Le indagini difensive: il ruolo dello psicologo

Le indagini difensive: il ruolo dello psicologo

Su autorizzazione dell’autrice Dott.ssa Chiara Vercellini, tratto da http://www.psicologiagiuridica.com/

La strategia della linea di difesa può essere illustrata sfruttando alcune teorie psicologiche di riferimento. Diverse ricerche mostrano come i pregiudizi nascano facilmente e creino le condizioni per una loro realizzazione. Ad esempio, G. W. Allport, nel 1954, pubblicò un ampio volume dal titolo “La natura del pregiudizio”, nel quale esaminò il problema, fornendo una delle opere più complete sull’argomento. Una delle conclusioni a cui lo studioso giunse, implica che il gruppo dominante di una società spesso ha delle idee stereotipate riguardo ad una porzione minore della popolazione e si comporta di conseguenza. Inoltre, facendo riferimento alle teorie di Watzlavick (1976), si evince che è possibile considerare la realtà in due modi: la realtà fenomenica, che riguarda la realtà delle cose e delle persone suscettibile di convalida sperimentale, ripetibile, verificabile e confutabile; e la realtà sociale, che riguarda i giudizi valutativi che attengono alle persone e ai rapporti tra di esse. I meccanismi cerebrali (per esempio, conformità, suggestione, identificazione, reciprocità, contrasto percettivo, pregiudizio, ecc.) se, da un lato, facilitano l’interazione sociale, dall’altro filtrano il giudizio e creano il fraintendimento verso i comportamenti nostri e altrui, falsificando, modificando e creando ex novo i segnali da cui si traggono le inferenze (Rossi, 2005). Infatti, da diversi studi, emerge che l’interpretazione del mondo è diversa per ognuno, poiché ogni individuo legge e spiega la realtà secondo schemi personali (De Cataldo, Gulotta, 1996).

Nel caso in esame, l’incarico dato al consulente psicologo fu quello di osservare e indagare l’ambiente in cui ebbe luogo la vicenda. A tal fine, interrogò due persone molto vicine alla famiglia dell’imputato e che lo conoscevano a fondo da molti anni. Lo scopo di queste testimonianze fu quello di raccogliere informazioni relative al contesto in cui viveva l’uomo; descriverne il carattere, gli atteggiamenti, le abitudini e i modi di fare; capire l’origine delle accuse nei suoi confronti e permettere di effettuare un confronto fra gli stili di vita delle persone dentro e fuori al “clan”.

La prima persona che venne sentita fu un’amica di lunga data dell’indagato. Ella lo descrisse in maniera molto caratteristica, specificando che, anche a causa della sua passione verso il mondo dell’arte, egli fosse, da sempre, attratto “dal bello”e che questa passione si traducesse, spesso, in apprezzamenti anche nei confronti di giovani adolescenti, tant’è che, sovente, ci scherzavano sopra (“Guarda che se continui così, penseranno che sei un pedofilo!”). Quando si trattò di approfondire le circostanze di accusa, la signora confermò il fatto che questa persona, effettivamente, giocasse molto spesso con i bambini e si relazionasse a loro usando molto la dinamica del contatto fisico, ma che il tutto era assolutamente innocente, poiché era una caratteristica tipica del suo carattere e i giochi si svolgevano sempre sotto gli occhi di tutti, non in luoghi appartati o nascosti. Spiegò, inoltre, come nacque il “contagio” di idee e sospetti nei confronti dell’uomo. Fu in grado di farlo poiché, non solo conosceva profondamente lui, ma frequentava anche le persone che avevano fatto partire la denuncia. La sua idea era che il fraintendimento fosse nato a causa del comportamento molto esuberante dell’uomo, che contrastava con i comportamenti e i modi di fare a cui erano abituate le altre persone. Inoltre, permise di ridimensionare anche alcuni fatti, poiché presente ad essi. Ad esempio, non era vero che i bambini fecero il bagno completamente nudi. Semplicemente, essendo estate, faceva molto caldo, e i ragazzini si tolsero le magliette per giocare più liberamente. Il secondo teste interrogato dal consulente della difesa era un’altra amica storica dell’assistito. Lei raccontò le origini del “clan”. Alla nascita della primogenita dell’uomo, anche le altre coppie di amici cominciarono ad avere bambini e, per esigenze di lavoro, cominciarono a ritrovarsi e guardarsi i figli a vicenda. Da qui, vista la concezione molto liberale e aperta dell’uomo verso la famiglia (che comunque teneva sempre nella più grande considerazione e rispetto), la nascita del “clan” fu quasi automatica, anche perché i membri appartenevano tutti allo stesso ambiente e alla stessa cultura. Le cose cominciarono a cambiare intorno al 2003, quando avvennero le prime separazioni e i primi divorzi fra i membri del “clan”, con il conseguente ingresso nel gruppo di persone “estranee”.

Per cui, mentre il lavoro dell’avvocato si indirizzò maggiormente sui fatti, le indagini dello psicologo si concentrarono sulle testimonianze e permisero di:

    • delineare gli aspetti del carattere e dei comportamenti dell’indagato;
    • capire quali potessero essere i risvolti psicologici del comportamento dell’uomo e le reazioni ad esso;
    • capire il modo di ragionare e di guardare la realtà delle persone esterne al “clan”;
    • evidenziare il pregiudizio delle persone;
    • proporre indagini allargate ai diversi contesti di riferimento e scandagliarne le diverse culture;
    • effettuare un confronto fra i due diversi ambienti di appartenenza delle perone implicate nei fatti;
    • indagare il fenomeno sociale che c’era dietro, confrontando l’ambiente familiare più “alternativo” da un lato e l’ambiente familiare più “tradizionale” dall’altro,
    • capire se le persone, che vivevano una determinata situazione, fossero a conoscenza anche dell’altra realtà;
    • dimostrare che non si trattò di menzogna vera e propria, ma di una diversa lettura della realtà, che portò a dichiarare quello che si pensò fosse accaduto, visto con le lenti della cultura di riferimento;
    • chiarire le dinamiche del “contagio” rispetto alle voci sul presunto abuso;
    • trovare possibili spiegazioni alternative alla denuncia, legate al clima di paura, timori e sospetto che si respirava in quel periodo, alla luce dei contemporanei fatti di cronaca; – spostare l’attenzione non tanto sul fatto in sé, quanto sul contesto in cui il fatto si inseriva; – ricontestualizzare tutta la vicenda.

 

 

 

© L’assistenza del consulente psicologo alle indagini difensive dell’avvocato: l’esame testimoniale – Dott.ssa Chiara Vercellini

 

 

 

 

 

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Studio Castello Borgia

Scuola di Formazione in Psicologia