ARTICOLO 4 – VERSO UNA DEFINIZIONE

Il mobbing è interpersonale per natura (Salin, 2003) e in questa situazione psicosociale, è possibile individuare tre attori/protagonisti.

 

Essi assumono, in genere, i ruoli di:

  • mobber, ovvero la persona che attua il mobbing inteso come azione psicosociale ai danni di qualcuno;
  • il mobbizzato, colui che subisce il mobbing, quindi la vittima;
  • il side-mobber o co-mobber, cioè gli spettatori dell’azione psicosociale che si svolge sotto i loro occhi o, a volte, grazie anche alla loro complicità (Favretto e Sartori, 2005).

 

Esso si evolve da un’interazione dinamica tra due parti almeno (Salin, 2003): il mobber e il mobbizzato. Il ruolo del primo può essere interpretato da un’unica persona, da due o più persone coalizzate o da un’intera organizzazione (Ege, 1997) declinando il concetto a ciò che può essere anche chiamato mobbing aziendale o mobbing strutturale (Neuberger, 1999 in Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper, 2003), cioè quella gamma di comportamenti che l’azienda attua per far espellere il dipendente dall’organizzazione.

 

Il mobbing viene principalmente affrontato seguendo due approcci: la più comune teoria dello stress, che lo vede come forma pesante di stressare sociale al lavoro, oppure la teoria del conflitto, che vede il mobbing come un conflitto sociale irrisolto che ha raggiunto livelli alti con un aumento di disequilibrio di potere tra le parti (Zapf e Gross, 2001).

 

Offrire una definizione univoca di mobbing sembra essere difficile, ma anche se si vengono a trovare in letteratura varie proposte per la concettualizzazione del fenomeno, si possono individuare alcuni elementi che vengono sottolineati nelle varie definizioni date:

 

–    il destinatario delle vessazioni;

–    la tipologia dei comportamenti coinvolti;

–    la frequenza e la durata di questi comportamenti;

–    il disequilibrio di potere tra le parti;

–    l’intenzionalità del mobber.

Bersagli delle vessazioni

 

Secondo Niedl (1995), il punto centrale del mobbing rimane sulla percezione soggettiva della vittima che giudica quegli atti ripetuti come ostili, umilianti e intimidatori e diretti alla propria persona. La frequenza degli atti possono essere considerati mediamente offensivi da un individuo o possono essere percepiti come abbastanza gravi da altri tanto da far sorgere accuse ufficiali. Questo riflette la discussione sul ruolo della valutazione soggettiva nelle teorie dello stress psicologico.

 

Generalmente, si può sostenere che possono esisteredifferenze di genere delle vittime, rintracciando nel genere femminile una percentuale maggiore di individui soggetti al mobbing e nel genere maschile una percentuale maggiore di soggetti perpetratori del mobbing. Questo fenomeno può essere giustificato dal fatto che le donne vengono educate ad essere meno autoassertive e meno aggressive e tendono ad essere più servizievoli degli uomini (Biörkqvist, 1994 in Zapf, Einarsen, Hoel e Vartia, 2003). Nonostante rimanga un sostanziale corpo di evidenze che dimostrano che generalmente le donne riportano più problemi di salute che gli uomini dopo essere state vittime del mobbing (Niedl, 1996 e Hoel e Cooper, 2000 in Rayner, Hoel e Cooper, 2002), esempi provenienti da alcuni nazioni e da alcuni ambiti lavorativi mostrano un quadro più bilanciato sul genere.

 

Anche gli appartenenti a gruppi minoritari che differiscono dal gruppo principale nelle loro caratteristiche salienti portano un alto rischio di essere socialmente esclusi dal gruppo.

La tipologia dei comportamenti

 

La natura negativa e indesiderata del comportamento coinvolto è essenziale nella comprensione del mobbing (Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper, 2003) ed anche se un singolo evento può concernere il mobbing o la molestia, la maggior parte delle definizioni enfatizza la condizione di atti negativi ripetuti. 

 

La maggior differenza tra il conflitto normale e il mobbing non è necessariamente cosa e come è fatto, ma piuttosto la frequenza e l’estensione di ciò che è fatto (Salin, 2003). Infatti, le azioni che vengono riportate nei racconti delle vittime possono essere considerate come comuni situazioni di conflitto o stress sul lavoro delineando una normale interazione sociale e professionale. Quando questi comportamenti, però, vengono reiterati nel tempo e indirizzati sempre allo stesso destinatario, le considerazioni cambiano.

 

Nella letteratura internazionale sono individuabili molteplici classificazioni delle azioni negative tipiche del processo di mobbing (Maier, 2003). I comportamenti possono essere distinti, innanzitutto, tra 1) azioni legate al lavoro, che rendono difficile per le vittime portare a termine il loro lavoro o possono riguardare il togliere parte o tutte le responsabilità e 2) azioni che sono principalmente legate agli individui (Einarsen, 1999 in Matthiesen, 2005).

 

Nel 1976, però, già Brodsky individuò cinque forme generiche di vessazione esercitata sul posto di lavoro.

1) stigmatizzazione e identificazione di un capro espiatorio;

2) uso di appellativi e nomignoli offensivi;

3) aggressione fisica;

4) pressione lavorativa e

5) violenza sessuale (Maier, 2003).

 

La tassonomia che sembra aver riscosso più successo (almeno come riferimento) è quella di Leymann. Egli differenziò cinque classi di comportamenti facenti riferimento alla manipolazione di:

  1. la reputazione della vittima (calunnie, pettegolezzi, ridicolizzazione dei difetti o delle caratteristiche della vittima, valutazione sbagliata o umiliante delle sue prestazioni, ecc.);
  2. la possibilità della vittima di comunicare coi colleghi (trasferimento della vittima ad un luogo di lavoro isolato, comportamenti di evitamento, divieto ai colleghi di parlare e intrattenere rapporti con questa persona);
  3. le relazioni sociali della vittima (limitazioni alle possibilità di espressione, continue interruzioni del discorso, ecc.);
  4. la qualità della situazione occupazionale e della vita di una persona (revoca di ogni mansione da svolgere, assegnazione di compiti senza senso, ecc.) e
  5. la salute della vittima (minacce di violenza fisica o minacce sessuale).

 

Ulteriori tassonomie sono riportate in letteratura identificando, in numero variabile, le varie strategie vessatorie. I risultati mostrano, comunque, come nel processo di mobbing non vengano necessariamente messe in atto tutte le azioni che rientrano in una delle categorizzazioni riscontrate, ma come esso possa consistere di un pattern di comportamenti negativi appartenenti a strategie diverse (Maier, 2003).

Frequenza e durata

 

Il “criterio temporale”, cioè la frequenza e la reiterazione delle vessazioni, risulta rilevante nell’identificazione del fenomeno stesso; infatti è necessario distinguere le situazioni di conflitto “temporaneo”, frequentemente presenti nelle relazioni interpersonali nei luoghi di lavoro, da quelle particolari situazioni nelle quali gli atti vessatori e persecutori possono causare importanti effetti sulla salute della persona presa di mira (Raho, Giorgi, Bonfigli e Argentero, 2008). Il mobbing sembra riguardare una serie di comportamenti che sono ripetutamente e persistentemente diretti verso uno o più lavoratori (Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper, 2003).

 

Il problema che sorge a questo punto è definire operazionalmente la durata dei comportamenti mobbizzanti. Leymann afferma che per essere caratterizzato come mobbing, una persona deve essere soggetta agli episodi almeno una volta a settimana, suggerendo un’esposizione per più di sei mesi come definizione operazionale del mobbing. Altri hanno utilizzato un periodo entro i sei mesi come intervallo proposto per l’esposizione ripetuta ai comportamenti negativi (Einarsen e Skogstad, 1996 in Matthiesen, 2005). Sebbene il criterio di Leymann sia stato discusso come essere qualcosa di arbitrario, visto che l’esposizione ai comportamenti mobbizzanti sembrano disporsi su un continuum da un’esposizione occasionale ad una frequente e durevole, questo viene utilizzato in molti studi per differenziare lo stress sociale al lavoro e la vittimizzazione da mobbing (Matthiesen, 2005).

 

In un approccio italiano al mobbing, Ege contempla anche un tipo particolare di mobbing che viene definito quick mobbing (Ege, 2002 in Favretto e Sartori, 2005). Esso ha una durata compresa tra i tre e i sei mesi, con frequenza quotidiana di attacchi, rientranti in almeno tre delle categorie di Leymann precedentemente riportate.

Il disequilibrio di potere tra le parti

 

Una caratteristica centrale in molte definizioni del mobbing è il disequilibrio di potere tra le parti. I conflitti tra parti di uguale forza, infatti, non sono considerati come mobbing (Salin, 2003). Il punto rimane tuttavia controverso, poiché alcuni autori non considerano questo elemento necessario per la manifestazione del fenomeno.

Chi accredita questa determinante, supporta l’idea che la vittima costantemente vessata si ritrova in una posizione inferiore e percepisce che può fare poco per mutare la situazione nella quale si trova.

L’intenzione vessatoria

 

Un consistente disaccordo esiste nei confronti dell’intenzione. Il dibattito esistente, tuttavia, si centra sul fatto che l’intenzione del mobber è difficilmente rilevabile con misure oggettive. Inoltre, il fatto che i comportamenti vengano protratti nel tempo, fa dubitare che non esista intenzionalità da parte del vessatore.

Definizione

 

A seguito di ciò che si è riportato, nel parlare di mobbing ho deciso di proporre la definizione coniata da Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper (2003), perché più completa e utilizzata largamente come punto di riferimento. Secondo gli autori, perciò, il mobbing significa:

  • “attaccare, offendere, escludere socialmente qualcuno o intaccare negativamente i compiti di qualcuno.

 

Per essere etichettato come mobbing, l’interazione o il processo deve manifestarsi ripetitivamente e regolarmente (es. settimanalmente) per un periodo di tempo (es. circa sei mesi). Il mobbing è un processo che si intensifica nel suo decorso e le persone che lo affrontano finiscono in una posizione inferiore e diventano il bersaglio di atti sociali negativi e sistematici. Un conflitto non può essere chiamato mobbing se si presenta come un evento isolato o se le due parti sono approssimativamente di uguale potere.”

Bibliografia

  • Ege, H. (1997) Il Mobbing in Italia: introduzione al mobbing culturale. Bologna: Pitagora Editrice Bologna.
  • Einarsen, S., Hoel, H., Zapf, D., & Cooper, C. L. (Eds.) (2003). Bullying and Emotional Abuse in the Workplace: International perspectives in research and practice. London: Taylor & Francis.
  • Favretto, G., & Sartori, R. (2005). Il mobbing come distress relazionale. In Favretto, G. (a cura di). Le Forme del Mobbing. Cause e conseguenze di dinamicheorganizzative disfunzionali. Milano: Raffello Cortina Editore.
  • Maier, E. (2003). Il mobbing come fenomeno psicosociale. In Depolo, M. (a cura di). Mobbing: quando la prevenzione è intervento: Aspetti giuridici e psicosociali del fenomeno. Milano: Franco Angeli.
  • Matthiesen, S. B. (2005). Bullying at work: antecedents and outcomes. PhD Thesis, Departement of Psychological Science, Faculty of Psychology, University of Bergen, Norwey.
  • Niedl, K. (1995). Mobbing/bullying am Arbeitsplatz. Eine empirische Analyse zum Phänomen sowie zu personalwirtschaftlich relevanten Effekten von systematischen Feindligkeiten. Doctoral dissertation. München: Rainer Hampp Verlag.
  • Raho, C., Giorgi, I., Bonfiglio, N. S., & Argentero, P. (2008). Caratteristiche di personalità in un campione di soggetti che lamentano vessazioni sul posto di lavoro. Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia (Supplemento A, Psicologia), 30(1), A80-A86.
  • Rayner, C., Hoel, H., & Cooper, C. L. (2002). Workplace Bullying. What we know, who is to blame, and what can we do?. London: Taylor & Francis.
  • Salin, D. (2003). Ways of explaining workplace bullying: a review of enabling, motivating and precipitating structures and processes in the work environment. Human Relation, 56(10), 1213-1232.
  • Zapf, D., & Gross, C. (2001). Conflict escalation and coping with workplace bullying: a replication and extension. European Journal of Work and Organizational Psychology, 10(4), 497-522.
  • Zapf, D., Einarsen, S., Hoel, H., & Vartia, M. (2003). Empirical findings on bullying in the workplace. In Einarsen, S., Hoel, H., Zapf, D., & Cooper, C. L. (Eds.) (2003). Bullying and Emotional Abuse in the Workplace: International perspectives in research and practice. London: Taylor & Francis.

 

Il Mobbing – © Marco Benedetti