Effetti positivi e negativi dello stile repressore

Effetti positivi e negativi dello stile repressore

 

Le persone che adottano uno stile repressore evitano il richiamo alla mente di eventi traumatici e delle emozioni ad essi associati. Ottengono bassi punteggi alla scala dell’ansia, proprio perché tengono lontani dalla coscienza, tutte quelle situazioni che potrebbero far sorgere affetti negativi.

Molti studi si sono soffermati sul ruolo positivo e negativo che può avere questo meccanismo di difesa e di auto-conservazione.

Nello studio di Ginzburg, Zahava Solomon & Avi Bleich (2002), sono stati osservati 116 pazienti dopo aver avuto un infarto al miocardio. Questo evento è considerato un fattore di rischio per l’instaurarsi di un disturbo acuto da stress (Ginzburg, 2001) e di un disturbo post-traumatico da stress (Ladwig, 1999). La funzionalità delle repressione consisterebbe, in questi pazienti, nell’incentivare la loro salute, rimuovendo gli stati negativi associati alla loro esperienza. In questo senso l’effetto della repressione, se utilizzata in modo flessibile e non estrema, non provoca l’allontanamento dal senso di realtà, ma anzi, promuove l’adattamento dell’organismo. Il ruolo di questo tipo di fronteggiamento sembra avere, in questi pazienti, effetti benefici a breve e a lungo termine grazie alla capacità dei repressori di distogliere l’attenzione da stimoli minacciosi e di richiamare alla mente il minor numero di dettagli relativi all’evento stressante.

Altre ricerche hanno invece analizzato il comportamento assunto dai bambini che soffrono di cancro o di malattie croniche.

A questi pazienti sono stati somministrati: il Children’s Social Desirability Questionnaire (Crandall, Crandall, & Katkovsky, 1965) con lo scopo di rilevare la desiderabilità sociale, con una scala simile a quella di Marlowe-Crowne, contenente item socialmente desiderabili, ma altamente improbabili, lo State-Trait Anxiety Inventory for Children (Spielberg, 1973) e l’Anger Expression Scale for Children (Phipps & Steele, 2002), che ha come fine quello di valutare le espressioni di rabbia. Dai risultati emerge che i soggetti riportano minor segni di ansia e di depressione e punteggi più alti alla scala di desiderabilità sociale, manifestando uno stile repressore con funzione di adattamento (Phipps, 2007). Questi bambini mostrano, inoltre, una minor espressione di rabbia e aggressività (Phipps & Steele, 2002).

Lo studio di Lane, Merikangas, Schwartz, Huang & Prusoff (1990) ha mostrato come soggetti adulti, identificati come repressori, riportassero lungo il corso della vita, una minor prevalenza di malattie psichiatriche rispetto ai non-repressori.

In un’altra ricerca effettuata su un campione di adolescenti che si presentano con stile repressore, è stato messo in luce come essi siano più tolleranti alle frustrazioni, con maggiori abilità sociali e con un’educazione maggiore rispetto ai coetanei non-repressori (Bybee, Kramer & Zigler, 1997).

Altre analisi si sono, invece, concentrate sugli effetti negativi che la repressione può comportare. Il fatto che le persone sopprimano gli affetti spiacevoli può comportare, infatti, conseguenze sfavorevoli e non sempre adattive.

Si è visto che la disattenzione a stimoli minacciosi, propria di questo stile, potrebbe portare ad una riluttanza nel richiedere sostegno sociale e ad impegnarsi effettivamente nel caso di una psicoterapia. In presenza di malattie croniche, i repressori presentano spesso una mancanza di attenzione ai propri segnali interni di afflizione, inclusi i sintomi fisici, che potrebbe interferire o ritardare con l’efficacia del trattamento medico (Bonanno & Singer, 1990; Schwartz, 1990).

Altre ricerche hanno messo in luce alcune conseguenze negative di questo stile nel funzionamento dell’organismo, dimostrando l’alta presenza di forti emicrania, maggiore incidenza del morbo di Crohn, ulcere, allergie e ipertensione (Weinberger, 1992).

Mediante studi effettuati in laboratorio, i repressori hanno mostrato maggior reattività cardiovascolare allo stress, rispetto ai non-repressori, e una più alta pressione sanguinea (King, Taylor, Albright & Haskell, 1990; Shapiro, Goldstein & Jamner, 1995). Altri parametri fisiologici rilevanti e associati allo stile repressore sono: alti livelli di glucosio (Jamner, Schwartz & Leigh, 1988), livelli di colesterolo elevati della lipoproteina a bassa densità (King, Taylor, Albright & Haskell, 1990), cambiamenti nell’ormone della crescita (Kosten, Jacobs, Mason, Wahby & Atkins, 1984), riduzione dell’immunocompetenza (Esterling, Antoni, Kumar & Schneiderman, 1993), asimmetrie dell’elettroencefalogramma (Tomarken & Davidson, 1994), incremento del cortisolo salivare (Brown, Tomarken, Orth, Loosen, Kalin & Davidson, 1996), incremento delle allergie e della sensibilità al cibo (Bell, Schwartz, Peterson & Amend, 1993).

Lo stile repressore, così come definito da Weinberger, è stato associato con una salute fisica peggiore, inclusi deficit delle funzioni immunitarie (Jammer, Schwartz & Leigh, 1988), malattie cancerogene (Phipps & Srivastava, 1997), disturbi cardiovascolari (Shae et al., 1986) e cambiamenti nel ciclo mestruale (Altemus, Wexler & Boulis, 1989). Servirebbero ulteriori analisi di questi aspetti in popolazioni pediatriche, poiché la maggior parte delle ricerche si è focalizzata esclusivamente su adulti.

Lo studio di Hornos (2002) ha coinvolto 200 pazienti seguiti in una clinica psichiatrica di New York a cui sono stati somministrati la scala di Marlowe-Crowne, la scala di Taylor per l’ansia e il Brief Symptom Inventory (BSI), atto a valutare una serie di sintomi psichiatrici. I pazienti delineati come repressori, rifacendosi alla definizione di Weinberger, hanno mostrato punteggi più alti alle sottoscale del BSI che misurano l’ansia, l’ansia fobica, l’aggressività, l’ostilità e la depressione e nessuna differenza tra i repressori e i non repressori alla sottoscala di somatizzazione. I repressori hanno inoltre riportato una più alta incidenza di disturbi cardiovascolari e oncologici.

Nell’individuo che reprime l’espressione degli affetti negativi e della propria aggressività, potrebbero quindi diventare croniche alcune risposte fisiologiche. Alexander (1950) ipotizzò che l’ipertensione essenziale, varie sindromi cardiache, il diabete mellito, l’artrite reumatoide, l’ipertiroidismo e alcuni tipi di cefalea, potessero trovare spiegazione in questo meccanismo dove la preparazione vegetativa all’azione viene mantenuta, perché le emozioni negative sono inibite e non si esauriscono in un’espressione o azione adeguata.

Molti studiosi (Engel, 1962; Grassi, 1987; Grassi & Biondi, 1992) hanno notato che i pazienti affetti da una patologia tumorale presentano frequentemente caratteristiche comuni, tra cui la tendenza a non affrontare le situazioni problematiche e i conflitti ricorrendo, tra le altre difese, anche alla repressione e una propensione ad inibire l’aggressività.  Questo stile di reazione comporta una serie di alterazioni neuroendocrine e immunitarie (minore attività del sistema linfocitario e delle cellule “natural killer”, importanti per il riconoscimento delle cellule tumorali), che riducono le difese dell’organismo favorendo lo sviluppo di patologie psichiche e organiche.

Kneier e Temoshok (1984) hanno studiato pazienti affetti da patologia cardiovascolare e da melanoma cutaneo maligno, riscontrando nei secondi, una maggior tendenza a reprimere i vissuti emozionali, accompagnata da un aumento della risposta psicofisiologica allo stress sperimentale.

Rispetto quindi alla rassegna dei risultati di questi studi, lo stile repressore essere appare come una strategia adattiva a breve termine, poiché permette di distogliere l’attenzione su affetti negativi e minacciosi, ma se utilizzato in maniera rigida e costante può provocare danni organici di natura psicosomatica e, dal punto di vista psicologico, allontanare dalla realtà gli individui che non avrebbero quindi una visione effettiva e concreta della propria vita.

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Lo stile repressore nella definizione di se stessi

Lo stile repressore nella definizione di se stessi

Le persone con uno stile repressore cercano di rispondere alle domande in modo da soddisfare la desiderabilità sociale (Marlowe-Crowne, 1960), ovvero il bisogno di dare informazioni di se stessi accettabili e desiderabili culturalmente, per essere approvati.

Il recente studio di Furnham, Petrides, Sisterson & Baluch (2003), ha analizzato se le persone con uno stile repressore presentassero risposte esageratamente positive a variabili socialmente desiderabili e attraenti come l’intelligenza emozionale, il quoziente d’intelligenza auto-stimato, l’impulsività e lo stoicismo. Questo gruppo di soggetti è stato confrontato con gli altri tre gruppi appartenenti alla classificazione di Weinberger.

L’intelligenza emotiva (EI) è stata definita, originariamente, come quel tipo di intelligenza che comporta l’abilità di monitorare le proprie e altrui emozioni, di discriminarle e di usare queste informazioni per guidare le proprie azioni e i propri pensieri (Salovey & Mayers, 1990). Dato che l’intelligenza emotiva è descritta sempre come una facoltà molto desiderabile, si è ipotizzato che i repressori fornissero risposte esageratamente positive, nel tentativo di presentare un’immagine di se stessi più positiva.

L’intelligenza valutata dagli stessi soggetti implica la stima di abilità, competenze e caratteristiche positive nell’affrontare la vita quotidiana. In questo studio si è chiesto ai partecipanti di stimare la propria intelligenza su dodici aspetti derivati dalla concezione di intelligenza di Stenberg, Conway, Ketron & Bernstein, (1981), ipotizzando che i repressori avrebbero dato stime più alte rispetto agli altri tre gruppi.

La terza caratteristica indagata è l’impulsività, ovvero la tendenza a riflettere meno, prima di agire, rispetto alle altre persone con uguali abilità (Dickman, 1990). L’autore distingue un’impulsività funzionale, correlata a entusiasmo, avventura e attività e un’impulsività disfunzionale legata al disordine e alla tendenza ad ignorare i fatti impegnativi nelle decisioni da prendere.

Le differenza tra queste due tipologie è sottile, ma importante; quello che gli autori si sono chiesti è se i repressori fossero sensibili alle differenze tra gli item che formavano le due diverse scale. La loro ipotesi è che i repressori avrebbero avuto punteggi più alti agli item inerenti all’impulsività funzionale e punteggi minori a quelli che rispecchiavano l’impulsività disfunzionale, sempre rispetto agli altri tre gruppi.

L’ultimo aspetto indagato è lo stoicismo, ovvero la negazione e soppressione delle emozioni (Furnham, 1992). Gli stoici credono che provando indifferenza al dolore e al piacere ed esercitando auto-controllo, siano più predisposti alla felicità.

Questo concetto non è differente da quello di repressione, sebbene il primo sia più funzionale. Lo stoicismo comporta, infatti, la soppressione sia del piacere che della sofferenza, mentre la repressione coinvolge solo le emozioni negative.

Tuttavia poiché rimane poco chiaro se lo stoicismo sia una strategia di fronteggiamento psicologicamente adattiva o meno a lungo temine, è stato ipotizzato che i repressori non differirebbero significativamente dagli altri tre gruppi.

I risultati hanno mostrato differenze significative tra le persone con stile repressore e gli altri tre gruppi, nei punteggi alla scala d’intelligenza emotiva, in cui sono stati aggiunti anche item sull’ottimismo, sulle abilità sociali, sulla valutazione delle emozioni e sul loro utilizzo (Ciarrochi, Chan & Bajar, 2001; Petrides & Furnham, 2000). I repressori mostravano punteggi maggiori rispetto agli altri gruppi.

Anche rispetto alla stima del quoziente intellettivo, i punteggi erano più alti nel gruppo dei repressori, confermando l’ipotesi di partenza dei ricercatori.

Per l’impulsività, sebbene i repressori non differissero significativamente dal gruppo dei molto ansiosi e con alta desiderabilità sociale, mostravano punteggi più bassi rispetto ai molto ansiosi e rispetto ai molto ansiosi e con bassa desiderabilità sociale, agli item che rispecchiavano l’impulsività disfunzionale. I repressori avevano punteggi maggiori rispetto al gruppo dei molto ansiosi, e con bassa desiderabilità per l’impulsività funzionale.

I risultati che riguardano lo stoicismo non hanno dato differenze significative.

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Il concetto di stile repressore

Il concetto di stile repressore

 

Il termine “repressione” fu introdotto da Freud verso la fine del diciannovesimo secolo per descrivere un meccanismo avente lo scopo di proteggere l’Io. Secondo l’autore questo processo consiste nel respingere lontano qualcosa e mantenerlo distante dalla nostra coscienza; il motivo e lo scopo della repressione è, per Freud, l’evitamento dell’ansia.

Recentemente l’interesse per questo concetto sta crescendo, così come l’attenzione nel ridefinirlo attraverso i concetti attuali e le terminologie della psicologia clinica e sociale (Baumeister, Dale & Sommer, 1998; Cramer, 1998; Loftus, 1993).

I primi studi tendevano a focalizzare le analisi sul meccanismo cognitivo sottostante alla repressione, ma i risultati, basati su misure del richiamo di materiale associato con situazioni che inducevano ansia, hanno fornito prove inconcludenti ed equivoche (Gilmore, 1954; Kleinsmith & Kaplan, 1963; Levinger & Clark, 1961; Smock, 1957).

Un approccio intento a comprendere e a misurare lo stile repressore, che ha riscontrato successo, è stato proposto da Weinberger, Swartz e Davidson (1979). Questi autori suggeriscono una classificazione a quattro tipologie, in accordo con i risultati che i soggetti ottenevano alla Taylor Manifest Anxiety Scale, atta a misurare l’ansia manifesta (Taylor, 1953), e alla Scala di Marlowe-Crowne sulla Desiderabilità Sociale (Crowne & Marlowe, 1964).

La prima tipologia è basata sui soggetti chiamati poco ansiosi, poiché mostrano punteggi bassi in entrambe le scale.

La seconda tipologia include le persone che mostrano bassa desiderabilità e punteggi alti alla scala dell’ansia; il terzo gruppo è costituito da persone con alta desiderabilità sociale e alta ansia; la quarta tipologia consiste in quei soggetti, chiamati repressori, che ottengono alti punteggi alla scala di desiderabilità sociale e bassi punteggi alla scala dell’ansia.

Weinberger (1990) suggerì che i repressori fossero persone che fallivano nel riconoscere le loro risposte affettive, impegnati attivamente nella conservazione di loro stessi e convinti di non essere persone inclini agli affetti negativi.

Chi adotta uno stile repressore minimizza il proprio stato di ansia e altre emozioni, così da apparire più desiderabile socialmente.

Nel corso del tempo sono stati effettuati più di sessanta studi, usando la classificazione di Weinberger e il test di ANOVA per individuare se le risposte dei repressori fossero significativamente differenti da quelle degli altri tre gruppi.

Gli studi che hanno esaminato variabili cognitive come l’attenzione e la memoria, indicano che i repressori soffocano i pensieri negativi e possiedono strategie di attenzione e di codifica estremamente sensibili a risposte minacciose o negative (Myers, 1998). Altri studi sulle differenze individuali hanno utilizzato misure self-report e hanno mostrato come le persone con stile repressore siano più psicologicamente sane ed equilibrate di altri gruppi (Lane, Merikangas, Schwartz, Huang & Prusoff, 1990; Bybee, Kramer & Zigler, 1997).

Tuttavia ricerche sulle differenze fisiologiche hanno messo in luce il fatto che i repressori mostrano una discrepanza tra quello che riportano autonomamente e le misure fisiologiche dei livelli di ansia. La maggior parte degli studiosi sembra essere d’accorso sull’ipotesi che, mentre i repressori riportano un adattamento e un metodo di fronteggiamento sano, le misure oggettive, cognitive e fisiologiche, indicano invece che questi soggetti sono iper sensibili alle informazioni che provocano ansia, specialmente se riguardano loro stessi. Nello studio di Weinberger (1979) le persone con stile repressore mostrano, a seguito di compiti cognitivi, un’inefficacia nelle loro strategie di fronteggiamento: battito accelerato, sudore eccessivo e muscoli della fronte rigidi.

I repressori, che ottengono bassi punteggi alla scala dell’ansia e alti punteggi alla scala delle desiderabilità sociale, tendono ad usare uno stile evitante di fronte ad affetti negativi. Fox, nel suo studio (1993), ha trovato che questo gruppo, davanti a compiti di vigilanza, era incline a spostare l’attenzione davanti a informazioni socialmente minacciose. In una serie di altre ricerche, i repressori hanno mostrato deficit di memoria per il richiamo di materiale autobiografico con valenza negativa (Davis, 1987, 1990; Davis & Schwartz, 1987; Myers & Brewin, 1994).

Wells e Davies (1994), hanno sviluppato un questionario (il Thought Control Questionnaire, TCQ), che valuta le differenze individuali nelle strategie utilizzate per controllare pensieri indesiderati. Questo strumento identifica cinque diverse strategie: distrazione, punizione, strategie sociali, rivalutazione e preoccupazione. Myers, in una ricerca del 1998, ha voluto analizzare se gli individui con differenze negli stili di coping usassero diverse strategie di soppressione dei pensieri negativi. L’autore, utilizzando il Thought Control Questionnaire, ha ipotizzato che i repressori riportassero un uso maggiore di strategie di “distrazione”, rispetto agli altri tre gruppi, basati sulla classificazione di Weinberger.

Dal momento che la “punizione” appare come un metodo di soppressione dei pensieri di tipo negativo e i repressori tendono invece ad evitare gli stati negativi e a rispondere mettendosi in buona luce (Newton & Contrada, 1994; Myers, 1995, Myers & Brewin, 1996; Myers & Veter, 1997), è stato ipotizzato che i repressori riportassero un uso minore di questa strategia, rispetto ai gruppi di controllo. La sottoscala della “preoccupazione” è correlata con le misure dell’ansia e del neuroticismo (Wells & Davies, 1994), così è stato ipotizzato che i partecipanti che mostravano punteggi più alti ai tratti di ansia, riportassero l’uso di tale strategia in misura maggiore rispetto agli altri gruppi. Nessuna ipotesi è stata avanzata per quanto riguarda le altre due tipologie di strategie.

I dati hanno confermato le ipotesi dell’autore, dimostrando ancora una volta che chi possiede uno stile repressore tende a dare risposte socialmente desiderabili.

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Gli strumenti di misura del benessere

Gli strumenti di misura del benessere

La valutazione del benessere soggettivo

Il benessere soggettivo fa riferimento a stati interni e di natura soggettiva, a cui non necessariamente possono corrispondere fattori oggettivamente misurabili. Proprio per questo motivo i ricercatori hanno ritenuto che le misure più adeguate per cogliere l’esperienza del benessere fossero i resoconti soggettivi, attraverso questionari e interviste; molto spesso vengono utilizzate misure di self-report, ovvero una o più affermazioni rispetto alle quali si esprime il proprio grado di accordo in termini qualitativi su una scala numerica.

Nel corso degli anni questa modalità di rilevazione è stata sottoposta a varie critiche. Il problema principale riguardava l’eventualità che i resoconti soggettivi riflettessero adeguatamente gli stati interni. La psicologia clinica riteneva che queste misure non rappresentassero in modo fedele gli stati interni, in quanto le persone possono andare incontro a meccanismi di distorsione con funzione ego-difensiva, come ad esempio negare le proprie emozioni, In questo modo dichiarerebbero di essere più soddisfatte di quanto lo siano veramente, in accordo con le norme sociali e morali e con la cultura di riferimento.

Le prospettive cognitiviste hanno messo in luce come il processo di formulazione dei giudizi sul benessere sia complesso: di fronte ad una scala di valutazione le persone devono, per prima cosa, interpretare bene la domanda, ricercare nella memoria breve e a lungo termine le informazioni e comunicarle in maniera accettabile e chiara. In ognuna di queste fasi possono intervenire fattori suscettibili di influenzare la valutazione complessiva finale.

Tuttavia le analisi psicometriche degli strumenti hanno mostrato buone caratteristiche di validità, affidabilità e un buon grado di coerenza interna.

Come è stato visto precedentemente il benessere soggettivo include una componente cognitiva/valutativa e una componente affettiva ed emozionale, ovvero le emozioni che derivano dal giudizio di soddisfazione per la propria vita; esistono quindi strumenti che colgono l’una o l’altra componete o entrambe insieme.

Il benessere soggettivo può essere valutato a livello globale o a livelli più specifici, in riferimento a diversi ambiti della vita.

Si possono inoltre utilizzare scale ad un item solo che consistono in unica affermazione alla quale i soggetti rispondono scegliendo la risposta che meglio li rappresenta oppure indicando il proprio grado di accordo con l’affermazione. Spesso però le scale disponibili includono una varietà di affermazioni, con lo scopo di cogliere diverse componenti; tali scale possiedono in genere una miglior validità e fedeltà rispetto alle misure ad un item solo che, di contro, presentano come vantaggio il fatto di essere più brevi e più facili da somministrare.

Ovviamente non esiste uno strumento adeguato a priori; tutto è relativo allo scopo, alle esigenze del ricercatore e al tipo di popolazione.

Esempi di scale che misurano la componente affettiva/emozionale del benessere sono: la Scala dell’equilibrio affettivo di Bradburn (1969); essa si fonda su un modello del benessere emozionale, visto come differenza fra le due dimensioni dell’affetto positivo e negativo. Uno strumento più recente è il Positive and Negative Affect Scales di Watson (1988): misura anch’esso due dimensioni del benessere, l’affetto negativo e l’affetto positivo.

Fra le misure che colgono la componente cognitiva troviamo, ad esempio, la Satisfaction With Life Scale di Diener et al. (1985), in cui si pensa che i soggetti indicano il proprio grado di accordo, confrontando la proprie condizioni di vita con uno standard personale.

Pavot et al. (1998) hanno osservato che la valutazione della soddisfazione per la vita può trarre benefici dall’inclusione di una dimensione temporale; è plausibile che il grado di soddisfazione attuale sia influenzato dalla credenze e dalle aspettative dei soggetti circa il futuro. Per cogliere questa componente gli autori hanno costruito la Temporal Satisfaction With Life Scale (Pavot et al., 1998),che consente di valutare la soddisfazione globale del presente, passato e futuro.

Il benessere psicologico dell’anziano ha un ruolo determinante nella progressione o nel rallentamento del processo d’invecchiamento (Amoretti & Ratti, 2003) e contribuisce sostanzialmente al quadro generale della qualità della vita (Lawton, 1991). È quindi un’importante misura d’efficacia per interventi terapeutici, riabilitativi e assistenziali. Per questo motivo, in ambito gerontologico sono state sviluppate diverse misure: la Life Satisfaction Index di Neugarten et al. (1961) da cui si ricavano cinque dimensioni (il gusto per la vita rispetto all’apatia, fermezza e forza d’animo, congruenza fra scopi prefissati e scopi raggiunti, una concezione positiva di sé e tono dell’umore) e la Life Satisfaction in the Elderly Scale di Solomon e Conte (1984).

Fra le scale per bambini e adolescenti esiste la Multidimensional Students’ Life Satisfaction Scale (Huebner, 1994) che misura la soddisfazione in cinque contesti differenti: la famiglia, la scuola, gli amici, l’ambiente di vita e il sé.

Per valutare la soddisfazione dei pazienti psichiatrici esistono molte scale tra cui la Satisfaction with Life Domains Scale di Lehman (1983) e il Lancashire Quality of Life Profile (1996) che valuta le caratteristiche sociodemografiche, gli indicatori oggettivi e soggettivi e misure globali del benessere.

La valutazione del benessere psicologico

Oltre alla scale che valutano l’esperienza emozionale positiva e il senso di soddisfazione, esistono altri strumenti di misura che colgono altre dimensioni del funzionamento psicologico positivo.

L’autostima è fra le più utilizzate come indicatore del benessere (Scala di Rosenberg, 1965), seguita dall’ottimismo, dal locus of control e dalla self-efficacy.

Una delle scale maggiormente usate per cogliere il benessere psicologico è quella di Ryff (1989) che valuta sei criteri del funzionamento psicologico: l’autonomia (la capacità di indipendenza), il controllo ambientale (il grado di controllo e di competenza nella gestione dell’ambiente e la capacità di usufruire delle sue risorse), la crescita personale (la percezione di una crescita del sé), le relazioni positive con gli altri (la qualità delle relazioni personali), lo scopo nella vita (la presenza di mete ed obiettivi e la percezione di una direzione) e l’accettazione di sé (la presenza di un atteggiamento positivo verso se stessi e l’accettazione delle qualità negative).

Si tratta di uno strumento dotato di una portata più generale e più inclusivo rispetto alla scale che sono state applicate alla misurazione di aspetti specifici del funzionamento positivo (come l’autostima).

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Il benessere sociale

Il benessere sociale

 

L’influenza del contesto sociale e dei fattori sociali sulla salute e sul benessere, è stata riconosciuta da tempo essere importante per il benessere complessivo. Tuttavia le teorie sul benessere sociale e sulle sue componenti sono piuttosto discordanti.

McDowell e Newell (1987) definiscono la salute sociale come “quella dimensione del benessere di un individuo che riguarda le sue relazioni con gli altri, come le altre persone reagiscono nei suoi riguardi e come egli interagisce con le istituzioni sociali e le norme della società”.

Gli autori hanno individuato due dimensioni principali: l’adattamento sociale e il sostegno sociale; il primo aspetto include la soddisfazione per le relazioni, la prestazione nell’ambito di ruoli sociali e l’adattamento all’ambiente. La dimensione del sostegno sociale si riferisce alla disponibilità di persone di cui abbiamo fiducia e sulle quali si può contare e che ci fanno sentire amati.

La possibilità di ricevere sostegno implica anche le abilità sociali adeguate; questa dimensione può venire quindi concettualizzata anche come indicatore del benessere sociale di per sé, oltre che studiarlo come correlato o antecedente del benessere soggettivo.

Keyes (1998) ha posto invece maggior attenzione al benessere sociale dell’individuo, all’interno della comunità a cui appartiene. Secondo l’autore il benessere sociale è “la valutazione delle proprie condizioni di vita e del proprio funzionamento nella società” e presenta diverse dimensioni.

L’integrazione sociale consiste nella valutazione della qualità del proprio rapporto con la società, l’accettazione sociale è il sentimento di fiducia nei confronti degli altri e la sensazione che le persone siano capaci di gentilezza, il contributo sociale consiste nella valutazione del proprio valore sociale, ovvero di essere un membro importante per la comunità, l’attualizzazione sociale è l’analisi delle potenzialità e risorse della società ed, infine, la coerenza sociale si riferisce alla percezione della qualità e dell’organizzazione del mondo sociale.

Un altro concetto importante è il senso di comunità (McMillan & Chavis, 1986); esso include il senso di appartenenza cioè la condivisione di legami con altri, l’influenza ovvero la convinzione di essere un membro vitale per la comunità, l’integrazione e soddisfazione dei bisogni, e la connessione emotiva condivisa.

Queste componenti supplementari del benessere permettono di analizzarlo in maniera più articolata e sfaccettata. Keyes nel 1998 ha dimostrato come le cinque componenti del benessere sociale mostrano correlazioni significative con indicatori come la soddisfazione complessiva.

Dati simili sono stati trovati per il senso di comunità che correla significativamente in rapporto con la soddisfazione per la vita, la percezione di sostegno sociale e l’autostima (Prezza & Costantini, 1998).

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Il benessere psicologico

Il benessere psicologico

 

 

L’interesse del concetto di benessere, inteso come “funzionamento psicologico positivo” o “salute mentale positiva”, è sempre più crescente, soprattutto per il suo contributo a tutti gli aspetti della vita umana. Più comunemente, tra le persone, questi termini sono meglio conosciuti con il concetto di “felicità”.

Un aspetto controverso, di frequente riscontro, è la mancanza di accordo sul concetto di benessere, salute e funzionamento positivo dell’individuo; le definizioni proposte per illustrare il benessere psicologico e la felicità sono, infatti, molteplici.

Secondo Argyle (1987), la felicità è rappresentata da un senso generale di benessere complessivo che può essere scomposto in termini di appagamento in aree specifiche quali ad esempio il matrimonio, il lavoro, il tempo libero, i rapporti sociali, l’autorealizzazione e la salute. La felicità è anche legata al numero e all’intensità delle emozioni positive che la persona sperimenta e, in ultimo, come evento o processo emotivo improvviso e piuttosto intenso è meglio designata come gioia. In questo caso è definibile come l’emozione che segue il soddisfacimento di un bisogno o la realizzazione di un desiderio e in essa, accanto all’esperienza del piacere, compaiono una certa dose di sorpresa e di attivazione (D’Urso & Trentin, 1992).

Waterman (1993) ha identificato due concezioni teoriche distinte: l’eudaimonia, che corrisponde ai sentimenti di espressività personale, alle funzioni psicologiche e alla realizzazione personale, e l’edonismo che si focalizza sulle esperienze soggettive di felicità e soddisfazione di vita.

Secondo l’autore queste componenti sono associate ad attività distinte e hanno coinvolgimenti diversi per i sentimenti di autorealizzazione. Le attività che fanno sorgere sentimenti di espressività personale sono quelle in cui il soggetto sperimenta stati di autorealizzazione grazie alla possibilità di poter esprimere e mostrare le proprie potenzialità e capacità, attraverso lo sviluppo delle abilità e dei talenti personali e il raggiungimento degli scopi.

L’edonismo si origina da una gamma di attività molto ampia; esso viene sperimentato ogni volta che si avvertono emozioni piacevoli come conseguenza del soddisfacimento di bisogni fisici, intellettuali e sociali.

L’autore ha trovato che questi due aspetti del benessere sono associati ad attività differenti; l’edonismo può originarsi da una varietà di fattori, i sentimenti di espressività personale sono invece collegati a un numero ridotto e specifico di azioni.

Vari studiosi hanno cercato di capire su quali elementi le persone si basano nel giudicare positivamente la propria vita; il benessere in questo senso è valutato secondo gli standard delle persone nel determinare ciò che è positivo nella vita, secondo quindi i propri criteri personali. Sono stati di conseguenza costruiti strumenti in grado di misurare il benessere nella sua componente cognitiva (ad esempio il Life Satisfaction Index di Neugarten, 1961; la Satisfaction With Life Scale di Diener et al., 1985; il singolo indice di felicità di Andrews, 1976).

Un’altra categoria di definizioni che si riferisce al concetto di benessere denota una prevalenza di affetti positivi su affetti negativi, enfatizzando la presenza di esperienze emotive piacevoli. Secondo Bradburn (1969), la felicità è un giudizio globale che le persone formulano comparando i loro affetti negativi con quelli positivi. Bradburn ha costruito uno strumento auto-valutativo, l’Affect Balance Scale (1969), che più tardi è stato ripreso da Watson creando le Positive and Negative Affect Scales con cui si possono quantificare gli stati emotivi sia positivi che negativi in un arco di tempo precisato. Altri studiosi hanno fatto corrispondere il concetto di benessere psicologico con quello di varie componenti: ad esempio l’autostima (Rosemberg, 1965), l’ottimismo (Scheier & Carver, 1993), gli stati d’umore positivi (Lawton, 1975), il locus di controllo (Levenson, 1974) e il senso di coerenza (Antonovsky, 1993).

In campo clinico il benessere è stato interpretato come assenza di sintomatologia legata a depressione, ansia ecc. Spesso si utilizza, per tale costrutto, il Sympton Questionnaire di Kellner (1978) che associa quattro scale sintomatologiche (ansia, depressione, somatizzazione ed ostilità) alle corrispondenti scale di benessere (rilassamento, contentezza, benessere fisico e buona disposizione). Nell’ambito della psicopatologia, appare fondamentale la valutazione della remissione e della guarigione da un disturbo affettivo (Ruini, Ottolini, Raffanelli, Conti & Fava, 2000).

Un’ampia letteratura mostra la presenza di sintomi residui in pazienti con disturbi ansiosi e depressivi al termine del trattamento farmacologico e/o psicoterapico (Fava, 1996). Questi sintomi implicano un esito prognostico negativo a lungo termine; nella valutazione della guarigione da un disturbo affettivo diventa essenziale non solo la completa remissione dei sintomi, ma anche il ripristino del benessere psicologico e del funzionamento ottimale dell’individuo.

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Modelli Teorici di Riferimento dello Stress sul Lavoro

Modelli Teorici di Riferimento dello Stress sul Lavoro

 

Negli anni ‘70 si assiste ad un proliferare di ricerche relative allo stress che considerano, in particolare, non solo gli stressors di origine biologica, com’era stato per la maggior parte delle ricerche antecedenti a quegli anni, ma anche e soprattutto il contesto sociale dell’uomo, riconoscendovi uno dei contesti maggiormente in grado di attivare delle risposte di  stress.

La psicologia del lavoro si è costantemente confrontata con i temi relativi alla qualità della vita nelle organizzazioni e all’efficienza organizzativa.

L’oggettività economica dell’aspetto che concerne l’efficienza, si è però scontrato con la soggettività psicologica degli studi sulla qualità della vita nell’organizzazione (Favretto, 1994).

La contrapposizione può essere riassunta, nella realtà delle organizzazioni produttive, come il contrasto esistente tra oggettività dei fenomeni tecnico–economici e soggettività dei processi umani.

Nel tempo diversi approcci teorici si sono occupati di dare una definizione al fenomeno stress in rapporto alla dimensione lavorativa.  Questi possono essere raggruppati in tre fondamentali  macrocategorie: approccio tecnico, fisiologico e psicologico.

Il tipo di approccio che viene adottato ne cambia il punto di vista dal quale partire e, conseguentemente, le modalità di un eventuale intervento.

L’approccio tecnico pone l’attenzione sulle caratteristiche degli stimoli esterni che provengono dall’ambiente e considera lo stress proprio come la caratteristica dello stimolo stesso. Ciò è ben leggibile nell’affermazione di Symonds, (1947, in ISPELS, 2002) “lo stress è ciò che accade all’uomo, non ciò che accade in lui”, che si riferisce espressamente più ad un insieme di cause che di sintomi.

L’approccio fisiologico, invece, focalizza l’attenzione sulla risposta fisiologica che avviene come conseguenza a stimoli ritenuti avversi o dannosi, quando ci si sente da essi minacciati. Si concentra quindi su quei cambiamenti non specifici che avvengono nel sistema biologico anche come conseguenza dell’attivazione di due sistemi neuroendocrini. Da questo punto di vista, sebbene uno dei massimi esponenti di questo approccio sia Selye, è interessante il contributo di Scheuch (in ISPELS, 2002) che definisce lo stress come una “reazione ad uno stato omeostatico disturbato”. Sempre secondo tale approccio, la reazione si svolge in più fasi progressive (allarme, resistenza ed esaurimento) e, quando è ripetuta, intensa e prolungata può portare alle così dette “malattie da adattamento” (concetto apparentemente paradossale ma che sta ed evidenziare come la “scelta” di un vantaggio a breve termine possa condurre ad uno svantaggio a lungo termine), Selye (1955).

Le critiche che sono state maggiormente apportate a tali approcci riguardano la loro non empiricità ed il fatto che non tengono conto delle differenze individuali di natura psicologica e dei processi cognitivi e percettivi.

Da tali critiche nasce l’approccio psicologico (fra i tre il più recente) che considera lo stress come il risultato dell’interazione dinamica tra individuo e ambiente. Due sono i filoni principali di tale approccio: quello Interazionale, che si concentra maggiormente sulle caratteristiche strutturali della suddetta interazione (Individuo-Ambiente), e quello Transazionale, che riguarda invece i meccanismi che stanno alla base di tale interazione.

Sono stati sviluppati diversi modelli teorici, facenti capo ai due approcci, per spiegare in maniera più esaustiva come l’interazione individuo-ambiente producesse degli effetti interessanti nella direzione della qualità della vita lavorativa.

Tra i modelli “interazionali”, il più applicato è quello di Karasek (1979) che basa il suo costrutto su due “doppie” variabili: domanda (alta e bassa), intesa come carico di lavoro e controllo (alto e basso), inteso come “possibilità/autonomia decisionale” e “skill discretion” (ampiezza delle abilità richieste). Secondo il modello di Karasek, queste due variabili (domanda e controllo) danno vita a quattro possibili “situazioni” che possono risultare più o meno stressanti per la persona (ad esempio, la combinazione “alta domanda-basso controllo” che risulta ad alto strain potenziale, mentre la combinazione opposta “alto controllo-bassa domanda” è classificata a basso strain). Tale modello è stato poi ampliato da Johnson (1989), che inserisce la variabile “supporto” (inteso in ambito lavorativo, sia tra colleghi che tra subalterni e superiori) in modo da poter fare da “cuscinetto” fra le altre due. Altro modello interazionale è quello di French (P-E Fit) (1982) che vede lo stress come interazione tra variabili ambientali e caratteristiche rilevanti per la persona. Secondo l’autore, quando la “domanda” è proporzionata alla capacità di risposta, questa sarà adeguata ed armoniosa (in questo caso si parla di “eustress”); in caso contrario, avremo una risposta inadeguatae disadattiva (in questo caso si parla di “distress”). Nei modelli “transazionali”, invece, lo stress è uno stato psicologico negativo riguardante aspetti sia emotivi che cognitivi che stanno alla base delle rappresentazioni interiori della persona. E’ infatti il significato che l’individuo attribuisce alla situazione vissuta e la conseguente valutazione, attraverso diversi gradi di consapevolezza, che faranno la differenza nella risposta che sarà più o meno adattiva.

I modelli transazionali, lasciano intravedere una più diretta relazione tra stress e capacità di coping, nel senso che fanno meglio vedere come l’effetto finale chiamato, appunto, “stress”Ossia sia determinato da:

1)    la percezione soggettiva della richiesta,
2)    la consapevolezza della situazione e delle proprie capacità di fronteggiamento,
3)    le risposte conseguenti.

Tra questi, il modello di Cox e quello di Siegrist (modello ERI, sforzo-ricompensa) (1978) sono i più conosciuti, ed è quest’ultimo ad evidenziare come la motivazione individuale (indicata come fonte di sforzo “intrinseca” in contrapposizione alle richieste del lavoro che ne rappresentano quella “estrinseca”) giochi un ruolo di primo piano nella percezione finale della situazione, e quindi, dello stress percepito. Ovvero, maggiore sarà la motivazione, minore lo stress percepito e vice versa. Nel modello di Cox, invece, è interessante l’importanza che egli da al ruolo della domanda percepita, cioè il modo in cui ogni individuo percepisce la richiesta ambientale. L’insorgenza dello stress, secondo Cox, si verifica quando c’è uno squilibrio, definito imbalance, tra domanda percepita e percezione delle proprie capacità di reagire a essa.

È importante sottolineare che l’imbalance non è tra domanda e capacità, ma tra domanda percepita e capacità percepita. Con questo gli autori vogliono evidenziare (con un forte riferimento alle teorie di Lazarus) quanto sia importante per l’individuo la valutazione cognitiva (cognitive appraisal) della potenziale fonte di stress e della sua capacità di farvi fronte.  Ovviamente un modello che considera centrale il ruolo della valutazione cognitiva non può prescindere dal mettere in gioco un ulteriore elemento, cioè che la valutazione cognitiva si basa su una grande varietà di componenti che fanno capo alle differenze individuali. Tali differenze, sono state per lungo tempo attribuite a fattori non modificabili dalla persona (genetica, personalità, ecc.) e per questo motivo tenute in secondo piano. Ma nei nuovi modelli e costrutti della più moderna Positive Psychology viene affermata sempre più copiosamente la possibilità di sviluppare alcune abilità che hanno una diretta relazione con le capacità di coping, quando queste risultino essere non presenti. Tali abilità (cognitive ed emotive), infatti,  possono essere sviluppate, quando non presenti, o allenate e migliorate quando già presenti ma non in forma sufficiente a garantire una condizione di benessere psicologico.

Ciò introduce l’importante concetto di trainability (possibilità di una capacità di essere allenata) che approfondiremo nei prossimi articoli insieme ad un approfondimento sulla Psicologia Positiva connessa allo stress e al coping.

Bibliografia

  • Cox T. (1987). Stress, coping and problem solving. In Work & Stress,
  • Favretto, G. (1994). Lo stress nelle organizzazioni. Il Mulino, Bologna
  • French, J., Caplan, R., e Harrison, V. (1982). The Mechanisms of Job Stress and Strain.Chichester, Wiley.
  • ISPESL (2002). Lo stress in ambiente di lavoro. Linee guida per i datori di lavoro. ISPESL Roma
  • Karasek, R.A. (1979). Job demands, job latitude, and mental strain: Implications for job redesign. Adm Sci Q
  • Selye, H., (1955). La sindrome di adattamento. Istituto sieroterapico milanese S. Belfanti, Milano
  • Siegrist, J., Starke, D., Chandola, T., Godin, I., Marmot, M., Niedhammer, I., e Peter, R. (2004). The measurement of Effort-Reward Imbalance at work: European comparisons. Social Science & Medicine

© Stress e Soggettività – Francesco De Paola

Il Benessere soggettivo: l’interazione fra individuo e contesto

L’interazione fra individuo e contesto

I diversi settori della psicologia stanno prendendo sempre più in considerazione l’importanza del rapporto tra il soggetto e l’ambiente, in un’ottica ecologica. La qualità della vita e quindi il benessere/malessere di un individuo è il risultato anche e soprattutto delle relazioni che egli instaura con le strutture sociali, gli ambienti fisici e più in generale con la propria cultura, che costituiscono e danno significato alla sua vita.

La possibilità di raggiungere i propri scopi grazie ad un ambiente favorevole, il coinvolgimento in attività interessanti, l’importanza di ricoprire ruoli sociali, le relazioni con gli amici o la famiglia, il posto di lavoro e il quartiere sono tutte variabili che incidono fortemente sul benessere delle persone.

Numerose ricerche hanno documentato come le condizioni ambientali esercitino un’influenza importante sul benessere e sulcomportamento degli individui.

Bronfenbrenner (1979) e Wilson (1987) hanno ampiamente documentato la centralità del ruolo delle dimensioni strutturali e culturali per capire molto problematiche legate alla crescita dell’individuo.

Ad esempio, il sistema di ineguaglianze economiche, ma anche razziali, ha implicazioni notevoli sulla salute e sul benessere. La stessa concezione di “health promotion” dell’OMS nel tempo si è modificata fino ad indicare le responsabilità della salute e del benessere non più solo a livello del comportamento individuale, ma dell’intera comunità.

La povertà, così come è stato mostrato da diversi studi (ad esempio, Alder et al., 1994), costituisce il principale fattore di rischio di disabilità e morte prematura. Inoltre, la situazione economica della famiglia più avere un impatto reale sull’adattamento e sullo sviluppo dell’adolescente (Conger et al., 1999).

Gli scopi e le attività

Alcune teorie affermano che i sentimenti di benessere soggettivo dipendono dal raggiungimento di determinati scopi personali o dal soddisfacimento di determinati bisogni.

La teoria degli “striving” di Emmons (1986; 1992) mostra come questi ultimi siano scopi caratteristici e ricorrenti che la persona cerca di raggiungere e che servono ad integrare l’insieme più ampio di obiettivi che la persona si pone. Alcune caratteristiche degli scopi, come il loro grado di conflitto e ambivalenza, sono state associate a una varietà di affetti spiacevoli sia a livello psicologico che fisico. Si è visto inoltre che chi struttura i propri scopi in termini ampi e astratti tende a soffrire in misura maggiore di sintomi di disagio psicologico, diversamente da coloro che strutturano i propri scopi in termini più concreti e specifici, i quali soffrono maggiormente di malattie fisiche (Emmons, 1992).

Anche gli obiettivi di sviluppo all’interno di una comunità possono essere visti come una sfida per il soggetto e quindi un’opportunità di sviluppo e di aumento della propria autostima in caso di successo. L’aver superato un obiettivo inoltre, permette di superare e risolvere con più efficacia i compiti successivi, mentre l’insuccesso porta alla disapprovazione da parte della società e alla difficoltà nelle prove successive.

La percezione di avere uno scopo da raggiungere e la sensazione di riuscire ad avvicinarsi sempre di più può essere di per sé un fattore che conferisce significato alle azioni e alla vita più in generale e il suo raggiungimento può originare benessere. Ovviamente la facilità o meno con cui i soggetti raggiungono i propri scopi dipende dalle strategie e dai procedimenti messi in atto e dalla situazione. Cantor e Harlow (1994) hanno trovato che l’esperienza emozionale positiva dipende dalla congruenza tra gli obiettivi posti e il contesto sociale.

I compiti e gli scopi che l’individuo si pone cambiano nel tempo e sono influenzati dalla cultura e dai bisogni di ognuno; ad esempio il successo accademico può essere un compito evolutivo fra gli studenti (Cantor & Harlow, 1994), mentre l’adattamento alla condizione di pensionati è un compito evolutivo che vede coinvolto l’anziano. Risulta quindi importante nella valutazione del benessere tenere in considerazione i cambiamenti inevitabili nel corso della vita in relazione agli scopi e in presenza di eventi critici.

Un’altra concezione vicina alla precedente è rappresentata dal costrutto di “esperienza ottimale” o “flusso di coscienza” (flow) nel modello proposto da Csikszentmihalyi (1975); si parte dal presupposto che il benessere soggettivo dipenda dal coinvolgimento in attività interessanti, dove c’è un equilibrio tra le sfide poste dall’attività e le abilità possedute dal soggetto per affrontarle. Sono attività positive e piacevoli poiché forniscono un livello ottimale di informazioni nuove e in quantità non eccessiva. La condizione di “flow” è distinta dalla noia in cui vi sono risorse superiori alle sfide, dall’ansia dove le risorse sono insufficienti per superare le sfide e dall’apatia in cui vi sono scarse sfide e scarse risorse. Il soggetto che sperimenta una situazione di esperienza ottimale è totalmente assorbita dall’attività al punto da ignorare il passare del tempo e isolarsi dalle condizioni circostanti; l’autore ha notato come alcuni artisti impegnati nelle proprie opere sono talmente concentrati da non accorgersi di niente.

Questa teoria è stata utilizzata per spiegare perché certe attività, fra cui il lavoro o le attività del tempo libero, sono fonti di benessere; il soggetto impegnato e coinvolto in attività motivanti e travolgenti si sente più soddisfatto, più utile e più attivo (Diener, 2006)

I ruoli e le relazioni sociali

Sempre più studi riconoscono l’importanza di ricoprire ruoli sociali. Avere un’occupazione ed essere sposati comportano per i soggetti il ricoprire determinati ruoli e lo sviluppo dell’identità corrispondente. Ricoprire molti ruoli sembra assumere una funzione protettiva; negli anziani, ad esempio, la perdita di ruoli sociali è considerata un fattore critico per il senso del benessere.

Alcune analisi qualitative hanno indicato che gli individui percepiscono le loro identità di ruolo come fonti di significato, di scopo e di guida del comportamento (Simon, 1997). Recenti ricerche hanno messo in luce come le donne e gli uomini che ricoprono più ruoli, segnalano livelli minori nei problemi fisici e psicologici e più alti livelli di benessere soggettivo (Barnett & Hyde, 2001).

Una prospettiva interessante è quella fornita da Thoits (1983, 1992) che afferma che coloro che assumono più ruoli sociali dovrebbero essere meno vulnerabili nei confronti di disturbi psicologici come ansia e depressione. Questa ipotesi è conosciuta come “teoria dell’accumulo di ruoli”.

Adelmann (1994) ha cercato prove per dimostrare che l’accumulo di ruoli potesse essere benefico anche per gli anziani. Sono stati trovati collegamenti tra maggior assunzione di ruoli e maggior benessere psicologico, problemi di salute più rari così come anche per i disturbi cronici, sia nelle donne che negli uomini. Altre analisi hanno messo in luce che ricoprire un maggior numero di ruoli è associato a maggior soddisfazione per la vita, maggior autostima e minor sentimenti depressivi.

Ricoprire il ruolo di genitore è stato dimostrato essere molto importante per riuscire a vivere sentimenti di efficacia, di utilità e di soddisfazione (Thoits, 1992); altri studi hanno confermato l’effetto benefico dell’accumulo dei ruoli anche in un campione di donne anziane che nel corso della vita hanno ricoperto un ruolo impegnativo come quello di accudire un figlio con ritardo mentale (Hong, Mailick & Seltzer, 1995).

L’interesse degli psicologi per il sostegno sociale, si manifesta negli anni ’70; si afferma l’importanza delle relazioni sociali e del sostegno nel mantenimento della salute enfatizzando laloro potenzialità nel moderare o tamponare gli eventuali effetti deleteri sulla salute, di eventi psicosociali stressanti o a rischio.

Negli stessi anni viene pubblicato anche il famoso studio di Berkman e Syme (1978) che dimostra che i legami sociali non solo favoriscono il miglior adattamento in situazioni stressanti, ma sono anche in grado di diminuire i tassi di mortalità e di morbilità; questi ricercatori hanno intervistato circa 4.700 fra uomini e donne residenti in una piccola città californiana, valutando la rete sociale attraverso un indice composto da quattro misure: stato civile, contatti con amici e parenti, membri della chiesa e associazioni formali e informali.

Essi hanno controllato anche il rischio di mortalità nelle diverse età, in base all’iniziale stato di salute, allo stato socioeconomico e a comportamenti come fumo, uso di alcol e tendenza all’obesità. Anche dopo aver esaminato i fattori di rischio, i soggetti con scarsi legami sociali hanno mostrato, dopo nove anni dall’intervista, una mortalità da due a cinque volte più alta rispetto ai soggetti più integrati socialmente.

Molti ricercatori, negli anni successivi, hanno confermato la relazione fra il tasso di mortalità e morbilità e misure del sostegno e dell’integrazione sociale (Berkman 1995; Blazer, 1982;  House, Robbins & Metzener, 1982; Tibblin et al., 1986).

La percezione di sostegno sociale è strettamente dipendente, da una parte, dalla disponibilità di una rete di relazioni nel contesto di vita dell’individuo e dal grado di integrazione sociale, e dall’altra parte, dal possesso di abilità sociali necessarie per costruire e mantenere  tali relazioni. Lewinsohn, Redner e Seeley (1991) hanno trovato che diverse componenti del sostegno sociale risultano associate al livello di benessere soggettivo: le persone, infatti, più soddisfatte dicono di avere fonti di sostegno sociale più estese, contatti più frequenti, maggior competenze sociali e di sentirsi più soddisfatte delle relazioni con le altre persone. Risultano quindi predittivi del benessere sia elementi di natura più oggettiva come il numero e la frequenza dei contatti, sia elementi più soggettivi come la soddisfazione per le relazioni.

Per spiegare la relazione esistente tra il sostegno sociale, il benessere psicologico e la salute fisica, esistono due approcci: il “modello diretto” e il “modello indiretto” o tampone.

Il primo ipotizza un’influenza positiva del sostegno sociale sulla salute psicofisica, influenza che si esplicherebbe anche in assenza di fattori stressanti particolarmente forti ed importanti. All’interno di questo modello si è dimostrato come il sostegno percepito si associa in particolare al benessere psicologico, a stati affettivi postivi, a minor depressione e a minor ansia. Secondo Cohen e Wills (1985) le reti sufficientemente estese e l’integrazione sociale, garantirebbero, attraverso interazioni sociali regolatrici, un senso di stabilità e di prevedibilità sulla propria vita. Inoltre le reti, favorendo il flusso di informazioni, rafforzerebbero i comportamenti “normali” e attiverebbero comportamenti connessi alla salute, come cercare aiuto già ai primi sintomi di malessere. Consentirebbero inoltre di ricoprire una varietà di ruoli e di rafforzare il proprio senso di identità. Il sostegno sociale soddisferebbe invece dei bisogni umani fondamentali (House, 1981; Thoits, 1983), quali il bisogno di sicurezza, di contatti sociali e di approvazione.

Nel modello indiretto, invece, il sostegno sociale viene considerato all’interno di un modello più ampio che cerca di spiegare la relazione tra fattori stressanti e malessere. L’effetto negativo sul benessere delle situazioni stressanti sarebbe mitigato dalla disponibilità di risorse esterne, in particolare dal sostegno sociale, e dalla disponibilità di risorse interne, come strategie di coping e caratteristiche di personalità (autostima, percezione interna del controllo ecc.).

L’effetto positivo del sostegno potrebbe manifestarsi anche nel momento in cui la persona si trova di fronte ad un evento che valuta come minaccia; la percezione che altri saranno disponibili con il loro aiuto può portare a interpretare la situazione come meno pericolosa e a percepire se stessi come più capaci di fronteggiarla. Inoltre può intervenire in momenti successivi: può alleviare l’impatto dell’evento stressante fornendo soluzioni ai problemi, facilitando comportamenti orientati alla salute, attivando emozioni positive e riducendo quelle negative, e modificando la funzione cardiovascolare, immunitaria e neuroendocrina (Uchino, Cacioppo & Kiecolt-Glaser, 1996; Eriksen, 1994).

Ad un livello più ampio, viene riconosciuta l’importanza dell’appartenenza ad un gruppo o ad una comunità per il benessere soggettivo dell’individuo offrendo al singolo una rete di relazioni potenzialmente supportive, accompagnata da un senso del “noi”, cioè da un senso di appartenenza e identificazione con esso, che è importante per la propria identità.

Nel 1986 McMllian e Chavis descrivono il senso di comunità come “un sentimento che i membri hanno di appartenere e di essere importanti gli uni per gli altri e una fiducia condivisa che i bisogni dei membri saranno soddisfatti dal loro impegno ad essere insieme”. Fra le ricerche in cui è stata esplorata la relazione fra senso di comunità e benessere soggettivo, risulta importante quella condotta da Davidson e Cotter (1991), su tre gruppi di adulti residenti nell’Alabama e in Carolina del sud: il senso di comunità è risultato associato agli affetti piacevoli, all’autoefficacia e meno fortemente e con segno negativo, all’affetto piacevole. Sempre su adulti, in Italia (Prezza et al., 2002), è stata trovata una relazione positiva fra senso di comunità e soddisfazione verso al vita e, negativa, fra senso di comunità e solitudine.

Il senso di comunità favorisce il benessere non solo negli adulti, ma anche negli adolescenti. In questi si accompagna a minor sentimenti di solitudine, maggior felicità e modalità di coping più adattive (Maruccia, 1999; Mascioli, 2000)

La cultura

Il ruolo che assume la cultura nell’influenzare il processo di valutazione del benessere è stato oggetto di numerosi studi.

Varie culture vedono il mondo come benevolo e controllabile, altre enfatizzano la normalità delle emozioni negative. I modelli culturali per l’interpretazione degli eventi di vita spingono le persone a sperimentare gradi diversi di benessere a parità di condizioni oggettive.

Alcuni studi hanno voluto esplorare i fattori culturali e i valori connessi nella valutazione del benessere, cercando di esaminare se le variabili e i processi che influenzano i giudizi siano simili in tutte le culture (Diener, 1995; Kwan, Bond & Singelis, 1997; Suh et al., 1997).

Si considera soprattutto l’importanza delle differenze inevitabili che esistono tra culture individualistiche e culture collettivistiche. Nelle prime, gli aspetti della personalità sono visti come determinanti del comportamento, di conseguenza i giudizi di soddisfazione si basano soprattutto sull’esperienza emozionale recente. Nelle culture collettivistiche, i giudizi di soddisfazione si basano sia sulle emozioni, sia sul valore culturale percepito di una vita soddisfacente.

In questo senso le variabili che influenzano il modo di valutare il benessere variano a secondo dei valori ritenuti importanti per quel luogo. Ad esempio si è visto come l’autostima influenza il benessere soggettivo soprattutto nelle culture individualistiche (Diener, 1995), mentre nelle culture collettivistiche è risultata importante la qualità delle relazioni sociali (Kwan et al., 1997).

Diener (2002) ha inoltre mostrato come nelle nazioni più ricche c’è un maggior benessere soggettivo; questo può essere dovuto al fatto che spesso in questi contesti c’è una più alta osservanza dei diritti umani e un maggior controllo democratico.

Altre ricerche si sono invece concentrate nel trovare differenze nella struttura del benessere in nazioni diverse; in uno studio di Grob (1997), condotto su adolescenti, non sono risultate differenze fra paesi occidentali e orientali. Sembra quindi che ciò che cambia da un contesto culturale all’altro non sia tanto la struttura del benessere che pare rimanere le stessa, ma piuttosto le sue fonti e le strategie attraverso cui mantenerlo.

© Stile repressore e benessere – Margherita Monti

 

 

 

 

Stabilità e cambiamenti nei livelli di benessere

Stabilità e cambiamenti nei livelli di benessere

Personalità, eventi di vita e processi di adattamento

La funzione dei fattori di personalità nel benessere è stata sottolineata da diverse teorie del benessere soggettivo.

Secondo i modelli top-down, esisterebbe una propensione generale, che deriva da tratti stabili di personalità, a sperimentare la vita in modi postivi o negativi (Diener, 1984).

Gli stessi eventi sarebbero interpretati in modi più o meno favorevoli a seconda di tratti di personalità diversi.

In una meta-analisi (DeNeve & Cooper, 1998), sono stati sintetizzati i risultati di una grande vastità di ricerche che hanno valutato il ruolo di 137 tratti di personalità nel prevedere la soddisfazione, l’affetto positivo e l’affetto negativo. Fra le caratteristiche specifiche risultate più consistentemente correlate al benessere soggettivo vi sono la repressione delle emozioni negative potenzialmente minacciose, la fiducia, la stabilità emotiva, il desiderio di controllo, l’affettività positiva e l’autostima.

La ricerca ha dimostrato che quando i singoli tratti vengono raggruppati in base alle dimensioni del Big Five (Caprara, Barbaranelli and Borgogni, 1993) il nevroticismo risulta essere il migliore predittore delle varie componenti del benessere soggettivo; in particolare, è associato a scarsa soddisfazione, alti livelli di emozioni spiacevoli e bassi livelli di emozioni piacevoli.

Per quel che concerne il ruolo degli eventi di vita nel benessere soggettivo, Cohen (1988) osserva che la relazione fra gli eventi di vita e il benessere psicologico non è di natura diretta, ma è mediata da altre variabili: le caratteristiche ambientali, come la presenza di sostegno sociale, e quelle di personalità.

Alcuni tratti specifici predisporrebbero le persone ad andare incontro a eventi positivi o negativi (Magnus et. al., 1993); si è visto che chi è estroverso possiede abilità sociali più efficaci e tende a scegliere attività sociali piacevoli, fattori che aumentano la probabilità di sperimentare eventi positivi (Argyle & Martin, 1991).

L’importanza degli eventi di vita per il benessere psicologico è stata sottolineata da Holmes e Rahe (1969), che indicarono già trent’anni fa come l’accumulo di eventi di vita possa essere all’origine di disturbi psicologici. L’elemento critico è l’entità del cambiamento e quindi lo sforzo conseguente di adattarsi; in questo senso anche eventi positivi o piccole seccature quotidiane possono produrre effetti negativi.

Si è trovato, inoltre, che l’esperienza di eventi critici come incidenti stradali o malattie può ridurre il benessere attraverso una modificazione delle credenze ottimistiche e del proprio controllo personale: le persone tenderebbero, infatti, a percepirsi più vulnerabili e indifese nei confronti del futuro dopo avere avuto esperienze di questo tipo (Gluhoski & Wortman, 1996).

Lo scarso potere predittivo delle variabili demografiche ha indotto, inoltre, i ricercatori a considerare anche il processo di adattamento dei soggetti alle nuove situazioni. Le persone inizialmente reagirebbero in maniera forte agli eventi e alle circostanze, ma poi, in poco tempo, ritornerebbero al livello di base iniziale. Uno studio di Silver (1980) condotto con soggetti che avevano subito incidenti gravi ha mostrato che le emozioni iniziali spiacevoli tendevano ad attenuarsi nel corso del tempo.

Il nucleo della teoria dell’adattamento è l’ipotesi che il verificarsi di eventi molto positivi o molto negativi induca a una modificazione delle proprie aspettative e dei criteri personali di una buona qualità della vita, col risultato che l’effetto inizialmente negativo o positivo tende ad attenuarsi.

Secondo Taylor (1983), invece, l’adattamento sarebbe il risultato di strategie di fronteggiamento atte a recuperare la percezione del controllo sugli eventi e a rafforzare la propria autostima, conducendo al ripristino di una condizione di relativo benessere soggettivo.

© Stile repressore e benessere – Margherita Monti

 

I fattori che influenzano il benessere soggettivo

I fattori che influenzano il benessere soggettivo

 

Le variabili socio-demografiche

Le ricerche partono dal presupposto che il benessere dipenda sia dalle condizioni di vita oggettive, sia dal modo in cui queste vengono esperite e valutate dai soggetti; per esaminare questi aspetti si raccolgono informazioni su una vasta gamma di “ambiti della vita” (Andrews, & Withney,1976), spesso definiti a priori dai ricercatori e in seguito uniti per avere un indice complessivo. La concezione che sta alla base di questo approccio è di tipo sommatorio o bottom-up; assume, cioè, che il senso di benessere scaturisca da un qualche tipo di combinazione (somma o media) di momenti ed esperienze piacevoli, che si riferiscono ad ambiti specifici (vita familiare, matrimonio, situazione finanziaria ecc.).

Per valutare i fattori che influenzano il benessere soggettivo si esamina, attraverso un approccio correlazionale, la differenza nei giudizi di benessere prodotti dalle persone, che differiscono sulla base delle specifiche variabili socio-demografiche e oggettive. I risultati di numerose indagini hanno indicato che i giudizi di benessere non differiscono in misura rilevante in base a variabili come l’età, il sesso e la razza (Andrew & Withney, 1976; Campbell et al., 1976). Sono state riscontrate, invece  differenze significative nei livelli di benessere su variabili oggettive come il reddito, la condizione di disoccupato (Bradburn, 1969; Campbell et al., 1976), le amicizie, le relazioni affettive e naturalmente la salute (Campbell et al., 1976; Lewinson et al., 1991). Per quanto concerne quest’ultimo campo d’interesse, per esempio, numerosi studi si sono concentrati sulle conseguenze delle malattie respiratorie sul benessere e sull’umore dell’individuo.

Da uno studio di Borak, Sliwinski, Tobiasz, Gorecka & Zielinski (1996), effettuato su 90 pazienti affetti da Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva valutati sia prima che dopo un anno di ossigeno- terapia, è emerso che prima del trattamento i pazienti presentavano umore depresso, scarsa autostima e mancanza di interessi, segni di ansia, stress mentale e depressione. Dopo un anno di trattamento i pazienti dimostravano significativi miglioramenti nell’umore e nei pensieri.

Da un altro studio (Monsò et al., 1998) si è rilevato che i pazienti affetti da BPCO presentano, oltre a sofferenze fisiche, anche reazioni emotive, isolamento sociale e disturbi del sonno.

Il benessere risulta essere correlato anche con i disturbi ansiosi e dell’umore (Bech, Angst, 1996; Schonfeld, Verhoncoeur, Fifer, Lipschutz, Lubeck & Buesching, 1997).

In un recente studio di Ottolini et al. (2004) sul benessere psicologico e sulla sintomatologia residua nel disturbo di panico, si sono confrontati 30 pazienti con disturbo di panico e agorafobia in fase di remissione dalla malattia, in seguito a psicoterapia comportamentale, con un gruppo di controllo, reclutato tramite inserzioni e bilanciato con il gruppo dei pazienti in base alle categorie socio-demografiche. Per indagare il benessere si è utilizzata la scala del benessere psicologico (PWB) di Ryff (1989). I pazienti manifestano livelli di benessere peggiori, rispetto al gruppo di controllo: difficoltà nella gestione di situazioni di vita quotidiana (deficit nella padronanza ambientale), sensazione di essere ad un punto di stallo (deficit nella crescita personale), insoddisfazione riguardo se stessi (deficit nell’autoaccettazione) e poche mete e obiettivi da raggiungere nella vita (deficit nello scopo nella vita).

Altri fattori correlati con il benessere sono l’istruzione (Campbell et al., 1976), l’attività lavorativa e le attività del tempo libero (Argyle, 1987). Sembrerebbe infatti che livelli più alti d’istruzione portano le persone a sentirsi più sicure di sé e a giudicarsi con più valore.  Quando la professione si avvicina al nostro ideale di occupazione, che è maggiormente possibile con un livello di istruzione più alta, le persone si sentono più realizzate e soddisfatte di ciò che stanno facendo.

Il processo cognitivo e di giudizio sociale

La Social Cognition ha messo in luce come il modo in cui le persone percepiscono e valutano il mondo circostante ha un ruolo fondamentale nei sentimenti di benessere (Taylor, 1983). Le persone utilizzano meccanismi di pensiero e ragionamento che sono normali e adattivi in condizioni regolari ma, se usati troppo spesso e in modo inappropriato, possono far nascere sentimenti di disagio e infelicità, arrivando alla depressione (Legrenzi, 1998). Uno di questi comportamenti è l’illusione di avere controllo sugli eventi ovvero la convinzione di possedere maggior controllo di quanto se ne abbia effettivamente; questa certezza sorge da una motivazione innata al controllo e rinforzata mediante le competenze acquisite e le esperienze personali (Bandura, 1995; Skinner, 1995). Un altro fenomeno è l’ottimismo irrealistico, cioè la convinzione di essere meno vulnerabili, rispetto ad altre persone, agli eventi e alle situazioni negative e quindi di essere più esposti a circostanze positive.

Vari studi hanno dimostrato che le persone con livelli di benessere soggettivo superiori sopravvalutano il loro controllo sulle situazioni e sulle azioni, si aspettano per il futuro più eventi positivi e sottovalutano la probabilità di incontrare eventi negativi (Taylor & Brown, 1988; Taylor & Armor, 1996). Tali credenze sono strettamente correlate ai processi di spiegazione delle cause degli eventi e delle strategie di coping utilizzate (Skinner, 1995); chi è convinto di avere controllo sugli eventi affronta meglio lo stress poiché tende ad adottare strategie di fronteggiamento più efficaci, mentre la perdita di controllo abbassa il morale e peggiora la salute. Le persone depresse tendono a fare attribuzioni interne per gli eventi negativi, colpevolizzandosi, a ritenere che tali eventi coinvolgano altre sfere della vita e a credere che si ripresenteranno nel futuro. Le persone felici invece tendono a compiere attribuzioni interne, stabili e globali per gli eventi positivi (Argyle & Martin, 1991).

Al fine di modificare questi stili esplicativi depressivi esistono tecniche che mirano ad insegnare il pensiero positivo (Seligman, 1996) e ad avere controllo sui propri pensieri (Larsen et al., 1987).

Alcune teorie del benessere, chiamate anche “teorie del giudizio” o “teorie dei confronti” (Diener, 1984), mettono in luce come i fattori che influenzano il benessere non sono stabili nel tempo, ma variano in base alle circostanze e ai criteri personali che le persone utilizzano per valutare la propria vita.

Nella “teoria del confronto sociale” vi è l’assunto che le persone interpretano la propria vita confrontando le condizioni attuali con uno standard che è determinato dal livello delle altre persone. I soggetti che risultano favoriti dal confronto con lo standard sociale saranno soddisfatti e proveranno emozioni positive mentre, se il processo darà esiti negativi, si prevedono sentimenti di tristezza e ansia (Buunk, Gibbons & Reis-Bergan, 1997). Tale approccio si basa sull’idea che la soddisfazione per la vita non dipende solo dalla posizione assoluta di una persona, ma anche dalla posizione delle altre persone con cui ci si confronta. Queste possono essere presenti nell’ambiente più immediato oppure ricercate attivamente dalla persona a seconda degli scopi che vuole raggiungere; in alcuni casi le persone si costruiscono una persona immaginaria con cui confrontarsi. Il soggetto in questo modo può guardare gli altri nel tentativo di trovare motivazione ad agire e migliorare il proprio umore, ad esempio osservando chi è in condizioni più sfavorevoli di lui oppure chi si trova in circostanze superiori, servendo come modello.

Questo processo è particolarmente evidente in pazienti con malattie gravi (Gibbons, 1997) e in anziani che cercano di adattarsi al declino associato all’età (Baltes, 1990; Hendrich & Ryff, 1995).

Un altro approccio conosciuto come “teoria degli approcci multipli” deriva dalla Multiple Discrepancy Theory (Michalos, 1995). Questo modello, che appare più integrato, sostiene che le persone utilizzano una serie di criteri nel valutare la propria vita. La soddisfazione dipenderebbe dalla grandezza del divario frà ciò che il soggetto ha e quello che vorrebbe avere, o quello che gli altri hanno, o ciò che pensa di meritare o di aver bisogno; la presenza di divari tra le condizioni attuali e i gli standard di riferimento è ritenuta causa di insoddisfazione, mentre la corrispondenza fra i diversi aspetti è indice di benessere.

© Stile repressore e benessere – Margherita Monti