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La sindrome dell’impostore

La sindrome dell’impostore è ciò che ci mette i bastoni tra le ruote.

 

La sindrome dell’impostore, quella sensazione che forse anche chi sta leggendo ha, che i successi siano arrivati per sbaglio, che non si siano davvero meritati e che qualcun* potrebbe scoprirlo in ogni momento e smascherarci.

Il lavoro pionieristico che ha scoperto la sindrome dell’impostore è quello delle studiose Pauline Clance e Suzanne Imes che, nel loro pionieristico lavoro di analisi di 250 donne con eccelsi risultati accademici erano convinte che i risultati fossero arrivati per un errore, uno sbaglio della commissione.

Questo lavoro parla di donne e della difficoltà che esse hanno nel raggiungere determinati risultati. Donne che raggiungono voti eccelsi, standard di formazione e training elevatissimi, ma che continuano a credere che ci sia stato un errore, che loro non meritino i risultati che hanno ottenuto.

Negli studi originali viene riportata la situazione di una delle donne prese in carico che, arrivata alla discussione di tesi di dottorato, era finalmente sollevata del fatto che avrebbe fallito e avrebbe smesso di essere “un’impostora”, dopo tutti quegli anni in cui era evidente che era lì senza meritarselo.

Deaux (1976) esplora per prima la presenza della sindrome dell’impostore in donne e uomini e nota, con grande meraviglia, varie cose:

  1. le donne hanno internalizzato perfettamente lo stereotipo per il quale non possono raggiungere determinati risultati eccelsi quanto gli uomini;
  2. mentre gli uomini attribuiscono il loro successo a delle capacità interne e abilità le donne lo attribuiscono a un caso fortuito, a un errore della commissione che le sta giudicando, sentendosi impostore;
  3. il fallimento per gli uomini viene vissuto come causato da una situazione esterna (un compito troppo difficile, troppo poco tempo) mentre per le donne viene visto come una mancanza di qualità e caratteristiche interne (non sono abbastanza intelligente, non sono sufficientemente preparata);
  4. nonostante i ripetuti successi la donna rimane comunque convinta che i traguardi che ha raggiunto non siano farina del suo sacco e che prima o poi la scopriranno per quello che è.

Le studiose sono andate ad analizzare le differenti tipologie di famiglie in cui le donne sono cresciute e in cui è germinata la sindrome dell’impostore. Sostanzialmente ne hanno trovate di due tipologie. La prima famiglia in cui la persona più intelligente tra fratelli e sorelle non era lei ma sempre qualcun altro che, in realtà, aveva sempre successi e riconoscimenti minori dei suoi. La seconda in cui lei stessa era la persona più intelligente, capace, bella di tutte le altre, i cui genitori dicevano che sarebbe riuscita a raggiungere qualunque cosa, così alla prima cosa non raggiunta sono crollate.

I differenti tipi di esperienze familiari portano allo stesso risultato, con la differenza che nel primo caso nelle donne rimane comunque la voglia di riuscire a farcela, nonostante sappiano che non sono mai abbastanza per il loro obiettivo. Nel secondo caso, invece, le donne si sentiranno sempre non in grado di farlo e sempre sull’orlo del tracollo e di essere scoperte.

La sindrome dell’impostore è un problema solo femminile?

La risposta è: no!

Da delle review che raggruppano tutti gli studi che trattano l’argomento (a prescindere dallo strumento utilizzato per misurarlo e dall’età del campione preso in considerazione) hanno trovato dei punti molto interessanti che dobbiamo assolutamente tenere a mente.

Innanzi tutto la sindrome dell’impostore si può trovare trasversalmente sia negli uomini che nelle donne, in quasi egual misura. La sindrome dell’impostore si presenta solo in tempistiche e in modi differenti per gli uni e per gli altri, ma li affligge allo stesso modo.

Un particolare interessante emerso da questi studi è che la sindrome affligge maggiormente le minoranze etniche.

Da dove nasce il fenomeno della sindrome dell’impostore.

La sindrome radicata all’interno delle nostre culture in modo profondo e che iniziamo a internalizzare all’incirca intorno ai 7/10 anni d’età.

E’ quello il momento in cui viene insegnato che ruolo abbiamo nella nostra società, in cui impariamo che cosa deve fare una donna e che cosa deve fare un uomo, in cui apprendiamo che chi è diverso da noi deve essere trattato in modo diverso.

Le disparità si radicano dentro di noi e ci insegnano che dobbiamo avvicinarci ad uno standard culturale che ci viene imposto altrimenti non saremo mai dei veri uomini e delle vere donne.

Ad esempio Margaret Mead (1947) osserva che una donna di successo e indipendente è vista come “una forza ostile e pericolosa all’interno della società”. Gli studi di Martina Horner’s (1972) che supportano i risultati e le osservazione di Margaret Mead, vedono il fatto che i successo per una donna sia fonte di paura e disagio. I suoi studi suggeriscono che, spesso, per paura di essere rigettate dalla società ed essere considerate meno femminili, non ci provano neanche.

Gli uomini, probabilmente, si trovano ad affrontare il risvolto dello stesso stereotipo. Laddove è l’uomo che deve portare avanti la cultura patriarcale, essere sempre infallibile e non mostrare alcun segno di cedimento è evidente che, al primo inevitabile scricchiolio che a tutti accade nelle vite, inizia ad instillarsi il dubbio di non avere le qualità per essere nel punto in cui si è.

Un problema culturale radicato in molte persone che si trovano ad essere convinte di non meritare quello che hanno e che, un giorno o l’altro, verranno scoperte da chi en sa più di loro. Due lati dello stesso problema, seppur in forme differenti, che si ripercuote sulle vite delle persone.

Allo stesso modo le minoranze etniche hanno lo stesso problema. Esse, infatti si vedono in base allo stereotipo della stessa minoranza, che non può rivestire determinate posizioni di rilievo o ottenere dei risultati importanti.

Quali sono i sintomi della sindrome dell’impostore?

Questa sindrome causa una serie di sintomatologie che a lungo andare posso portare a situazioni gravi come il burnout.

C’è un alto tasso di comorbidità con depressione, ansia, una bassa stima di sé stessi, sintomi somatici e disfunzione sociale. Negli studi ce hanno coinvolto gli studenti universitari c’era un alto tasso di persone con pensieri suicidari o con degli effettivi tentativi precedenti di suicidio.

Anche lo stesso burnout porta con sé tutta una serie di problematiche e sintomatologie molto gravi.

Bisogna quindi stare molto attenti perché questa sindrome strisciante e dilagante, che affligge tutte le persone all’interno di una società è pericolosa.

Che cosa fare in caso di sindrome dell’impostore?

Far emergere questa sindrome non è facile anche nei confronti di noi stessi. Ammettere che crediamo che i nostri risultati non siano merito nostro è qualcosa di complicato da raggiungere, figuriamoci dirlo anche a qualcun altro.

Il sapere che, in qualche modo, siamo tutti sulla “stessa barca” dovrebbe aiutare a smorzare la tensione. Serve a vedere nell’altra persona non più un competitor ma qualcun* che nel profondo può capirci e vive le stesse cose che viviamo noi.

Andare a parlare con un* psicolog* è un passaggio fondamentale per andare alla radice della sindrome, per riuscire a sbarazzarsene una volta per tutte.

Un modo molto utile con cui si può agire all’interno delle aziende è creare dei gruppi di confronto. Qui le persone si possano parlare liberamente e condividere le proprie difficoltà lavorative e parlare della sindrome stessa. Il sapere che anche le altre persone la vivono come te è rincuorante, permette di non sentirsi soli e isolati come invece accade per la sindrome.

La sindrome dell’impostore fa parte di quello che in PNL chiameremmo ‘credenza limitante’, una credenza profondamente radicata in noi che non ci permette di crescere e di goderci la nostra vita. E’ una situazione che può non solo impedirci di raggiugnere il nostro risultato e obiettivo ma anche che, una volta raggiunto, ci impedisce di goderne i frutti. Chi ne soffre non prova quel senso di ‘scopo nella vita’ che dovremmo invece riuscire a raggiungere.

Il primo passo è renderci conto che la sindrome esiste, anche se non ha ancora una voce a sé stante in nessun manuale diagnostico. Prendere consapevolezza che potremmo averla anche noi e chiedere aiuto parlandone con qualcuno e un professionista sono le tappe obbligate per riuscire a raggiungere i nostri obiettivi.

 

Bibliography:

  1. Levy, N. (2022). Impostor syndrome and pretense. Inquiry, 1-16.
  2. Chakrabarti, A., & Finkelstein, L. M. (2022). Are All High-Potentials Successful Leaders? Exploring the Underlying Effect of Impostor Syndrome and Evaluative Concerns on the Relationship Between HiPo Designation and Leadership Self-Efficacy. 
  3. Hook, G. (2022). It’s NOT Luck: Mature-Aged Female Students Negotiating Misogyny and the ‘imposter Syndrome’in Higher Education. In The Palgrave Handbook of Imposter Syndrome in Higher Education (pp. 465-480). Palgrave Macmillan, Cham.
  4. Clance, P. R., & Imes, S. A. (1978). The imposter phenomenon in high achieving women: Dynamics and therapeutic intervention. Psychotherapy: Theory, Research & Practice, 15(3), 241–247. https://doi.org/10.1037/h0086006
  5. Bravata, D.M., Watts, S.A., Keefer, A.L. et al. Prevalence, Predictors, and Treatment of Impostor Syndrome: a Systematic Review. J GEN INTERN MED 35, 1252–1275 (2020). https://doi.org/10.1007/s11606-019-05364-1
I quit!

Il fenomeno dei licenziamenti di massa

I licenziamenti di massa sono una problematica che sta toccando anche il nostro paese.

Chiamata originariamente ‘The Great Resignation’, i licenziamenti di massa, è un fenomeno che vede, dal 2021, un numero crescente di persone licenziarsi dal proprio posto di lavoro.

E’ un fenomeno peculiare sotto vari punti di vista. In primis per il fatto che le persone hanno cambiato il proprio modo di comportarsi riguardo al lavoro e in secundis perchè le aziende si trovano a confrontarsi con le lacune che hanno per tantissimo tempo spazzato sotto il tappeto sperando che sparissero.

Ne abbiamo già parlato molte volte prima, in un’ottica di benessere del personale, di che cosa abbia bisogno una persona per stare bene all’interno di una realtà aziendale. Il tutto poi rientra sotto l’ombrello del concetto di benessere e clima organizzativo (Avallone).

La cura della persona per il suo benessere e non lo sfruttamento dell’essere umano finalizzano all’esclusivo guadagno aziendale, con conseguente impoverimento organizzativo.

Le aziende non si riescono a tenere le persone perchè non le curano, perchè ancora, nonostante ci siano i mezzi e gli strumenti per dare valore al proprio capitale umano, li vedono come ingranaggi da sfruttare. Così le persone si licenziano.

Quali sono i comportamenti che fanno sentire i dipendenti sfruttati?
  • Non condividere gli obiettivi aziendali, o gli obiettivi del gruppo di lavoro, con loro
  • Non dare dei premi produzione a tutti (e non come generalmente viene fatto, solo al reparto commerciale)
  • Non salutare, non vedere, non conoscere mai nessuno dei propri dipendenti (sembra una cosa scontata ma abbiamo ho scoperto, con grande imbarazzo non esserlo)
  • Offrire solo ciò che è obbligatorio per legge
  • Non curarsi delle dinamiche interne dei gruppi e lasciare che il mobbing e il burnout dilaghino negli uffici.

La soddisfazione della persona scende, non si sente capita, ascoltata, si trova in un ambiente che diventa sempre più ostile e a nessuno interessa.

Ovviamente la persona se ne va. E quando questo succede su grande scala le persone si licenziano in massa. Perchè la cultura organizzativa è qualcosa che viene pienamente condiviso, trasversalmente, da differenti aziende.

Che cosa dovrebbe fare l’azienda per tenersi i propri dipendenti?
  • Interpellarli e ascoltarli. In fondo sono loro che sanno perchè se ne stanno andando, perchè non chiederglielo?
  • Dargli delle formazioni e dei servizi in più, che contemplino la cura mentale e fisica della persona
  • Fare attenzione ai rapporti interni dei vari gruppi
  • Eseguire delle analisi di clima ogni tot tempo
  • Trovare modalità per motivare i porpri dipendenti e farli sentire parte della stessa squadra.
Possono sembrare tutte cose scontate, che potreste trovare anche nei Baci Perugina, eppure dalla nostra esperienza abbiamo visto che le varie organizzazioni non si rendono conto di problematiche semplici.

Si parte da un piccolo neo per arrivare ad un tremendo problema insormontabile, in questo caso di licenziamenti di massa.

Dalla parte delle persone, dei dipendenti, ci possono essere varie motivazioni che hanno comportato il loro licenziarsi in massa.

Innanzi tutto la situazione che ho elencato prima, quello che le aziende fanno e non fanno, ha sempre pesato e pesa tutt’ora sul personale. Il fatto che le aziende non si prendano cura delle persone al proprio interno è un qualcosa che il dipendente sa e, finalmente e giustamente, non gli va più giu.

Bisogna dare attenzione ai propri dipendenti e al porprio team, è su di loro che si basa la nostra azienda e da cui dipendono successo e fallimento.

D’altro canto una realtà pandemica della durata infinita e dal termine incerto hanno portato le persone a modificare le porprie priorità. Molti si sono resi conto che il mondo frenetico, questa continua corsa consumistica ad aumentare sempre di più, non gli permetteva di fare molte altre cose nella vita.

Si sono accorti che, rimanendo a casa a lavorare e avendo più tempo per loro, non avevano più tanta voglia di recarsi in un ambiente lontano quando potevano benissimo svolgere il porprio lavoro dal salotto.

Molti hanno trovato nello stare in casa la loro dimensione.

Quali possono essere stati i vantaggi di questo smartworking obbligato e, per certi versi, positivo?

Possiamo provare a fare qualche ipotesi, ad esempio che le persone:

  • si sono potute organizzare il lavoro e le tempistiche della giornata lavorativa come più si confaceva a loro
  • hanno potuto somministrarsi un orario flessibile
  • hanno scoperto che possono restare in contatto con le persone con cui vogliono mantenere i rapporti ugualmente anche da casa
  • si sono potute allontanare da ambienti tossici
  • hanno ritrovato l’importanza di restare in una comfort zone, dove possiamo essere noi stessi e svilupparci
  • hanno perso l’interesse per ambienti che non rispettavano loro stessi

Nonostante tutte le pecche che può avere la situazione di lavoro da casa, ha indubbiamente notevoli vantaggi, sia per la persona singola che per la natura e lasocietà.

Quindi, concludendo riguardo alla questione dei licenziamenti di massa, non solo sono cambiate le proiorità delle persone, in modo lampante e generalizzato, è anche cambiato il mondo in cu queste priorità si sviluppano.

Bisogna rimettersi in pari a quelle che sono le nuove necessità, il nuovo mondo del lavoro e dei dipendenti, capire cosa dare e come darlo.

Vedremo quali realtà metteranno in pratica queste accortezze.

Ecosistema azienda

Ecosistema azienda

Ecosistema azienda
Necessità di accrescere l’ecosistema azienda e il proprio capitale umano

Come vedi la tua azienda? Come una macchina produci soldi o come un ecosistema?

La tua concezione di essa influenza moltissimo non solo le tue credenze a tal proposito ma anche il tuo stile manageriale. Contemplare l’azienda una macchina per soldi farà sì che verrà trattata come una macchina. Contemplarla come un’azienda ecosistema invece come un essere vivente.
Nel 1997 Arie de Geus, business executive e teorico, scrisse “The Living Company”. Agli inizi del del XXI secolo si domandava se il cambiamento storico risultasse solo in una mera aggiunta di tecnologie, o fosse anche un cambiamento di paradigma e idee su come concepire l’industria stessa. Nel suo articolo parla di come al termine dell’Era del Capitalismo la vera ricchezza non sia più il capitale monetario, né il lavoro, né tanto meno le risorse.

Il fattore critico di produzione sono le persone. Perché queste persone costruiranno assieme al resto l’ecosistema azienda.

Uno studio di Shell, conforme agli studi di de Geus, ha riscontrato che leFortune 500 (una lista annuale che classifica le maggiori imprese statunitensi), guidate come “macchine”, degli anni 1970 siano morte nel 1983 e abbiano una lunghezza di vita media inferiore ai 25 anni.

Peter Senge scrive come il nuovo management si debba fondare su una tensione creativa e il nuovo leader diventi un designer. In questo senso il leader disegna il core base delle credenze e dei valori dell’azienda che strutturano il cuore pulsante.

Le vecchie compagnie continuano ad essere orientate verso un pensiero ormai datato centrato sul capitale monetario, quando ormai è chiaro a tutti che dovrebbero ottimizzare il proprio capitale umano. Ne sono un esempio le nuove aziende IT, cariche di menti con idee nuove che spopolano. Nel mentre che noi continuiamo a ragionare in una redistribuzione di soldi e a chiederci perché la nostra rete di sicurezza sociale non comprenda un intero strato della popolazione in Giappone le compagnie che producono automobili hanno alzato l’asta di assunzione a 16 anni di istruzione scolastica. Il nuovo mondo ha necessità di una redistribuzione delle conoscenze

I nuovi vincitori nell’economia si possono vedere nelle compagnie e nelle partnership con poco capitale iniziale e altissimo capitale umano. Quello che viene ancora insegnato nelle Università di Economia e che è nella mente comune:

  • razionale: punti a massimizzare i profitti minimizzando i costi
  • calcolabile: che la sua razionalità possa essere espressa in numeri
  • controllabile: che il capitale umano al suo interno sia sostituibile creando un’illusione di controllo manageriale.

Queste vecchie conoscenze danno un tracciato pericoloso da perseguire e fallimentare. Ormai i tempi sono cambiati e l’azienda fa curata come un ecosistema complesso.

Le nuove compagnie moderne sono una comunità ricca di menti che massimizza, per avere successo, la sua capacità mentale.
Creare una comunità e creare le condizioni perché possa lavorare al meglio non è né facile da controllare, né calcolabile, né tanto meno razionale.

Questa nuova economia richiede una presa in carico del proprio capitale umano. Richiede che le persone inserite in azienda siano scelte con cura e formate per essere insostituibili. Quello che fa davvero la differenza sono le idee all’interno dell’azienda, le capacità e il modo di confrontarsi e insegnarle.

In questa logica l’azienda diventa un vero e proprio organismo, un complesso ecosistema, che va curato dalla sua nascita, nutrito e seguito. Secondo studiosi della biologia evolutiva americani le aziende rispondono agli stessi meccanismi di selezione evolutiva. Infatti le società che sopravvivono sono quelle con più elementi che possono spostarsi e che sono in grado di trasmettersi le conoscenze (Allan Wilson & Co). Secondo questa teoria gli organismi che possiedono queste qualità passeranno attraverso una evoluzione accelerata.

Inoltre in aziende ben piazzate e stabili, troviamo un senso di appartenenza e una lunga continuità. Il manager deve iniziare a ragionare in termini di generazioni.

L’azienda così diventa un fiume, non solo un ecosistema. Non solo è perciò fondamentale l’inserimento della persona giusta ma anche gli aiuti perché sviluppi il suo pieno potenziale. E può farlo creando movimento, spazi di innovazione e sistemi per far sì che le novità si propaghino.

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