettivamente all’ingroup (fase compatibile) ed all’outgroup (fase incompatibile). Misurando la latenza delle risposte nei due tipi di blocchi di prove, si è trovato che le persone rispondono più rapidamente quando l’ingroup è associato alle emozioni secondarie, e l’outgroup viene associato alle emozioni primarie. Altri esperimenti confermano queste ipotesi.
    2. Attribuzioni esplicite di emozioni unicamente umane all’ingroup. Diversi esperimenti hanno testato se queste specifiche emozioni si adattino meglio all’ingroup rispetto all’outgroup. Il metodo più diretto (Castano & Giner-Sorolla, 2006; Delgado, 2007) consiste nell’elencare 26 parole relative a: emozioni secondarie, emozioni primarie, competenza e socialità (tre con significato negativo, tre positive), intelligenza e talento. Viene chiesto ai partecipanti di elencare, tra queste, 10/12 caratteristiche ritenute prototipiche dell’ingroup e altrettante dell’outgroup. Si è notato come vengano attribuite più emozioni secondarie all’ingroup (sia positive sia negative) mentre ciò non accade per le emozioni primarie; inoltre, i gruppi di alto status sono giudicati superiori sia sull’intelligenza che sul talento, mentre i gruppi di basso status sono valutati equivalenti all’outgroup su questi due tratti, ma inferiori riguardo alla competenza. 3) Riluttanza ad attribuire le emozioni unicamente umane all’outgroup.

Visto che i membri dell’ingroup considerano l’umanità una loro proprietà, essi potrebbero reagire negativamente se i membri dell’outgroup esprimessero emozioni tipicamente umane, poiché tutto ciò potrebbe essere percepito come una minaccia (Branscombe et al., 2005). Queste conseguenze sono state studiate da Vaes, Paladino e Leyens (2002) che hanno utilizzato la tecnica della lettera perduta di Milgram. I risultati mostrano che solidarietà e gentilezza, a parità di altre condizioni, variano nella relazione con un membro dell’outgroup o dell’ingroup; inoltre, anche quando un membro dell’outgroup si mostra amichevole, se questi dimostra delle emozioni secondarie, vi è la tendenza a reintrodurre i confini invisibili che lo separano dal proprio ingroup.

Ingroup totalmente umano (links A-C e A’-C’). Nello studio di Boccato, Capozza, Falvo e Durante (2008), realizzato nello stesso contesto intergruppi che verrà analizzato nella sperimentazione oggetto della tesi (la relazione tra Italiani Settentrionali e Meridionali), a studenti del Nord Italia venivano mostrate, per ogni prova, figure umane oppure di scimmia (a livello subliminale), e veniva successivamente chiesto loro di rispondere ad un compito di decisione lessicale. Le parole critiche erano rappresentate da nomi propri tipici del Nord oppure del Sud Italia. I risultati mostrano che i partecipanti erano più veloci nel rispondere a nomi del Nord Italia se essi erano stati preceduti dall’immagine di una faccia umana, mentre non vi era differenza tra nomi settentrionali e meridionali se erano preceduti dal volto di una scimmia; si dimostra, quindi, la maggiore associazione dell’ingroup, rispetto all’outgroup, con l’umanità.

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa