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Le emozioni primarie

LE EMOZIONI PRIMARIE

Le emozioni primarie o fondamentali sono emozioni innate, riscontrabili in qualsiasi popolazione perché connesse a scopi quali la sopravvivenza fisica, le relazioni personali, la possibilità di portare a termine le azioni intraprese; risultano comuni all’uomo e agli animali superiori. Le emozioni secondarie o sociali, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie; sono fortemente dipendenti da scopi e capacità cognitive  e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

Le emozioni più frequentemente classificate come fondamentali sono gioia, rabbia, paura, ansia e tristezza, alle quali secondo alcuni studiosi si aggiungono sorpresa, disprezzo, disgusto. Tra le emozioni secondarie più citate vi sono vergogna, senso di colpa, invidia, gelosia.

Nei bambini il nascere e lo svilupparsi delle emozioni segue due ipotesi: l’ipotesi della differenziazione, secondo la quale da un iniziale stato di eccitazione si differenziano nel corso dello sviluppo le specifiche emozioni, e l’ipotesi differenziale, in base alla quale già nel neonato sono presenti alcune emozioni primarie. Le emozioni primarie sono:

GIOIA

La gioia quando arriva ha un potere travolgente. A volte per educazione, modestia, senso di colpa o ansia, stiamo molto attenti a non goderci troppo questo stato d’animo, e quindi il nostro stato mentale è occupato prevalentemente da ciò che non va. Per mantenere salute e benessere, invece, è importante mantenere e prolungare questo stato vitale.

RABBIA

La rabbia è la reazione alla frustrazione. Può essere scatenata da un torto subito, da qualcosa o qualcuno che ostacola la nostra realizzazione personale, dalla paura, ecc. Ha la funzione di rimediare ad un’ingiustizia subita, e cerca di provocare un cambiamento nel comportamento degli altri. Ad essa si aggiunge la rabbia che proviamo quando attribuiamo ad altri la volontà di arrecarci un danno. Alle volte succede che ci arrabbiamo con noi stessi per il fatto di non riuscire ad esprimere la rabbia: restare passivi ferisce la nostra autostima.

PAURA

La paura è la risposta ad un pericolo; nella maggioranza dei casi è legata a sensazioni psicologiche soggettive. Essa si può attivare di fronte ad uno stimolo nuovo, perchè quando non siamo consapevoli delle nostre risorse tendiamo ad evitare la situazione; ma altre paure sono generate in seguito a situazioni già provate e nelle quali abbiamo vissuto una sensazione di blocco e di impotenza.

ANSIA

L’ansia si manifesta con la preoccupazione che qualcosa di negativo accadrà. A differenza della paura, l’ansia non conosce il suo fattore scatenante; non individua un oggetto preciso, è più una sensazione che qualcosa andrà male. A scatenarla può essere un evento improvviso ed impegnativo insieme alla sensazione di non avere le capacità per affrontarlo.

TRISTEZZA

La tristezza si manifesta a causa della perdita di qualcuno o qualcosa; essa ci porta ad assumere un atteggiamento di chiusura, sia a livello psicologico che fisico. Inoltre, la tristezza ci spinge a riflettere: qualcosa non è andato secondo i nostri piani, quindi dobbiamo elaborare la situazione e raccogliere le energie per ripartire.

 

 

 

 

© Chiedimi se sono felice:Analisi del Clima Organizzativo e del suo effetto sulle risorse umane – Dott.ssa Sonia Barbieri

 

La sindrome di Rebecca

Sindrome di Rebecca

 

Questo articolo è tratto dal sito dello Studio Castello Borgia 

La sindrome di Rebecca, o gelosia retroattiva, è una forma di gelosia pervasiva ed ossessiva che quando coinvolge la persona la porta ad immotivati e costanti vissuti negativi riguardo la precedente vita sentimentale del partner.

Chi soffre della sindrome di Rebecca è portato a rimuginare di continuo su eventi dei quali è venuto a conoscenza circa la vita del partner, su particolari che gli sono stati raccontati, elaborando in maniera coattiva pensieri negativi che la portano a disconoscere la realtà dalla immaginazione.

Spesso non sopportano neppure che vengano nominati luoghi o nomi aventi a che fare col passato del partner, diventano irascibili, rabbiosi e vivono intensi vissuti angosciosi di abbandono e tradimento, che difficilmente possono venire placati con rassicurazioni.
Il bisogno di conferme e controllo porta queste persone alla ricerca continua di prove d’amore e attenzioni, che diventano rapidamente soffocanti per il partner, costantemente indagato, osservato, spiato con diffidenza e sospetto. Ogni evento, anche minimo, può diventare dunque motivo di discussioni e liti furiose che, col tempo, aumentano di intensità e di frequenza.

Ovviamente il rapporto è destinato a degenerare: la continua diffidenza, i sospetti e le continue disconferme rivolte al partner, conducono lo stesso verso uno sgradevole vissuto di impotenza ed inadeguatezza ,dal momento che qualunque cosa faccia si rivelerà assolutamente inutile.

Ovviamente il rapporto andrà incontro ad una rottura che “incredibilmente” darà soddisfazione al portatore di tale sindrome, che acquisirà un atteggiamento ancora più diffidente del tipo: “lo sapevo fin dall’inizio che sarebbe successo!”, il tutto senza rendersi minimamente conto di aver inconsapevolmente organizzato nei minimi particolari tale finale.

 

L’articolo è preso dal sito: http://www.studiocastello.it/2018/05/17/sindrome-di-rebecca/

© – Irene Borgia

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La depressione sul lavoro

La depressione sul lavoro

 

Una breve panoramica sul fenomeno della depressione lavoro-correlata e sulle sue cause.

La depressione in Europa è tra le principali cause di astensione dal lavoro, e dunque è importante prenderla in esame quando si trattano i problemi che possono influire sulle performance delle risorse umane in una azienda. Le percentuali più alte di questo disturbo si riscontrano tra le donne (due volte più colpite rispetto al sesso forte), anche se la “malattia” è abbastanza frequente anche tra gli uomini, e la prima insorgenza di un episodio depressivo è più frequente nell’età giovane (dai 20 ai 30 anni).

In Italia, secondo uno studio condotto nel 2012, il 12% dei lavoratori soffre di forme di depressione più o meno accentuate (in difetto rispetto alla media europea, pari al 20% del totale dei lavoratori), dato che si traduce, tra le altre cose, in una media di 23 giorni annui di assenteismo sul lavoro correlato al “mal di vivere”. Questo fenomeno in qualche modo “di massa” è in un certo senso anche “paritario”, poiché colpisce le figure lavorative più varie, qualunque sia il loro grado o posizione ricoperta.

Ma di cosa si tratta? A parole semplici, si può dire che la depressione è una forma di alterazione dell’umore verso forme di profonda tristezza, con riduzione dell’autostima e bisogno di autopunizione. Anche se “su carta” la depressione è una patologia vera e seria, nella quotidianità non è ancora accettata come tale, ed un quarto dei lavoratori malati sceglie di non palesarla in ambito lavorativo per la paura che l’impatto sociale del problema possa compromettere il mantenimento del posto di lavoro. La depressione è inoltre spesso correlata a tutta una serie di altri disturbi, quali attacchi di panico, disturbi ossessivo-compulsivi, anoressia nervosa, bulimia nervosa,  disturbi borderline della personalità; queste situazioni, come ovvio, aggravano le condizioni di disagio e/o inadeguatezza sul lavoro.

Gli effetti della depressione sulla persona che ne è affetta incidono sensibilmente sulle performance lavorative del soggetto, scatenando comportamenti come un perenne senso di colpa, deprezzamento di sé (e dunque poca fiducia in ciò che si fa), isolamento (e dunque incapacità di comunicazione e di lavoro in team).

Diverse tipologie di disturbi influiscono sulla vita lavorativa:

    • disturbi somatici e neurovegetativi: insonnia (con conseguente diminuzione dell’energia e dell’attenzione disponibili durante il giorno), diminuzione dell’interesse (e crollo della motivazione per il lavoro);
    • disturbi dell’affettività: perdita dell’interesse per la vita (quindi perdita di scopo sul lavoro), senso di colpa, inibizione del pensiero e perdita di iniziativa (e dunque crollo di creatività, problem solving, ecc…), autodisprezzo.

I disturbi depressivi derivano da componenti sia biologiche che sociali e relazionali; in particolare, per quanto riguarda la sfera lavorativa, la depressione è favorita dalla mancanza di supporto sociale e da un clima lavorativo ostile; gli ambienti lavorativi tendono ad essere sempre più competitivi ed ansiogeni, lasciando terreno fertile allo sviluppo del disturbo e aggravandolo nel caso sia già presente in un soggetto.

Inutile dire che situazioni relazionali od organizzative non corrette come mobbing (insieme di attività ad alto contenuto persecutorio reiterate nel tempo ed in continua progressione verso un soggetto), straining (situazione di stress forzato in cui la vittima subisce almeno una azione dalla durata costante a cui consegue un effetto negativo nell’ambiente lavorativo), burn out (esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni di aiuto), stalking occupazionale (forma di stalking la cui effettiva attività persecutoria si esercita nella vita privata della vittima, ma la cui motivazione proviene dall’ambiente di lavoro) e stress lavoro-correlato (evento psicosomatico scatenato da sollecitazioni provenienti dall’ambiente lavorativo)  rendono terreno fertile allo sviluppo del fenomeno.

Oltre che dai succitati elementi, la depressione può essere causata anche da eventi scatenanti (ed in questo caso si parla di depressione reattiva): l‘insuccesso nell’affermazione, la frustrazione delle proprie aspettative (magari riguardo una promozione tanto desiderata), un trasferimento non voluto.

Altri fattori tipici dei tempi che corrono che favoriscono il fenomeno sono:

    • la precarietà, e dunque la mancanza di sicurezza nell’impiego;
    • un utilizzo sempre più massiccio dei mezzi tecnologici, come ad esempio i computer, che portano ad instaurare rapporti virtuali;
    • una forte diminuzione del tempo disponibile per la famiglia e per gli affetti legata all’orario unico che troppo spesso si protrae fino alle ore serali per tutte le persone “in carriera”;
    • il cambiamento della cultura dominante (es. l’acquisizione dell’organizzazione da parte di una nuova compagnia).

I soggetti più a rischio disviluppare disturbi depressivi sono:

    • quelli che hanno vissuto esperienze traumatiche della prima infanzia;
    • chi lavora in un luogo lontano dal proprio habitat naturale (dove per habitat si intende l’insieme di luogo, aspetti culturali e relazionali del posto di origine);
    • chi ha problemi familiari (dinamiche conflittuali);
    • chi ha aspettative di successo sproporzionate;
    • chi ha già sofferto di tale disturbo; secondo una ricerca italiana condotta nel 2000 da IDEA, Istituto per la ricerca e la prevenzione della depressione e dell’ansia, il 36% di chi è uscito dalla fase acuta depressiva denuncia una difficoltà persistente relativa al reingresso sociale e lavorativo; dello stesso disturbo soffre anche il 23% dei loro familiari. Il 60% dei soggetti usciti dalla depressione trovano difficoltà nei rapporti di relazione con i colleghi.

La depressione sul lavoro, come appena illustrato, è un fenomeno più sviluppato di quanto si creda e percepisca, e dunque è quantomai importante, per la costruzione di un clima organizzativo favorevole e prospero, cercare di ridurre o alienare le cause che potrebbero favorire o scatenare fenomeni depressivi, oltre a monitorare le risorse umane per riuscire ad intervenire su simili problemi il più possibile nei loro stadi iniziali.

Riferimenti

Battista, I., Depressione: tutti i colori del buio, Roma 2002
Cassano, G.B., E liberaci dal male oscuro, Milano 1998
Ciancrini, L., Dalle parole al dolore. La depressione: conoscerla per guarirla,  Como 1996
Ege, H., Oltre il mobbing, straining, stalking ed altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, 2005
Ehrenberg, A., La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Torino 1999
Kristeva, J., Sole nero. Depressione e malinconia, Milano 1989

www.arealavoro.org
www.depressioneansia.it, luglio 2012
www.esaurimento.it, luglio 2012
ilprofessionistarisolve.tgcom24.it, I lavoratori europei sono depressi e aumentano le assenze al lavoro, novembre 2012
www.ipsico.it, Depressione: sintomi e cura, maggio 2014

© La depressione sul lavoro – Dott.ssa Laura Liguori

 

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Il disturbo post-traumatico da stress (DPTS)

Il disturbo post-traumatico da stress (DPTS)

 

Il  Disturbo Post-traumatico da Stress (secondo il DSM-IV) si sviluppa in seguito all’esposizione ad un evento stressante e traumatico che la persona ha vissuto direttamente, o a cui ha assistito, e che ha implicato morte, o minacce di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri.

Per una diagnosi di PTSD è necessario che i sintomi siano sempre conseguenza di un evento critico, ma l’aver vissuto un’esperienza critica di per sé non necessariamente genera un disturbo post-traumatico.

È denominato anche nevrosi da guerra, proprio perché inizialmente riscontrato in soldati coinvolti in pesanti combattimenti o in situazioni belliche di particolare drammaticità (con nomi e sottotipi diversi: Combat Stress Reactions, Battle Fatigue, Shell Shocks, etc.).

Caratteristiche cliniche

Questo disturbo rappresenta dunque la possibile risposta di un soggetto ad un evento critico abnorme (rapine, violenze, torture, essere stati rapiti o tenuti prigionieri, aver subito abusi (anche nell’infanzia), incidenti d’auto, deragliamenti di treni, disastri aerei, bombardamenti o disastri naturali quali inondazioni o terremotiterremoti, incendi, nubifragi, incidenti stradali, atti di violenza subiti o di cui si è stati testimoni, attentati, azioni belliche, etc.), e in molti casi può essere adeguatamente affrontato in sede clinica attraverso trattamenti psicoterapeutici specifici, diretti sia alla vittima sia (in funzione di supporto, quando necessario e possibile) alla sua famiglia.

È importante ricordare che la maggior parte delle persone, anche se vive eventi potenzialmente traumatici, subisce solo delle reazioni emotive transitorie (“reazioni normali ad eventi anormali”) che, seppur dolorose, raramente si trasformano in un vero e proprio PTSD strutturato.

Il PTSD non colpisce le persone più “deboli” o “fragili”: spesso persone apparentemente “fragili” riescono ad attraversare senza conseguenze eventi traumatici abbastanza importanti, mentre persone “solide” si trovano in difficoltà dopo eventi che hanno un significato personale o simbolico particolarmente difficile da elaborare.

Il PTSD può prodursi a partire da poche settimane dall’evento (anche se sintomatologie similari, definite di ASD/DASdisturbo acuto da stress, possono prodursi anche dalle prime ore post-evento), e perdurare per molto tempo; in altri casi, il disturbo si manifesta ad una certa distanza di tempo dall’evento, anche dopo diversi mesi (PTSD tipo “Delayed Onset”).

Le uniche differenze con il disturbo acuto da stress sono la durata dei sintomi e la presenza di sintomi dissociativi (vedi disturbi dissociativi). Infatti il disturbo acuto da stress ha una durata che varia da pochi giorni a un mese circa, mentre il disturbo post-traumatico ha una durata maggiore; inoltre il disturbo acuto da stress presenta sintomi dissociativi quali l’amnesia dissociativa, la fuga dissociativa, la depersonalizzazione e la derealizzazione.

Le persone con disturbo post traumatico da stress evitano le situazioni che ricordano loro l’avvenimento originale e gli anniversari della data in cui è successo il fatto sono spesso molto difficili da affrontare. I sintomi del disturbo post traumatico da stress sembrano essere peggiori se l’evento che li ha scatenati è stato iniziato deliberatamente da un’altra persona come nel caso di una rapina o in un rapimento.

La maggior parte delle persone con disturbo post traumatico da stress rivive ripetutamente il trauma nei propri pensieri durante il giorno e negli incubi quando dorme. Questi pensieri che fanno rivivere l’evento del passato sono denominati flashback. I flashback possono consistere in immagini, suoni, odori o sensazioni e spesso sono innescati da eventi ordinari, quali chiudere una portiera o da un automobile che lampeggia sulla strada. Una persona che ha un flashback può perdere il contatto con la realtà e credere che l’avvenimento traumatico stia accadendo ancora una volta. Non tutte le persone traumatizzate sviluppano un disturbo post traumatico da stress completo ma anche disturbi di minore entità.

I sintomi solitamente cominciano entro 3 mesi dell’avvenimento ma occasionalmente emergono anche anni dopo. Devono durare più di un mese per essere considerati diturbi post traumatici da stress DPTS. Il decorso della malattia varia; qualcuno recupera entro 6 mesi, mentre altri hanno sintomi che durano molto più a lungo. Per altri ancora questa condizione diventa cronica.

Criteri diagnostici per il Disturbo Post-Traumatico da Stress

A) La persona è stata esposta ad un evento traumatico nel quale erano presenti entrambe le caratteristiche seguenti:

    1. La persona ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri
    2. La risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore. Nota Nei bambini questo può essere espresso con comportamento disorganizzato o agitato.

B) L’evento traumatico viene rivissuto persistentemente in uno (o più) dei seguenti modi:

    1. Ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell’evento, che comprendono immagini, pensieri, o percezioni. Nota  Nei bambini piccoli si possono manifestare giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti il trauma
    2. Sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento. Nota Nei bambini possono essere presenti sogni spaventosi senza un contenuto riconoscibile
    3. Agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando (ciò include sensazioni di rivivere l’esperienza, illusioni, allucinazioni, ed episodi dissociativi di flashback, compresi quelli che si manifestano al risveglio o in stato di intossicazione). Nota Nei bambini piccoli possono manifestarsi rappresentazioni ripetitive specifiche del trauma
    4. Disagio psicologico intenso all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico
    5. Reattività fisiologica o esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.

C)  Evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma e attenuazione della reattività generale (non presenti prima del trauma), come indicato da tre (o più) dei seguenti elementi:

    1. Sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate con il trauma
    2. Sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma
    3. Incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma
    4. Riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative
    5. Sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri
    6. Affettività ridotta (per es., incapacità di provare sentimenti di amore)
    7. Sentimenti di diminuzione delle prospettive future (per es. aspettarsi di non poter avere una carriera, un matrimonio o dei figli o una normale durata della vita).

D) Sintomi persistenti di aumentato arousal (non presenti prima del trauma), come indicato da almeno due dei seguenti elementi:

    1. Difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno
    2. Irritabilità o scoppi di collera
    3. Difficoltà a concentrarsi
    4. Ipervigilanza
    5. Esagerate risposte di allarme

E) La durata del disturbo (sintomi ai Criteri B, C e D) è superiore a 1 mese.

F) Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.

SPECIFICITA’ DEI SINTOMI

(probabilità che un certo sintomo sia assente quando non c’è la diagnosi)

    • Incubi notturni
    • Flashback
    • Tenersi lontano dagli altri
    • Riduzione dell’interesse per le proprie attività
    • Evitamento di cose che ricordano il trauma
    • Intorpidimento delle emozioni
    • Irritabilità
    • Ansia
    • Disturbi della concentrazione
    • Disturbi del sonno
    • Ipervigilanza
    • Trasalire

ALTERAZIONI BIOLOGICHE NEL DPTS

    • Bassi livelli di cortisolo e ipoescrezione 17OHCS
    • Ipersoppressione risposta a DST
    • Iperfunzione cronica tiroidea con T3?
    • Iperreattività SNV a stimoli
    • Elevata frequenza cardiaca
    • Iperattivazione adrenergica periferica
    • Attivazione EEG
    • Alterata neurobiologia del sonno (stadi)
    • Riduzione di volume dell’ippocampo

Interventi terapeutici nel DPTS

Psicofarmacologia (TCA, SSRI, IMAO) Efficacia dimostrata, ma di moderata entità a lungo termine, basso costo
Terapia comportamentale e cognitiva

 

Efficacia dimostrata, costo medio
Terapie psicoanalitiche Efficacia solo a lungo termine in casi particolari, alti costi

Eventi traumatici che coinvolgono direttamente i singoli agenti e volontari (ruolo attivo)

    • Conflitti a fuoco
    • Incidenti stradali
    • Attacchi o rivolte di massa
    • Attacchi terroristici
    • Attentati
    • Scene di violenza

…indirettamente…

    • Disastri naturali
    • Infortunistica stradale
    • Omicidi e ferimenti
    • Morte o ferimento di un collega

© – Andrea Castello – Irene Borgia

 

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2 – Ansia e disturbi d’ansia

Ansia e disturbi d’ansia

 

Molte persone hanno avuto o possono avere un disturbo d’ansia nel corso della propria vita.

L’ansia di per sé è un fenomeno normale, è un’emozione, implica uno stato di attivazione dell’organismo che si attiva quando una situazione è percepita ed interpretata come pericolosa.

Negli esseri umani l’ansia si può tradurre in una spinta ad esplorare l’ambiente nell’intento di trovare spiegazioni, rassicurazioni e/o vie di fuga. Oltre a questo sono presenti una serie di fenomeni neurovegetativi come l’aumento della frequenza del respiro, del battito cardiaco (tachicardia), della sudorazione, le vertigini, ecc..

Tutto questo dipende dal fatto che, supponendo di trovarsi di fronte ad un pericolo reale, l’organismo ha bisogno di recuperare la massima energia (muscolare) a disposizione, per poter scappare, o reagire attaccando nel modo più efficace possibile, scongiurando il pericolo e garantendosi quindi la sopravvivenza.

L’ansia, quindi, non è solo un disturbo, ma rappresenta un’importante risorsa, una condizione fisiologica, utile ed efficace per proteggerci dai rischi, mantenere lo stato di allerta e migliorare le prestazioni.

Quando la reazione ansiogena è eccessiva, ingiustificata o sproporzionata rispetto alle situazioni, siamo di fronte ad un disturbo d’ansia, che può rendere notevolmente difficile la vita di una persona e rendere difficile affrontare anche le più comuni situazioni.

I disturbi d’ansia conosciuti e chiaramente diagnosticabili sono i seguenti:

Disturbo ossessivo-compulsivo

Fobia sociale

Fobia specifica (ragni, cani, gatti, insetti, aereo, spazi chiusi, ristoranti, ecc.)

Disturbo di panico e agorafobia (paura di stare in situazioni da cui non vi sia una rapida via di fuga)

Disturbo da stress acuto o post-traumatico da stress

Disturbo d’ansia generalizzata

© – Andrea Castello – Irene Borgia

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1 – Attacchi di panico e agorafobia

Attacchi di panico e agorafobia

 

Sintomi:

    1. PALPITAZIONI, CARDIOPALMO O TACHICARDIA
    1. SUDORAZIONE IMPROVVISA
    1. TREMORI FINI O A GRANDI SCOSSE
    1. DISPNEA O SENSAZIONE DI SOFFOCAMENTO
    1. SENSAZIONE DI ASFISSIA
    1. DOLORE O FASTIDIO AL PETTO
    1. NAUSEA O DISTURBI ADDOMINALI
    1. SENSAZIONE DI SBANDAMENTO, DI INSTABILITÀ, DI TESTA LEGGERA O DI SVENIMENTO
    1. DEREALIZZAZIONE (IRREALTÀ) O DEPERSONALIZZAZIONE (DISTACCATI DA SÉ STESSI)
    1. PAURA DI PERDERE IL CONTROLLO O DI IMPAZZIRE
    1. PAURA DI MORIRE
    1. PARESTESIE (SENSAZIONI DI TORPORE O DI FORMICOLIO)
    1. BRIVIDI O VAMPATE DI CALORE

Il paziente la descrive come un esperienza improvvisa, inaspettata e terribile, sia la prima volta e spesso le volte successive, ne consegue che la paura di un nuovo attacco diventa immediatamente forte e dominante.

Il singolo episodio,quindi, sfocia facilmente in un vero e proprio disturbo di panico, più per “paura della paura” che altro.

Il paziente si trova rapidamente coinvolto in un terribile circolo vizioso che spesso si porta dietro la cosiddetta “agorafobia”, ovvero l’ansia relativa all’essere in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile o imbarazzante allontanarsi, o nei quali potrebbe non essere disponibile un aiuto, nel caso di un attacco di panico inaspettato.

Diventa così pressoché difficilissimo, se non impossibile, uscire di casa da soli, viaggiare in treno, in autobus, guidare l’auto, stare in mezzo alla folla o in coda, andare al ristorante o ad un cinema o a teatro, e cosi via.

L’evitamento di tutte le situazioni potenzialmente ansiogene diviene la modalità prevalente ed il paziente diventa schiavo del suo disturbo, obbligando di frequente tutti i familiari ad adeguarsi, a non lasciarlo mai solo e ad accompagnarlo ovunque, con l’inevitabile senso di frustrazione che deriva dal fatto di essere “grande e grosso” ma dipendente dagli altri, che può condurre ad una depressione secondaria.

Descrizione dettagliata

Caratteristica essenziale del Disturbo di Panico è la presenza di Attacchi di Panico ricorrenti, inaspettati, seguiti da almeno 1 mese di preoccupazione/paura persistente di avere un altro Attacco di Panico.

Il paziente si preoccupa delle possibili implicazioni o conseguenze degli Attacchi di Panico e cambia il proprio comportamento in conseguenza degli attacchi e dei luoghi ove si sono presentati, principalmente evitando le situazioni e i luoghi in cui teme che essi possano verificarsi nuovamente.

Il primo Attacco di Panico è generalmente inaspettato, si manifesta improvvisamente (come un” fulmine a ciel sereno”, per cui il soggetto si spaventa enormemente e, spesso, ricorre al pronto soccorso.

Per la diagnosi sono richiesti almeno due Attacchi di Panico inaspettati, ma la maggior parte degli individui ne hanno molti di più.

La frequenza e la gravità degli Attacchi di Panico varia ampiamente.

Si deve poter escludere che l’attacco di panico non sia dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (disturbo d’ansia indotto da sostanze) o di una condizione medica generale come ad esempio l’ipertiroidismo e che gli attacchi non siano meglio giustificabili da un altro disturbo mentale.

Ad esempio alcuni individui presentano attacchi moderatamente frequenti (per es. una volta alla settimana), che si manifestano regolarmente per mesi, altri riferiscono brevi serie di attacchi più frequenti  intervallate da settimane o mesi senza attacchi o con attacchi meno frequenti per molti anni.

L’episodio di panico è comune a molti disturbi. Va posta particolare attenzione al processo diagnostico differenziale. Elenchiamo i principali disturbi mentali utilizzati come criteri di esclusione. Qualora l’attacco di panico fosse meglio giustificato da uno dei seguenti disturbi la diagnosi principale sarà il disturbo indicato e non quello di panico, pur ricordando la possibilità di comorbidità (la presenza contemporanea nella stessa persona di più patologie che tra loro non presentano alcun nesso causale).

    • Fobia Specifica
    • Fobia Sociale
    • Disturbo Ossessivo-Compulsivo
    • Disturbo Post-Traumatico da Stress
    • Disturbo d’Ansia da Separazione

L’attacco di panico può essere definito “generalizzato” quando si presenta come il classico “fulmine a ciel sereno” oppure “situazionale” o “sensibile alla situazione” quando l’attacco di presenta in situazioni specifiche o più facilmente in alcune situazioni rispetto ad altre.

Un attacco di panico che si sviluppi esclusivamente in situazioni specifiche è molto probabilmente giustificabile da un altro disturbo mentali come i disturbi fobici ed il disturbo post-traumatico da stress.

Vi sono anche i cosiddetti attacchi paucisintomatici, molto comuni negli individui con Disturbo di Panico, che sono degli attacchi in cui si manifestano soltanto una parte dei sintomi del panico, senza esplodere in un vero attacco. La maggior parte degli individui con attacchi paucisintomatici, tuttavia, hanno avuto Attacchi di Panico completi in qualche momento nel corso del disturbo.

Gli individui con Disturbo di Panico mostrano caratteristiche preoccupazioni o interpretazioni sulle implicazioni o le conseguenze degli Attacchi di Panico. Alcuni temono che gli attacchi indichino la presenza di una malattia non diagnosticata, pericolosa per la propria vita (per es., cardiopatia, epilessia). Nonostante i ripetuti esami medici e la rassicurazione possono rimanere impauriti e convinti di avere una malattia pericolosa per la vita. Altri temono che gli Attacchi di Panico indichino che stanno “impazzendo” o perdendo il controllo, o che sono emotivamente deboli.

La preoccupazione per il prossimo attacco o per le sue implicazioni sono spesso associate con lo sviluppo di condotte di evitamento che possono determinare una vera e propria Agorafobia, nel qual caso viene diagnosticato il Disturbo di Panico con Agorafobia.

Trattamento terapeutico: Cenni

La psicoterapia è consigliabile affiancata, nei casi più gravi, da trattamento farmacologico.

È auspicabile una psicoterapia in cui il paziente svolga un ruolo attivo nella soluzione del proprio problema e, insieme allo psicoterapeuta, si concentri sull’apprendimento di modalità di pensiero e di comportamento più funzionali, nell’intento di modificare gli schemi del panico.

La terapia farmacologica degli attacchi di panico, (consigliabile in affiancamento alla psicoterapia), si basa fondamentalmente su due classi di farmaci: benzodiazepine e antidepressivi, spesso impiegati in associazione.

Nelle forme lievi la prescrizione di sole benzodiazepine può essere sufficiente. Le molecole più adoperate sono l’alprazolam, l’etizolam, il clonazepam, il lorazepam.

Tra gli antidepressivi si sono mostrati efficaci i triciclici – TCA – (es clorimipramina, imipramina, desimipramina), gli Inibitori delle mono amino ossidasi (IMAO) e gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina – SSRI – (es citalopram, paroxetina, fluoxetina, fluvoxamina, sertralina).

Quest’ultima classe, rispetto alle precedenti, presenta minori effetti collaterali.

Nei casi che non rispondono agli SSRI, possono essere impiegati i TCA, anche se molti clinici utilizzano tali molecole come terapia di primo impiego.

Gli IMAO, pur essendo farmaci molto efficaci, sono quasi del tutto caduti in disuso per i gravi effetti collaterali che possono presentarsi qualora vi fosse l’associazione di alcune molecole o non venissero rispettate le restrizioni alimentari prescritte.

© – Andrea Castello – Irene Borgia

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