Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Capitolo 2

Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Capitolo 2

INTERAZIONI SOCIALI E APPRENDIMENTO


Un gran numero di ricerche sottolineano le conseguenze benefiche delle interazioni sociali sull’apprendimento (Johnson, 1981; Gettinger, 1992). Gli psicologi dello sviluppo sociale concepi-scono le interazioni sociali come un’opportunità privilegiata di sviluppo cognitivo. Facendo interagire i ragazzi in compiti piagetiani (per es. compiti di conservazione) e stabilendo il loro stadio di sviluppo relativamente al compito prima, immediatamente dopo e alcune settimane più tardi, i ricercatori hanno notato che i ragazzi inizialmente non conservatori possono dare una risposta di conservazione dopo l’interazione, e che questo progresso è stabile (Doise, Mugny & Perret Clermont, 1975). Tuttavia hanno notato che non tutte le interazioni portano a un progresso (Mugny & Doise, 1978); questo si ha solo quando, durante queste interazioni, divergenti punti di vista vengono vera-mente messi a confronto (Mugny, Doise & Perret-Clermont, 1975-76; Mugny, Giroud & Doise, 1978-79).

1 CONFLITTI E APPRENDIMENTO

Nella sua teoria di equilibrio, Piaget (1975) suggeriva che la chiave per lo sviluppo fosse una rottura nell’equilibrio cognitivo, creata da un conflitto, un disturbo che avvia un processo di “ri-equilibrio” attraverso il quale i ragazzi possono raggiungere un nuovo e superiore livello di equili-brio. Secondo Piaget, questo processo è il risultato di un conflitto interno tra le stesse risposte dei ragazzi. Ma gli psicologi sociali hanno sostenuto che questo conflitto, che è alla base dello sviluppo, può anche avere un’origine sociale. Così è stato chiamato “conflitto socio-cognitivo” (Mugny et al, 1975-76). Infatti, nelle situazioni di interazione sociale, il confronto con un partner crea un doppio squilibrio. Questo squilibrio è sia sociale (inter-individuale) perché è una discrepanza tra due perso-ne, sia cognitivo (intra-individuale) perché fa sì che ogni individuo dubiti della sua risposta. Risol-vendo il conflitto interindividuale i bambini possono risolvere anche quello intra-individuale. Infatti, per coordinare i diversi punti di vista emerge un lavoro cognitivo dal conflitto socio-cognitivo, che porta a un livello di ragionamento più elaborato. Molti studi dimostrano validamente che è quando gli individui possono mettere a confronto i loro punti di vista attraverso un conflitto socio-cognitivo, essi sono progrediti dopo le interazioni sociali (Mugny et al, 1975-76; Mugny et al, 1978-79; Ames & Murray, 1982; Gilly & Roux, 1984). Ciò è vero per lo sviluppo socio-cognitivo nei ragazzi, ma anche per la qualità del ragionamento e dell’apprendimento negli adulti (Doise, Mugny & Perez, 1998).

2 DUE QUESTIONI NEI COMPITI ATTITUDINALI

Da un punto di vista similare la Teoria dell’Elaborazione del Conflitto (Pérez & Mugny, 1993; 1996) specifica il meccanismo che ha luogo in tali situazioni di apprendimento, che sono il più delle volte situazioni di soluzione dei problemi. Infatti, è specifico che in questo tipo di compiti è in ballo l’attitudine, perché nella soluzione del problema viene richiesto ai partecipanti di usare un certo numero di abilità che sono (o meno) appropriate a risolvere il problema. Nei compiti in cui è in gioco l’attitudine, come nei compiti di apprendimento, sono particolarmente importanti due fattori:

    • esiste una risposta corretta, ma gli individui non sanno a priori qual è;
    • questo tipo di compito ha un alto livello di “ancoraggio” sociale, poiché dare una risposta corretta o sbagliata riordina gli individui in termini di capacità (Quiamzade & Mugny, 2001; Butera & Mugny, 2001; Mugny, Butera, Sanchez-Mazas & Pérez, 1995).

Quindi, il verificarsi di un conflitto durante un’interazione in questo tipo di compito crea una doppia dinamica: in primo luogo, il conflitto introduce un’incertezza riguardo alla validità di una soluzione, che è messa in dubbio dall’esistenza di un’altra possibile soluzione; in secondo luogo, il conflitto è un’opposizione tra individui, che implica che uno ha ragione e l’altro torto (o uno ha più ragione dell’altro). In altre parole, l’incertezza correlata alla soluzione al compito è aumentata da un’insicurezza correlata alle proprie competenze. Così, un conflitto in questi compiti implica due questioni: una è trovare la risposta corretta (questione “epistemologica”, correlata alla conoscenza) e l’altra è mostrare la propria competenza (questione “relazionale”, correlata allo status) (Mugny & Butera, 2001).

La focalizzazione sull’una o l’altra di queste due questioni, per risolvere il conflitto, dipende dalla minaccia che può essere generata dall’interazione. In una situazione di non minaccia, per es. quando i partner vengono valutati su dimensioni indipendenti (Butera & Mugny, 1995), prevale la questione epistemologica. Per risolvere il conflitto, gli individui cercano di valutare la validità di ogni proposizione e di capire il problema focalizzando la loro attenzione sul compito. La soluzione del conflitto viene così chiamata “epistemologica” (Mugny & Butera, 2001). In una situazione in cui le competenze degli individui sono minacciate, per es. quando i partner hanno un rapporto competitivo, prevale la questione relazionale. Dovendo affrontare un conflitto, gli individui cercano di mostrare di essere competenti. Quando si sentono competenti, cercano anche di affermare i propri punti di vista e di inficiare quello dell’altro attraverso un “conflitto di competenze” (Butera & Mugny, 2001). Questa soluzione del conflitto è competitiva perché è focalizzata sullo scopo di dimostrare le proprie competenze (Johnson & Johnson, 1994). Quando percepiscono la fonte come più competente di loro stessi, adottare il suo punto di vista attraverso “l’accondiscenza” permette loro di proteggere le proprie competenze (Quiamzade & Mugny, 2001). In entrambi i casi, la solu-zione del conflitto è basata sul confronto sociale delle competenze tra se stessi e il partner, il che è una regolazione “relazionale” del conflitto (Doise & Mugny, 1984; Mugny & Butera, 2001).

3 ATTIVITÀ COGNITIVE

Per quanto riguarda l’effetto del conflitto epistemologico rispetto a quello relazionale, sembra che il primo implichi più accuratezza nella soluzione dei problemi e produca un progresso a lungo temine. Per es., quando hanno osservato interazioni tra ragazzi di fronte a compiti piagetiani, Caru-gati, DePaolis & Mugny (1980) e Mugny et al. (1978-79) hanno notato che solo i partecipanti che avevano risolto il conflitto in modo epistemologico (cioè tramite il confronto di punti di vista) progredivano in maniera durevole. Il beneficio del conflitto era perso non appena i ragazzi mostravano remissività (regolazione relazionale del conflitto). Infatti, queste due forme di regolazione del conflitto corrispondono a livelli diversi di attività cognitive e quindi a diversi risultati nell’apprendimento.

Molti studi hanno già esplorato le attività cognitive che risultano da queste due forme di regolazione del conflitto, creando situazioni che richiedono agli individui di focalizzare la loro attenzione o sul compito o sul confronto sociale. Una linea di ricerca (Butera & Mugny, 2001) ha studiato una situazione in cui la minaccia associata al confronto sociale viene manipolata direttamente, in modo da studiare l’ipotesi che un confronto sociale che non rappresenta una minaccia permette di focaliz-zarsi sul compito, quindi di favorire l’accuratezza, laddove un confronto sociale di minaccia induce a focalizzarsi sul rapporto, quindi inficiando la prestazione. In uno studio i partecipanti chedoveva-no sperimentare un’ipotesi in un compito di ragionamento induttivo, sono stati messi davanti alla soluzione alternativa proposta da un’altra persona (Butera & Mugny, 1995). Inoltre, è stato chiesto loro di assegnare punti di competenza a se stessi e ai loro partner. In una condizione di non-minaccia, disponevano di 100 punti per sé e di 100 per il partner; così assegnare punti a un parteci-pante voleva dire ritirarli all’altro, il che corrisponde a una situazione di competizione. I risultati dimostrano che nella condizione di non-minaccia i partecipanti assegnavano un numero moderato, ma uguale, di punti a se stessi e al partner; assegnazioni che sono correlate positivamente, dimo-strando che la propria conoscenza può andare di pari passo a quella di qualcun altro. Questo a sua volta ha prodotto un aumentato uso della strategia più diagnostica, confermando che i partecipanti erano focalizzati sul compito. Al contrario, in una situazione di minaccia, una situazione che au-menta la competitività, le assegnazioni di punti erano per lo più asimmetriche e rivolte a se stessi, in una sorta di protezione della propria competenza. Questa focalizzazione sul conflitto relazionale ha effetti negativi sulla risoluzione del compito, dando come risultato un minore uso della strategia più diagnostica.

Inoltre, Monteil & Chambres (1990) riferiscono che l’apprendimento che risulta da un’interazione è migliore quando il partner associa la contraddizione alla spiritosaggine (espressio-ne di affabilità verso il partner) piuttosto che quando questa spiritosaggine non è associata alla con-traddizione. Queste due condizioni tuttavia portano a un migliore apprendimento rispetto a una con-dizione in cui le contraddizioni sono associate con contrarietà (espressione di picco di scontento verso il partner). Si può supporre che il dover affrontare questo tipo di feedback inviti i partecipanti a focalizzare la loro attenzione sulla relazione e non sul compito, in modo da risolvere la divergen-za. Infatti la contrarietà è introdotta nel loro esperimento da frasi come “È ovvio!”, “Hai torto”, frasi che possono essere viste come minacce per la competenza. I loro risultati mostrano che l’associazione tra conflitto e contrarietà è la condizione meno favorevole per l’apprendimento.

Un altro lavoro ha messo a confronto il metodo dell’apprendimento cooperativo basato su “con-troversie” (i partecipanti erano invitati a scambiarsi informazioni contraddittorie e a cambiare pro-spettiva) con un altro in cui era favorita la ricerca di concorrenza (Smith, Johnson & Johnson, 1981; 1984), e anche con un terzo metodo di “dibattito” dove i partecipanti dovevano difendere posizioni opposte, ma dove si dichiarava un vincitore (Johnson & Johnson, 1985). In generale questi autori hanno osservato che, paragonato agli altri due metodi, la controversia è benefica per l’apprendimento, il rapporto tra i partner e la salute psicologica (Johnson & Johnson, 1984;  Jo-hnson, Johnson & Tjosvold, 2000). In altre parole, un conflitto è benefico solo se non è associato al confronto sociale (nelle condizioni del dibattito, lo scopo è di fare meglio degli altri).

In conclusione, il suddetto lavoro mostra che un conflitto, quando porta gli individui a focaliz-zarsi sul compito e sulla soluzione del problema – nella sua forma epistemologica – favorisce un accurato trattamento del compito (diagnostica, presa di prospettiva, apprendimento). La letteratura è meno unanime sulle conseguenze di un conflitto che focalizza l’attenzione sul confronto sociale di competenze, cioè un conflitto relazionale. Sembra concordare sul fatto che il conflitto relazionale porterà a un trattamento più superficiale del compito rispetto al conflitto epistemologico. Ma l’effetto corrisponde semplicemente alla cancellazione dei benefici del conflitto epistemologico o è dannoso per l’apprendimento? Johnson & Johnson (1993) e Johnson, Johnson & Tjosvold, (2000) propongono che le acquisizioni siano “buone” nella condizione di controversia, “moderate” nel di-battito e “basse” nella ricerca di concorrenza. Secondo questi autori, la caratteristica relazionale ri-durrebbe solamente il beneficio del conflitto. Altri studiosi sostengono che l’effetto sia una cancel-lazione di questo beneficio (Carugati et al. 1980-81; Mugny et al. 1978-79). Tuttavia, Monteil & Chambres (1990) osservano che la condizione in cui la contraddizione è associata a contrarietà por-ta a un apprendimento peggiore rispetto alla condizione senza contraddizione. Inoltre, uno studio di Butera, Mugny & Tomei (2000, Studio 1) rivela che l’accondiscendenza di fronte a una fonte esper-ta (regolazione relazionale del conflitto) porta a un minore uso della strategia di diagnostica rispetto al gruppo di controllo (senza influenza).

Così, due meccanismi possono essere in gioco nel conflitto relazionale:

    • primo – non sono attivati i processi all’origine delle conseguenze cognitive di un conflitto, il che cancella i suoi benefici;
    • secondo – il conflitto relazionale minaccia le competenze degli individui, il che li porta a spostare la loro attenzione dal compito al confronto sociale.

 

Un’ipotesi generale potrebbe allora essere che la forma relazionale del conflitto non solo can-cella i suoi benefici, ma è anche negativa per l’apprendimento.

4 CONFLITTO E INTERDIPENDENZA DELLE INFORMAZIONI

Nel suddetto lavoro, la risoluzione relazionale del conflitto sembra essere determinata dalla minaccia che la competenza dell’altro rappresenta per se stessi. Questa minaccia può essere indotta da una rappresentazione del compito come avente una sola risposta. Infatti, quando c’è un conflitto in tale compito, il fatto che una persona abbia ragione implica che l’altra ha torto. Per ridurre questa minaccia gli individui dovrebbero percepire un certo grado di complementarietà fra di loro, in modo che entrambi possano aver ragione. Per es. si è dimostrato che l’introduzione della rappresentazione del compito in termini di complementarietà, attraverso l’idea che diversi punti di vista possono essere compatibili (Butera, Mugny, Pérez & Huguet, 1994), permette la riduzione della minaccia di competenza (Butera et al, 2000; Butera & Mugny, 2001; Quiamzade & Mugny, 2001).

Un modo per introdurre, attraverso il compito, la rappresentazione di complementarietà tra partner è di condividere le fonti tra i partner. Johnson, Johnson & Stanne (1989) e Ortiz, Johnson & Johnson (1996) hanno descritto “nessuna interdipendenza delle fonti” come la situazione in cui i partecipanti ricevono informazioni identiche, e “interdipendenza delle fonti” come la situazione in cui ogni partecipante riceve solo una parte dell’informazione (informazione complementare). Si possono sottolineare due benefici del condividere informazioni complementari (interdipendenza delle fonti):

    • il primo è che esso spinge i partecipanti a considerare gli altri come fonti di informazioni;
    • il secondo è che riduce le istanze di competizione e il confronto sociale tra gli studenti.

Gruber (2000) e Butera et al. (1994) hanno notato che, grazie alla percezione della complemen-tarietà tra se stessi e il partner, appare legittimo contare sul partner per le informazioni. La complementarietà di informazioni tra partner (interdipendenza delle fonti) significa fornire un’informazione incompleta a entrambi. Il solo modo di avere accesso a tutta l’informazione e di comprendere appieno il problema è di interagire con il partner. Così:

    • il primo beneficio del condividere informazioni complementari è che rende rilevante l’interazione; i comportamenti orientati verso lo scambio di informazioni possono derivare da questa rappresentazione dell’interazione. Inoltre, Lambiotte, Dansereau, O’Donnnel, Young, Skaggs, Hall & Rocklin (1987) suggeriscono che il condividere informazioni complementari potrebbe favorire il coinvolgimento dei partner nel compito, nelle interazioni e negli sforzi verso la spiegazione. In linea con ciò, Buchs & Butera (2001) hanno sottolineato che i processi di interazione sono più cruciali quando gli studenti condividono informazioni complementari rispetto a quando essi discutono identiche informazioni. Infatti, la qualità percepita di rapporto modula la prestazione in condizioni di interdipendenza delle fonti, ma non interessa la prestazione nell’indipendenza delle fonti.
    • Il secondo beneficio del condividere informazioni complementari tra partner è che ciò riduce le istanze di confronto sociale. Infatti, alcuni studi sulla coazione sottolineano che i partecipanti si confrontano di più l’uno con l’altro quando lavorano su compiti identici (rispetto a diversi) (Pepitone, 1972; Sanders, Baron & Moore, 1978). Infatti, i partecipanti che hanno accesso alle stesse informazioni hanno la possibilità di confrontare le loro prestazioni, il che non succede quando i partecipanti lavorano su compiti diversi. Ciò viene suggerito anche dagli studi di Marshall & Weinstein (1984) e di Rosenholtz & Wilson (1980) nelle classi. Infine, Lambiotte et al. (1987) suggeriscono che lavorare su informazioni identiche comporta, oltre alla motivazione di capire il problema, una motivazione di mostrare la propria competenza. Quest’ultima può distogliere chi apprende dal  processo di compito. Il lavorare su informazioni complementari solleva gli individui da queste istanze.

 

Questi due potenziali benefici di lavorare su informazioni complementari sono stati studiati da Buchs, Butera & Mugny (2002). L’analisi delle interazioni di studenti videoregistrati (studio 1) ha rivelato che lavorare su informazioni complementari favorisce il coinvolgimento dei partecipanti (più tempo destinato a dare spiegazioni, più domande e più risposte). Inoltre, le reazioni positive sono più importanti e quelle negative (per es. difficoltà espresse) sono meno frequenti quando gli studenti lavorano su informazioni complementari rispetto a quando lavorano su informazioni identiche. Dall’altra parte, il discutere informazioni identiche aumenta i disaccordi e stressa le affermazioni di competenza, impedendo ai partecipanti una risoluzione costruttiva di questo confronto. Le auto-affermazioni sulle interazioni percepite dagli studenti (Studio 2) mostrano che il discutere in-formazioni complementari diminuisce il livello percepito di divergenza, mentre la questione della competenza sembra essere una variabile di mediazione nell’effetto negativo del discutere informazioni identiche. In sintesi, l’indipendenza delle fonti aumenta le istanze relazionali e sembra dare al conflitto una forma relazionale.

 

© Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: sviluppi recenti  – Fabrizio Manini

 

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