Il Benessere soggettivo: l’interazione fra individuo e contesto

L’interazione fra individuo e contesto

I diversi settori della psicologia stanno prendendo sempre più in considerazione l’importanza del rapporto tra il soggetto e l’ambiente, in un’ottica ecologica. La qualità della vita e quindi il benessere/malessere di un individuo è il risultato anche e soprattutto delle relazioni che egli instaura con le strutture sociali, gli ambienti fisici e più in generale con la propria cultura, che costituiscono e danno significato alla sua vita.

La possibilità di raggiungere i propri scopi grazie ad un ambiente favorevole, il coinvolgimento in attività interessanti, l’importanza di ricoprire ruoli sociali, le relazioni con gli amici o la famiglia, il posto di lavoro e il quartiere sono tutte variabili che incidono fortemente sul benessere delle persone.

Numerose ricerche hanno documentato come le condizioni ambientali esercitino un’influenza importante sul benessere e sulcomportamento degli individui.

Bronfenbrenner (1979) e Wilson (1987) hanno ampiamente documentato la centralità del ruolo delle dimensioni strutturali e culturali per capire molto problematiche legate alla crescita dell’individuo.

Ad esempio, il sistema di ineguaglianze economiche, ma anche razziali, ha implicazioni notevoli sulla salute e sul benessere. La stessa concezione di “health promotion” dell’OMS nel tempo si è modificata fino ad indicare le responsabilità della salute e del benessere non più solo a livello del comportamento individuale, ma dell’intera comunità.

La povertà, così come è stato mostrato da diversi studi (ad esempio, Alder et al., 1994), costituisce il principale fattore di rischio di disabilità e morte prematura. Inoltre, la situazione economica della famiglia più avere un impatto reale sull’adattamento e sullo sviluppo dell’adolescente (Conger et al., 1999).

Gli scopi e le attività

Alcune teorie affermano che i sentimenti di benessere soggettivo dipendono dal raggiungimento di determinati scopi personali o dal soddisfacimento di determinati bisogni.

La teoria degli “striving” di Emmons (1986; 1992) mostra come questi ultimi siano scopi caratteristici e ricorrenti che la persona cerca di raggiungere e che servono ad integrare l’insieme più ampio di obiettivi che la persona si pone. Alcune caratteristiche degli scopi, come il loro grado di conflitto e ambivalenza, sono state associate a una varietà di affetti spiacevoli sia a livello psicologico che fisico. Si è visto inoltre che chi struttura i propri scopi in termini ampi e astratti tende a soffrire in misura maggiore di sintomi di disagio psicologico, diversamente da coloro che strutturano i propri scopi in termini più concreti e specifici, i quali soffrono maggiormente di malattie fisiche (Emmons, 1992).

Anche gli obiettivi di sviluppo all’interno di una comunità possono essere visti come una sfida per il soggetto e quindi un’opportunità di sviluppo e di aumento della propria autostima in caso di successo. L’aver superato un obiettivo inoltre, permette di superare e risolvere con più efficacia i compiti successivi, mentre l’insuccesso porta alla disapprovazione da parte della società e alla difficoltà nelle prove successive.

La percezione di avere uno scopo da raggiungere e la sensazione di riuscire ad avvicinarsi sempre di più può essere di per sé un fattore che conferisce significato alle azioni e alla vita più in generale e il suo raggiungimento può originare benessere. Ovviamente la facilità o meno con cui i soggetti raggiungono i propri scopi dipende dalle strategie e dai procedimenti messi in atto e dalla situazione. Cantor e Harlow (1994) hanno trovato che l’esperienza emozionale positiva dipende dalla congruenza tra gli obiettivi posti e il contesto sociale.

I compiti e gli scopi che l’individuo si pone cambiano nel tempo e sono influenzati dalla cultura e dai bisogni di ognuno; ad esempio il successo accademico può essere un compito evolutivo fra gli studenti (Cantor & Harlow, 1994), mentre l’adattamento alla condizione di pensionati è un compito evolutivo che vede coinvolto l’anziano. Risulta quindi importante nella valutazione del benessere tenere in considerazione i cambiamenti inevitabili nel corso della vita in relazione agli scopi e in presenza di eventi critici.

Un’altra concezione vicina alla precedente è rappresentata dal costrutto di “esperienza ottimale” o “flusso di coscienza” (flow) nel modello proposto da Csikszentmihalyi (1975); si parte dal presupposto che il benessere soggettivo dipenda dal coinvolgimento in attività interessanti, dove c’è un equilibrio tra le sfide poste dall’attività e le abilità possedute dal soggetto per affrontarle. Sono attività positive e piacevoli poiché forniscono un livello ottimale di informazioni nuove e in quantità non eccessiva. La condizione di “flow” è distinta dalla noia in cui vi sono risorse superiori alle sfide, dall’ansia dove le risorse sono insufficienti per superare le sfide e dall’apatia in cui vi sono scarse sfide e scarse risorse. Il soggetto che sperimenta una situazione di esperienza ottimale è totalmente assorbita dall’attività al punto da ignorare il passare del tempo e isolarsi dalle condizioni circostanti; l’autore ha notato come alcuni artisti impegnati nelle proprie opere sono talmente concentrati da non accorgersi di niente.

Questa teoria è stata utilizzata per spiegare perché certe attività, fra cui il lavoro o le attività del tempo libero, sono fonti di benessere; il soggetto impegnato e coinvolto in attività motivanti e travolgenti si sente più soddisfatto, più utile e più attivo (Diener, 2006)

I ruoli e le relazioni sociali

Sempre più studi riconoscono l’importanza di ricoprire ruoli sociali. Avere un’occupazione ed essere sposati comportano per i soggetti il ricoprire determinati ruoli e lo sviluppo dell’identità corrispondente. Ricoprire molti ruoli sembra assumere una funzione protettiva; negli anziani, ad esempio, la perdita di ruoli sociali è considerata un fattore critico per il senso del benessere.

Alcune analisi qualitative hanno indicato che gli individui percepiscono le loro identità di ruolo come fonti di significato, di scopo e di guida del comportamento (Simon, 1997). Recenti ricerche hanno messo in luce come le donne e gli uomini che ricoprono più ruoli, segnalano livelli minori nei problemi fisici e psicologici e più alti livelli di benessere soggettivo (Barnett & Hyde, 2001).

Una prospettiva interessante è quella fornita da Thoits (1983, 1992) che afferma che coloro che assumono più ruoli sociali dovrebbero essere meno vulnerabili nei confronti di disturbi psicologici come ansia e depressione. Questa ipotesi è conosciuta come “teoria dell’accumulo di ruoli”.

Adelmann (1994) ha cercato prove per dimostrare che l’accumulo di ruoli potesse essere benefico anche per gli anziani. Sono stati trovati collegamenti tra maggior assunzione di ruoli e maggior benessere psicologico, problemi di salute più rari così come anche per i disturbi cronici, sia nelle donne che negli uomini. Altre analisi hanno messo in luce che ricoprire un maggior numero di ruoli è associato a maggior soddisfazione per la vita, maggior autostima e minor sentimenti depressivi.

Ricoprire il ruolo di genitore è stato dimostrato essere molto importante per riuscire a vivere sentimenti di efficacia, di utilità e di soddisfazione (Thoits, 1992); altri studi hanno confermato l’effetto benefico dell’accumulo dei ruoli anche in un campione di donne anziane che nel corso della vita hanno ricoperto un ruolo impegnativo come quello di accudire un figlio con ritardo mentale (Hong, Mailick & Seltzer, 1995).

L’interesse degli psicologi per il sostegno sociale, si manifesta negli anni ’70; si afferma l’importanza delle relazioni sociali e del sostegno nel mantenimento della salute enfatizzando laloro potenzialità nel moderare o tamponare gli eventuali effetti deleteri sulla salute, di eventi psicosociali stressanti o a rischio.

Negli stessi anni viene pubblicato anche il famoso studio di Berkman e Syme (1978) che dimostra che i legami sociali non solo favoriscono il miglior adattamento in situazioni stressanti, ma sono anche in grado di diminuire i tassi di mortalità e di morbilità; questi ricercatori hanno intervistato circa 4.700 fra uomini e donne residenti in una piccola città californiana, valutando la rete sociale attraverso un indice composto da quattro misure: stato civile, contatti con amici e parenti, membri della chiesa e associazioni formali e informali.

Essi hanno controllato anche il rischio di mortalità nelle diverse età, in base all’iniziale stato di salute, allo stato socioeconomico e a comportamenti come fumo, uso di alcol e tendenza all’obesità. Anche dopo aver esaminato i fattori di rischio, i soggetti con scarsi legami sociali hanno mostrato, dopo nove anni dall’intervista, una mortalità da due a cinque volte più alta rispetto ai soggetti più integrati socialmente.

Molti ricercatori, negli anni successivi, hanno confermato la relazione fra il tasso di mortalità e morbilità e misure del sostegno e dell’integrazione sociale (Berkman 1995; Blazer, 1982;  House, Robbins & Metzener, 1982; Tibblin et al., 1986).

La percezione di sostegno sociale è strettamente dipendente, da una parte, dalla disponibilità di una rete di relazioni nel contesto di vita dell’individuo e dal grado di integrazione sociale, e dall’altra parte, dal possesso di abilità sociali necessarie per costruire e mantenere  tali relazioni. Lewinsohn, Redner e Seeley (1991) hanno trovato che diverse componenti del sostegno sociale risultano associate al livello di benessere soggettivo: le persone, infatti, più soddisfatte dicono di avere fonti di sostegno sociale più estese, contatti più frequenti, maggior competenze sociali e di sentirsi più soddisfatte delle relazioni con le altre persone. Risultano quindi predittivi del benessere sia elementi di natura più oggettiva come il numero e la frequenza dei contatti, sia elementi più soggettivi come la soddisfazione per le relazioni.

Per spiegare la relazione esistente tra il sostegno sociale, il benessere psicologico e la salute fisica, esistono due approcci: il “modello diretto” e il “modello indiretto” o tampone.

Il primo ipotizza un’influenza positiva del sostegno sociale sulla salute psicofisica, influenza che si esplicherebbe anche in assenza di fattori stressanti particolarmente forti ed importanti. All’interno di questo modello si è dimostrato come il sostegno percepito si associa in particolare al benessere psicologico, a stati affettivi postivi, a minor depressione e a minor ansia. Secondo Cohen e Wills (1985) le reti sufficientemente estese e l’integrazione sociale, garantirebbero, attraverso interazioni sociali regolatrici, un senso di stabilità e di prevedibilità sulla propria vita. Inoltre le reti, favorendo il flusso di informazioni, rafforzerebbero i comportamenti “normali” e attiverebbero comportamenti connessi alla salute, come cercare aiuto già ai primi sintomi di malessere. Consentirebbero inoltre di ricoprire una varietà di ruoli e di rafforzare il proprio senso di identità. Il sostegno sociale soddisferebbe invece dei bisogni umani fondamentali (House, 1981; Thoits, 1983), quali il bisogno di sicurezza, di contatti sociali e di approvazione.

Nel modello indiretto, invece, il sostegno sociale viene considerato all’interno di un modello più ampio che cerca di spiegare la relazione tra fattori stressanti e malessere. L’effetto negativo sul benessere delle situazioni stressanti sarebbe mitigato dalla disponibilità di risorse esterne, in particolare dal sostegno sociale, e dalla disponibilità di risorse interne, come strategie di coping e caratteristiche di personalità (autostima, percezione interna del controllo ecc.).

L’effetto positivo del sostegno potrebbe manifestarsi anche nel momento in cui la persona si trova di fronte ad un evento che valuta come minaccia; la percezione che altri saranno disponibili con il loro aiuto può portare a interpretare la situazione come meno pericolosa e a percepire se stessi come più capaci di fronteggiarla. Inoltre può intervenire in momenti successivi: può alleviare l’impatto dell’evento stressante fornendo soluzioni ai problemi, facilitando comportamenti orientati alla salute, attivando emozioni positive e riducendo quelle negative, e modificando la funzione cardiovascolare, immunitaria e neuroendocrina (Uchino, Cacioppo & Kiecolt-Glaser, 1996; Eriksen, 1994).

Ad un livello più ampio, viene riconosciuta l’importanza dell’appartenenza ad un gruppo o ad una comunità per il benessere soggettivo dell’individuo offrendo al singolo una rete di relazioni potenzialmente supportive, accompagnata da un senso del “noi”, cioè da un senso di appartenenza e identificazione con esso, che è importante per la propria identità.

Nel 1986 McMllian e Chavis descrivono il senso di comunità come “un sentimento che i membri hanno di appartenere e di essere importanti gli uni per gli altri e una fiducia condivisa che i bisogni dei membri saranno soddisfatti dal loro impegno ad essere insieme”. Fra le ricerche in cui è stata esplorata la relazione fra senso di comunità e benessere soggettivo, risulta importante quella condotta da Davidson e Cotter (1991), su tre gruppi di adulti residenti nell’Alabama e in Carolina del sud: il senso di comunità è risultato associato agli affetti piacevoli, all’autoefficacia e meno fortemente e con segno negativo, all’affetto piacevole. Sempre su adulti, in Italia (Prezza et al., 2002), è stata trovata una relazione positiva fra senso di comunità e soddisfazione verso al vita e, negativa, fra senso di comunità e solitudine.

Il senso di comunità favorisce il benessere non solo negli adulti, ma anche negli adolescenti. In questi si accompagna a minor sentimenti di solitudine, maggior felicità e modalità di coping più adattive (Maruccia, 1999; Mascioli, 2000)

La cultura

Il ruolo che assume la cultura nell’influenzare il processo di valutazione del benessere è stato oggetto di numerosi studi.

Varie culture vedono il mondo come benevolo e controllabile, altre enfatizzano la normalità delle emozioni negative. I modelli culturali per l’interpretazione degli eventi di vita spingono le persone a sperimentare gradi diversi di benessere a parità di condizioni oggettive.

Alcuni studi hanno voluto esplorare i fattori culturali e i valori connessi nella valutazione del benessere, cercando di esaminare se le variabili e i processi che influenzano i giudizi siano simili in tutte le culture (Diener, 1995; Kwan, Bond & Singelis, 1997; Suh et al., 1997).

Si considera soprattutto l’importanza delle differenze inevitabili che esistono tra culture individualistiche e culture collettivistiche. Nelle prime, gli aspetti della personalità sono visti come determinanti del comportamento, di conseguenza i giudizi di soddisfazione si basano soprattutto sull’esperienza emozionale recente. Nelle culture collettivistiche, i giudizi di soddisfazione si basano sia sulle emozioni, sia sul valore culturale percepito di una vita soddisfacente.

In questo senso le variabili che influenzano il modo di valutare il benessere variano a secondo dei valori ritenuti importanti per quel luogo. Ad esempio si è visto come l’autostima influenza il benessere soggettivo soprattutto nelle culture individualistiche (Diener, 1995), mentre nelle culture collettivistiche è risultata importante la qualità delle relazioni sociali (Kwan et al., 1997).

Diener (2002) ha inoltre mostrato come nelle nazioni più ricche c’è un maggior benessere soggettivo; questo può essere dovuto al fatto che spesso in questi contesti c’è una più alta osservanza dei diritti umani e un maggior controllo democratico.

Altre ricerche si sono invece concentrate nel trovare differenze nella struttura del benessere in nazioni diverse; in uno studio di Grob (1997), condotto su adolescenti, non sono risultate differenze fra paesi occidentali e orientali. Sembra quindi che ciò che cambia da un contesto culturale all’altro non sia tanto la struttura del benessere che pare rimanere le stessa, ma piuttosto le sue fonti e le strategie attraverso cui mantenerlo.

© Stile repressore e benessere – Margherita Monti