Strategie di riduzione degli effetti negativi delle meta-attribuzioni intergruppi

Strategie di riduzione degli effetti negativi delle meta-attribuzioni intergruppi

 

Come si è visto nel Capitolo 2, l’ansia intergruppi è un mediatore nella relazione tra contatto intergruppi e atteggiamento verso l’outgroup (Brown & Hewstone, 2005): il contatto risulta avere effetti positivi nella misura in cui esso riduce l’ansia, che è strettamente legata non solo alla familiarità con l’outgroup ma anche alle meta-attribuzioni su di esso. Frey e Tropp (2004) si concentrano sul ruolo delle meta-attribuzioni nel capire quali strategie possono essere efficaci nel rendere il contatto intergruppi un’esperienza che influisce positivamente sugli atteggiamenti verso l’outgroup, soffermandosi in particolare su come queste strategie influenzano le meta-attribuzioni piuttosto che su come possano essere usate per migliorare gli atteggiamenti intergruppi. Essi individuano tre strategie principali per migliorare le meta-attribuzioni: minimizzare la salienza dell’appartenenza al gruppo, modificare l’attribuzione di prototipicità e ristrutturare la relazione intergruppi.

La prima strategia consiste nel minimizzare la salienza dell’appartenenza di gruppo durante l’interazione, basandosi sull’ipotesi che la dissimilarità percepita con l’outgroup cresce con tale salienza, e che ciò porta ad una meta-attribuzione negativa. Ciò permette alla persona di aspettarsi di esser visto come individuo anziché come membro del gruppo, incoraggiando la presunzione di similarità con l’outgroup e quindi l’utilizzo della proiezione di se stessi nella formazione della meta-attribuzione e non degli stereotipi (Kenny & DePaulo, 1993).

Inoltre, minimizzare la salienza riduce l’ansia intergruppi facendo percepire alla persona di essere più vicino ad un contesto intragruppo piuttosto che intergruppi. Questa strategia ha però alcune limitazioni: innanzitutto, se i gruppi sono visivamente distinguibili (es. gruppi razziali), anche tendando di ridurre la salienza dell’appartenenza, i membri continueranno ad essere consapevoli delle differenze reciproche, credendo di essere comunque percepiti in termini di appartenenza al proprio gruppo. Inoltre, anche se si riuscisse a ridurre questa salienza, si avrebbe un potenziale miglioramento nelle meta-attribuzioni dei membri individuali dei due gruppi, ma gli effetti generali sulla meta-attribuzione futura dell’intero outgroup sarebbero limitati.

La seconda strategia mira invece ad alterare il grado in cui le persone sono percepite come prototipiche del proprio gruppo. La ricerca sulla tipicità suggerisce che un contatto positivo con un membro prototipico dell’outgroup può portare ad atteggiamenti positivi verso l’intero outgroup (Ensari & Miller, 2002). Però, in particolare durante le fasi iniziali del contatto, l’aspettarsi di essere visti come membri tipici dell’outgroup può aumentare il sentimento di ansia intergruppi. Di conseguenza, se si riuscisse a motivare le persone in modo che esse non sentano di essere percepite dall’outgroup in maniera prototipica (ad esempio facendole allontanare dagli stereotipi negativi del proprio gruppo, o facendo sì che convincano l’outgroup che questi stereotipi non appartengono anche a loro) si avrebbe una notevole riduzione dell’ansia intergruppi, ed un corrispondente miglioramento delle meta-attribuzioni.

Anche questa strategia mostra delle limitazioni: il contesto sociale spesso impedisce questo cambiamento della rappresentazione di se stessi agli altri. Ciò, quindi, fa convincere le persone che la percezione da parte dell’outgroup non può essere modificata, li credere incapaci di modificare l’impressione che danno di loro e, addirittura, aumenta in alcuni casi l’ansia intergruppi (Shelton, 2003).
Relativamente alla terza strategia, cioè la ristrutturazione delle relazione intergruppi , assumendo che le persone si aspettano, in generale, di essere accettate e viste in modo favorevole dai membri del proprio gruppo (Krueger, 1996) e, di contro, di essere respinte o valutate negativamente da quelle dell’outgroup, Frey e Tropp (2004) evidenziano che il modo più efficace per migliorare le meta-attribuzioni intragruppo e convertirle in effetti positivi generalizzati verso l’intero outgroup è quello di far sì che le persone credano di essere percepite dai membri dell’outgroup in maniera analoga a quanto farebbero i membri dell’ingroup. Questa strategia, oltre ad indurre un cambiamento positivo nelle meta-attribuzioni, sarebbe persistente anche con elevata salienza dell’appartenenza di gruppo ed in presenza di membri prototipici, perché porterebbe ad una minor percezione di contrapposizione tra i gruppi.
Nel dettaglio Frey e Tropp (2004) suggeriscono alcune strategie di ristrutturazione della relazione intergruppi che sono già state trattate nei primi due capitoli, evidenziandone però gli effetti sulle metapercezoni piuttosto che sull’atteggiamento generale verso l’outgroup. La prima di queste, coerente con il modello dell’identità comune dell’ingroup (Gaertner & Dovidio, 2000) consiste nel creare una categoria sovraordinata che contenga entrambi i gruppi, facendo sì che le persone non si percepiscano più come membri di gruppi diversi ma abbiano un’appartenenza condivisa al gruppo sovraordinato: in questo modo, le persone si aspetterebbero di essere viste dai membri dell’outgroup in maniera analoga a quanto farebbero i membri del proprio ingroup, portando quindi a meta-attribuzioni più positive e ad una minore ansia intergruppi.

La seconda strategia descritta si basa sul contatto, in particolare le amicizie intergruppi, cioè sulla connessione psicologica che emerge quando si creano delle relazioni strette che superano i confini di gruppo (Paolini, Hewstone, Cairns & Voci, 2004), e attivano meccanismi come l’IOS: in questo caso, ai membri dell’outgroup vengono garantiti gli stessi benefici tipicamente garantiti a sé ed ai membri dell’ingroup, i confini di gruppi diventano permeabili ed emerge un senso di interconnessione tra ingroup e outgroup. Oltre a migliorare gli atteggiamenti intergruppi in modo diretto, questo senso di connessione induce una meta-attribuzione positiva, che a sua volta incoraggia ulteriormente questo cambiamento negli atteggiamenti. In particolare, relazioni strette come le amicizie cross-group dirette, ma anche quelle estese, sono un fattore critico nel minimizzare l’ansia delle future interazioni cross-group, che a sua volta funge da mediatore nella relazione tra amicizia cross-group e atteggiamenti positivi verso l’outgroup.

Per concludere, gli autori prospettano studi futuri sul legame tra la riduzione dell’ansia nelle amicizie cross-group e le meta-attribuzioni conseguenti, e tra il miglioramento di quest’ultime e lo sviluppo di atteggiamenti intergruppi positivi.

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

Effetti delle meta-attribuzioni sulle relazioni intergruppi

Effetti delle meta-attribuzioni sulle relazioni intergruppi

 

In questa sezione si considerano gli effetti delle meta-attribuzioni sulle relazioni intergruppi. Frey e Tropp (2004) propongono che nell’interazione iniziale le persone tentino di capire se sono viste come individui o come gruppi, il che dipende principalmente dal grado con cui percepiscono saliente l’appartenenza al gruppo.

Alcune situazioni possono essere ambigue, nel caso in cui anche percependo come saliente l’appartenenza al gruppo si è incerti se gli altri ci rispondono in questi termini. Generalmente, il sentire i membri degli outgroup percepirci in termini di membri del gruppo porta ad una meta-attribuzione negativa e stereotipica, che a sua volta ha conseguenze sul proprio comportamento verso l’outgroup. Infatti, l’aspettarsi di essere visti negativamente ha diverse conseguenze negative: le persone tendono a disprezzare coloro che li valutano, e a valutarli a loro volta in maniera negativa (Hollbach & Otten, 2003) alimentando in alcuni casi il pregiudizio intergruppi. Ad esempio, la percezione di essere oggetto di pregiudizio da parte degli Americani bianchi porta gli AfroAmericani ad avere atteggiamenti prevenuti verso l’outgroup. Inoltre, coerentemente con quanto trattato nel Capitolo 2, l’aspettativa di un’opinione negativa e stereotipica da parte dei membri dell’outgroup può incrementare l’ansia intergruppi, facendo sentire le persone minacciate e a disagio, e portandole a loro volta ad evitare i membri dell’outgroup. Questo rende quindi i contatti intergruppi meno probabili, e preclude i loro effetti potenzialmente positivi (Blair, Park & Bachelor, 2003).

Quando non possono essere evitate queste interazioni, l’ansia associata alle meta-attribuzioni negative fa sì che si agisca in maniera meno spontanea e rilassata, specialmente tramite comportamenti non verbali, come evitare lo sguardo dell’interlocutore: ciò rende l’interazione spiacevole e crea un circolo vizioso che inibisce la volontà di interagire con i membri dell’outgroup in futuro.

L’ansia provata può anche influenzare la capacità di interpretazione delle informazioni sui membri dell’outgroup, riducendo l’attenzione e l’elaborazione delle stesse ed incrementando la tendenza a percepire l’outgroup in maniera stereotipica. Infine, la sensazione di minaccia spesso può spingere le persone ad applicare stereotipi negativi ai membri dell’outgroup, rendendo l’interazione difficile e priva di effetti positivi.

 

 

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Formazione delle meta attribuzioni in contesti intragruppo e intergruppi

Formazione delle meta-attribuzioni in contesti intragruppo e intergruppi

 

La salienza o meno dell’appartenenza di gruppo fa sì che le persone pensino di essere percepite in termini di gruppo o in termini di individuo, e ciò influenza fortemente le strategie che vengono utilizzate per la formazione della meta-attribuzioni.

Diverse teorie della psicologia sociale hanno dimostrato che le persone tendono a vedere in maniera maggiormente positiva il proprio ingroup, e a credere che anche l’ingroup lo veda positivamente, mentre tendono a non fidarsi dei membri dell’outgroup, aspettandosi di essere valutati negativamente o che questi abbiano intenzioni negative nei suoi confronti.

Inoltre, è stato dimostrato, sia per gruppi creati artificialmente sia per gruppi minimali, che si tende a credere che i membri del proprio gruppo siano più simili a sé e abbiano opinioni e convinzioni simili alle proprie; viceversa, i membri dell’outgroup sono visti come maggiormente diversi e si crede che lo siano anche le loro opinioni. Ciò può portare anche ad aspettarsi che le proprie caratteristiche reali siano meno trasparenti per i membri dell’outgroup rispetto a quanto lo sono per quelli dell’ingroup. Secondo Ames (2004) ciò coinvolge la formazione delle meta-attribuzioni, che sono maggiormente basate sulla proiezione quando ci si sente simili all’osservatore, mentre sono maggiormente basate sugli stereotipi quando ci si sente diversi. Frey e Tropp (2004) descrivono strategie di formazione delle meta-attribuzioni differenti per i contesti intragruppo e per quelli intergruppi.

Nei contesti intragruppo le persone si sentono solitamente più a proprio agio, assumendo che gli altri membri dell’ingroup abbiano dei punti di vista simili ai propri: in queste situazioni la proiezione degli stati mentali sui membri dell’ingroup è più robusta. È da evidenziare come in questi casi l’immagine di sé che proiettano sia quella di un membro di un gruppo, in particolare se l’appartenenza di gruppo è saliente (per cui ci si aspetta di essere percepiti come tali). Questo processo è coerente con gli studi sull’auto-stereotipizzazione, per cui se l’appartenenza è saliente le persone tendono a vedersi mediante le caratteristiche positive che distinguono il proprio gruppo; inoltre, si accentua la similarità percepita e l’attrazione verso altri membri che mostrano le stesse caratteristiche prototipiche. In questo caso, le persone proiettano una visione positiva di se stesse in quanto membri dell’ingroup con le caratteristiche positive prototipiche. In base al grado in cui le persone si ritengono rappresentative delle caratteristiche del proprio ingroup, può variare l’immagine che hanno di se stesse e che può essere proiettata sugli altri: in sostanza, anche se membri con bassa prototipicità possono aspettarsi di essere percepiti come membri del gruppo, essi possono anche provare un senso di emarginazione se si aspettano di essere percepiti in modo diverso dalle caratteristiche che definiscono l’ingroup.

Relativamente ai contesti intergruppi, le ricerche sull’identità sociale suggeriscono che quando l’appartenenza di gruppo è saliente si tende anche ad accentuare le differenze tra il proprio gruppo e gli altri (Hogg, 2003). In questi casi le persone, nella loro meta-attribuzione (ovvero nella lettura delle menti altrui), si appoggiano maggiormente alla stereotipizzazione. Ames (2004) dimostra che proiezione e stereotipizzazione sono correlate negativamente, ed in caso di alta dissimilarità percepita, le persone utilizzano principalmente quest’ultima per determinare cosa i membri dell’outgroup pensino di loro. Gli stereotipi possono agire in due modi nella meta-attribuzione. Nei contesti intergruppi, i membri di gruppi differenti hanno una comprensione consensuale delle caratteristiche comunemente associate al proprio gruppo e agli altri: quindi, se da una parte ci si basa sugli stereotipi sull’outgroup per tentare di capire cosa essi pensino di noi (come se questi pensassero a degli oggetti), dall’altro gli stereotipi sul proprio ingroup diventano rilevanti per prevedere qual è l’immagine che si mostra ad essi. Inoltre, visto che generalmente le relazioni intergruppi sono costruite in termini di sfiducia, le persone si aspettano di essere valutate negativamente dall’outgroup, che l’outgroup le percepisca secondo gli stereotipi negativi che caratterizzano l’ingroup (Vorauer & Kumhyr, 2001) e che i membri dell’outgroup le considerino maggiormente stereotipiche del proprio ingroup di quanto le persone ritengano (Frey & Tropp, 2004).

Quindi, mentre nelle meta-attribuzioni intragruppo ci si focalizza sugli stereotipi positivi sull’ingroup, in quella intergruppi si dà più rilevanza agli stereotipi negativi dell’ingroup: ciò dipende anche dalla misura in cui questi stereotipi negativi si ritenga caratterizzino anche il sé. Frey e Tropp (2004) suppongono che, quando non ci si percepisce in base agli stereotipi negativi del proprio gruppo, ci si aspetti in maniera minore di essere percepiti in questo modo e ci si senta in qualche modo maggiormente simili all’outgroup, particolarmente nel caso in cui questi stereotipi sono legati al pregiudizio (Vorauer & Kumhyr, 2001). In sintesi, sebbene le strategie di formazione della meta-attribuzione siano sempre le stesse, i processi di formazione cambiano in diversi modi prevalentemente in base al tipo di contesto: in base alla similarità percepita, se questa è alta (contesto intragruppo) si tende a usare la proiezione anziché la stereotipizzazione; varia anche la valenza della meta-attribuzione, che si basa sulle caratteristiche positive che definiscono l’ingroup nei contesti intragruppo, mentre è basata sulle sue caratteristiche negative nei contesti intergruppi; infine, in base a quanto le persone si sentono membri prototipici del proprio gruppo, varia la percezione che queste caratteristiche (positive o negative) influiscano sull’opinione che gli altri membri dell’ingroup o dell’outgroup si formano di loro.

 

 

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Definizione caratteristiche fattori delle meta-attribuzioni

Definizione, caratteristiche e fattori delle meta-attribuzioni

L’essere umano, oltre a percepire gli altri, ha la marcata tendenza ad elaborare le informazioni sulla percezione che gli altri hanno di lui: questo fenomeno, chiamato “meta-attribuzione”, consiste appunto nel pensare a come gli altri osservatori ci percepiscono.

La ricerca ha analizzato prevalentemente la meta-attribuzione che si forma in un contesto interpersonale, anche se negli ultimi anni è stata approfondita questa teoria estendendola ai contesti intergruppi. Ames (2004) ha elaborato un modello generale della formazione delle meta-attribuzioni nelle relazioni interpersonali, proponendo una serie di strumenti che le persone utilizzano nel provare a leggere le menti altrui (il “mind reader’s tool kit”). In particolare, l’autore suggerisce che la meta-attribuzione si basa sull’osservazione dei comportamenti verbali e non verbali degli altri, nella proiezione del proprio punto di vista in quello altrui e nella stereotipizzazione. Frey e Tropp (2004) aggiungono a questi tre processi di formazione della meta-attribuzione, il tentativo di assumere la prospettiva altrui.

Una delle strategie che le persone usano per capire come gli altri le percepiscono è, come accennato, l’osservazione dei comportamenti altrui; questa, pur essendo spesso l’unica strategia disponibile, porta a conclusioni sbagliate.

Infatti, generalmente si tende a pensare che differenti tipi di osservatori ci vedano in maniera analoga e che i feedback forniti siano esaurienti nel formare le proprie meta-attribuzioni (Kenny & DePaulo 1993). In realtà, è stato dimostrato che le persone non forniscono solitamente dei feedback totalmente onesti e diretti (neanche in caso di amicizia stretta) e quindi essi non sono sufficienti e determinare realmente la percezione che gli altri hanno di noi. Questi feedback sono esaurienti soltanto in alcuni casi particolari, in cui essi non dipendono neanche dalla valutazione positiva o negativa che gli altri formano nella loro mente: ciò è stato dimostrato per bambini in tenera età che esprimono liberamente ed esplicitamente la propria opinione sugli altri (Felson, 1980).

Il secondo strumento utilizzato per la formazione delle meta-attribuzioni coinvolge la tendenza a pensare che gli altri ci vedano come noi stessi ci vediamo, mediante la proiezione della propria visione di se stessi. Le persone che si vedono in maniera positiva pensano generalmente che gli altri li vedano in maniera positiva (accade il viceversa se si ha un opinione negativa di sé).

Anche chi si giudica diversamente in base all’interazione con partner diversi pensa che questi partner li percepiscano diversamente. Infine, le persone credono che i membri dei vari gruppi sociali ai quali appartengono li percepiscano in maniera simile, anche se ciò non corrisponde al vero. Queste tendenze sono dovute a due bias diversi: il primo, chiamato falso consenso fa sì che si sovrastimi il grado con cui gli altri pensano e agiscano in modo simile a se stessi, assumendo che ci sia una corrispondenza tra la propria percezione e quella degli altri; il secondo, chiamato sovrastima della trasparenza fa sì che, all’aumentare dell’autoconsapevolezza della persona, essa tenda a credere che i proprio pensieri e le proprie emozioni siano egualmente chiari e accessibili anche agli altri (Frey & Tropp, 2004).
Quando si tenta di prevedere pensieri e opinioni degli altri (come avviene nella meta-attribuzione), spesso ci si basa sugli stereotipi, in particolare in contesti intergruppi: ciò perché i membri dei gruppi spesso sono consapevoli degli stereotipi che gli altri hanno sul proprio gruppo, e quindi sono influenzati da questa consapevolezza nella formazione delle proprie meta-attribuzioni; ciò accade particolarmente se essi immaginano preventivamente di dover essere percepiti dai membri dell’outgroup.
L’ultimo processo coinvolge il tentativo di assumere la prospettiva degli altri, nel cercare di determinare come essi ci percepiscono. La ricerca sulla presa di prospettiva indica che quando si tenta di assumere la prospettiva altrui le persone attuano un processo reiterato che parte dalla propria prospettiva e si modifica progressivamente, sino a quando si crede di aver raggiunto una stima plausibile della prospettiva altrui (Epley & Gilovich, 2004). In realtà, questi aggiustamenti alla propria prospettiva sono raramente sufficienti, e non si riesce a comprendere pienamente la prospettiva altrui: in questo contesto, ciò suggerisce che è probabile che le persone si aspettino di essere percepite in maniera simile a come si percepiscono, e quindi le meta-attribuzioni che si formano non sono molto differenti da quelle che si svilupperebbero proiettando semplicemente il proprio punto di vista sugli altri.
Frey e Tropp (2004) sottolineano come le persone possano essere viste dagli altri in termini individuali o di appartenenza ad un gruppo, per cui è possibile che si basino su strategie di comprensione della mente altrui differenti se si aspettano di essere viste in un modo o in un altro. La teoria dell’identità sociale infatti distingue due livelli di identità differenti: quella personale, basata sulle proprie caratteristiche individuali, e quella sociale basata sulla propria appartenenza ad un gruppo (Hogg, 2003). La teoria della categorizzazione di sé inoltre espande questo concetto affermando che in base alla situazioni sociali possono emergere diversi livelli di categorizzazione di sé: in particolare alcuni concetti di sé possono attivarsi dipendentemente dal contesto sociale, ed esiste un antagonismo funzionale tra la salienza dell’autocategorizzazione individuale e quella di gruppo (Turner, Hogg, Oakes, Reicher & Wetherell, 1987). Nello specifico, quando l’appartenenza di gruppo è saliente le persone tendono a pensare a se stesse come membri di un gruppo, mentre se ciò non avviene esse considerano maggiormente se stesse come individui. Queste due teorie sono di notevole importanza per stabilire se le meta-attribuzioni che si formano sono di tipo interpersonale o di tipo intergruppi, ed esistono diversi fattori situazionali o individuali che incidono su come la persona si aspetta di essere vista dagli altri (ovvero come singola persona o come membro di un gruppo).
I fattori situazionali che influiscono sulla salienza dell’appartenenza di gruppo sono il conflitto intergruppi, la semplice presenza di un membro di un gruppo, la numerosità relativa dei gruppi e la stigmatizzazione. La presenza di conflitti di gruppo (di tipo materiale o solamente psicologico) ha una notevole influenza nel determinare quanto fortemente le persone siano percepite come membri del rispettivo gruppo. All’intensificarsi di questi conflitti, è più probabile che le persone si percepiscano maggiormente sulla base del proprio gruppo di appartenenza piuttosto che sulle proprie caratteristiche individuali, ed aumenta anche la tendenza a percepire gli altri in base alla loro appartenenza di gruppo. Relativamente alla meta-attribuzione, ciò aumenta la tendenza ad aspettarsi che gli altri ci percepiscano come membri di un gruppo anziché come individui.
Anche in assenza di conflitti intergruppi, la semplice presenza di un membro dell’outgroup promuove il confronto tra gruppi, e il fatto che si percepiscano simultaneamente una somiglianza maggiore con i membri del proprio gruppo e delle differenze più grandi rispetto all’altro provoca la tendenza a percepire sé e gli altri in termini di appartenenza al gruppo. Anche questo fattore porta quindi ad immaginare che gli altri percepiscano noi stessi principalmente come membri di un gruppo.
Analogamente, l’appartenenza ad un gruppo minoritario fa aumentare la salienza dell’appartenenza di gruppo, perché ci si sente maggiormente consapevoli della propria appartenenza e rappresentativi del proprio gruppo.
Infine, l’essere membro di un gruppo stigmatizzato porta ad una maggiore attenzione sulla percezione degli altri verso il proprio gruppo nel tentativo di prevedere come si verrà trattati e di evitare di essere stereotipizzati (come avviene per le donne nel campo della matematica). Anche ciò porta ad aspettarsi percezioni altrui basate sull’appartenenza di gruppo.
I fattori individuali che influiscono sulla salienza dell’appartenenza al gruppo sono invece l’identificazione con l’ingroup, la consapevolezza di appartenervi e la sensibilità ad essere respinti per la propria appartenenza. Gli individui che si identificano fortemente con il proprio gruppo mostrano una maggiore probabilità di considerarsi membri dell’ingroup, di sentirsi simili ai suoi membri, e di essere attratti da essi (in particolare se essi rispecchiano fortemente i valori del gruppo): ciò può portare ad aspettarsi di essere visti in termini di gruppo piuttosto che individuali. Vi sono casi in cui, anche se non vi è una forte identificazione con l’ingroup, la mera consapevolezza di essere membro di un gruppo può aumentare la salienza di appartenenza percepita (Tropp & Wright, 2001): in questo caso, anche se si resiste alla categorizzazione di sé di come membro di un gruppo, distanziandosi da esso, si può ugualmente percepire che gli altri ci vedono come appartenente ad esso (Branscombe & Ellemers, 1998). Inoltre, chi ha questa percezione può interpretare situazioni ambigue in termini di appartenenza al gruppo, aspettandosi di essere respinto dall’outgroup solo in quanto membro dell’ingroup (Mendoza-Denton, Downey, Purdie, Davis & Pietrzak, 2002).

 

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

Il ruolo del corpo nella percezione della mente

Il ruolo del corpo nella percezione della mente

 

Come si è detto, la percezione della mente di individui e gruppi è fortemente legata al modo in cui vengono percepiti, oltre che alle loro caratteristiche intrinseche e a quelle dell’osservatore. Il fenomeno dell’oggettizzazione, legato alla focalizzazione dell’attenzione da parte dell’osservatore sulle caratteristiche fisiche di un’entità, consiste nella percezione di questa come un oggetto inanimato. Nel modello classico dell’oggettivazione
(in cui però ci si concentra soprattutto sulle capacità legate all’agency) ciò comporta una riduzione della percezione della mente, nel senso che i target vengono percepiti con delle capacità mentali ridotte o inesistenti.
Spesso questo processo è legato alla visione delle persone in un contesto sessuale (sessualizzazione), e ciò porta a vederle come mezzi per raggiungere la soddisfazione sessuale; in alcuni casi, ciò può avvenire anche in assenza di desiderio sessuale. Ad esempio, può avvenire oggettivazione (e, di conseguenza, anche una variazione nella percezione della mente) anche verso soggetti che provocano repulsione sessuale, o verso se stessi: è il caso delle donne, in cui l’auto-oggettivazione può portare a disturbi alimentari, depressione e anche autolesionismo (Gray, Knobe, Sheskin, Bloom & Barrett, 2011).
Nella teoria classica, le persone oggettificate sono solitamente viste come meno intelligenti, ambiziose e competenti; anche il semplice focalizzarsi sull’aspetto fisico comporta una percezione di minore competenza e capacità mentale, e di minor sensibilità ed emotività. E’ anche stato dimostrato (Cikara, Eberhardt & Fiske, 2010) che la visione di donne sessualizzate comporta, negli uomini, una minore attivazione delle zone del cervello collegate all’attribuzione degli stati mentali.
Parallelamente all’evoluzione della teoria della percezione della mente (Waytz et al., 2010) è stato approfondito anche il modello dell’oggettizzazione, tenendo conto delle due dimensioni dell’agency e dell’experience: così come la percezione non opera su un continuum monodimensionale ma lungo due assi ortogonali (agency ed experience appunto) anche l’oggettivazione non sembra comportare una classica dementalizzazione (ovvero una semplice riduzione delle capacità mentali da uno stato pienamente “mentale” ad uno di completa assenza mentale) bensì una ridistribuzione della percezione della mente nelle sue due dimensioni (Gray et al., 2011). Secondo le teorie più recenti, l’oggettivazione comporta non solo una rilevante riduzione della mente nella dimensione dell’agency (ovvero nella capacità di pianificare, agire intenzionalmente e autocontrollarsi), ma anche un incremento della percezione nella dimensione dell’experience (cioè la capacità di provare sentimenti, desideri ed emozioni).
Uno studio molto interessante in tal senso è quello di Gray et al. (2011) che, attraverso sei esperimenti, dimostrano come avvenga la percezione della mente al variare degli aspetti su cui si concentra l’attenzione dell’osservatore. Gli autori inizialmente sottolineano, tramite alcuni esempi, come il corpo sia intimamente coinvolto nella percezione delle emozioni e dei sentimenti, e come l’experience sia legata quasi esclusivamente alla carnalità. Infatti, le persone possono attribuire capacità mentali, come competenza o conoscenza, anche ad entità non umane come i robot, ma non avendo questi un corpo umano, sono riluttanti ad attribuire loro capacità di provare emozioni come felicità o paura (Gray et al., 2007); lo stesso avviene per un Dio puramente astratto o per le corporazioni che, anche essendo composte da più persone, non hanno un corpo proprio. La ragione di ciò è che l’experience è mediata da organi fisici come la pelle (la cui sudorazione, ad esempio, esprime paura o panico). E’ quindi evidente come il focalizzarsi sul corpo di qualcuno renda la sua percezione maggiormente legata all’experience. Per spiegare la corrispondente diminuzione dell’agency, gli autori si appoggiano al dualismo tra mente e corpo, che vengono sentiti come distinti o addirittura opposti: la mente è principalmente legata all’agency mentre il corpo è più legato all’experience, anche se entrambe le dimensioni si riferiscono alle capacità mentali dell’entità. Le persone, quindi, hanno la tendenza a vedere gli altri in termini di agency o, in alternativa, di experience, e questo dualismo è stato dimostrato anche in altri ambiti psicologici come nel “moral type-casting” e nella stereotipizzazione citati in precedenza (Fiske et al., 2007). Secondo gli autori e coerentemente con quanto trattato precedentemente (Gray et al., 2007), la responsabilità morale è maggiormente legata alla percezione dell’agency, mentre i diritti morali sono collegati alla percezione di una maggiore experience. Il concetto che il focalizzarsi sul corpo di un’entità non causi una dementalizzazione in senso stretto, ma piuttosto una ridistribuzione delle capacità morali a discapito dell’agency ed a favore dell’experience, ha perciò una serie di implicazioni morali: l’oggettizzazione provoca una diminuzione dell’attribuzione di responsabilità morale a persone o altre entità, ed una maggiore tendenza a garantirne i diritti morali per proteggerli da eventuali aggressioni esterne. Per dimostrare queste teorie vengono descritti di seguito i sei esperimenti condotti da Gray et al. (2011).

Esperimento 1: corpo contro viso
In questo esperimento vengono mostrati ai partecipanti delle foto di due soggetti (maschio e femmina) variando la salienza relativa del corpo, mostrando cioè la foto della sola faccia o di tutta la parte superiore del corpo, e viene testata la variazione della percezione nella mente tramite item sulle capacità mentali del target relativamente all’agency e all’experience. I risultati supportano l’ipotesi che focalizzare l’attenzione sul corpo provochi una redistribuzione della percezione mentale, con un aumento delle capacità collegate all’experience ed una diminuzione di quelle legate all’agency.

Esperimento 2: intelligenza contro sensualità
In questo esperimento si mostrano immagini identiche della stessa persona target manipolando l’attenzione del percipiente, ovvero facendo sì che si focalizzi sulle caratteristiche fisiche o su quelle mentali; cambiando il contesto della valutazione (dall’ambito lavorativo a quello sentimentale), al rispondente si chiedeva di valutare sia le caratteristiche mentali legate all’agency sia quelle legate all’experience. I risultati mostrano che, anche in questo caso, il concentrare l’attenzione sull’aspetto fisico o su quello mentale da parte dell’osservatore induce una ridistribuzione della percezione mentale, che si sposta rispettivamente dall’experience all’agency.

Esperimento 3: vestiti contro nudi
In questo esperimento vengono confermati i risultati precedenti estendendo sia il campione di target, sia i metodi per valutare la percezione della mente nelle due dimensioni. Viene mostrata ai partecipanti una foto tratta di un set di 20 foto che ritraggono dieci soggetti differenti, e sono completamente identiche per quanto riguarda l’illuminazione, l’espressione dei target e la loro postura, con l’unica differenza che in un set di foto essi sono vestiti e nell’altro sono completamente nudi (con l’applicazione di un filtro grafico sulle parti intime).
Si chiede ai partecipanti di valutare dodici capacità mentali (sei legate all’agency, sei legate all’experience). Anche in questo caso, per i target “sessualizzati”, avviene un aumento nella dimensione dell’experience e un decremento dell’agency; quest’ultimo effetto è più marcato rispetto al primo. Si rileva inoltre che le donne in generale attribuiscano più capacità mentali alle donne vestite rispetto a quelle nude; viceversa, attribuiscono più capacità mentali agli uomini nudi che a quelli vestiti (per gli uomini accade il contrario). I risultati portano a supporre che l’oggettizzazione induca principalmente una redistribuzione mentale nelle due dimensioni, mentre la sessualizzazione riduce la percezione mentale sia dell’agency che dell’experience.

Esperimento 4: menti sessualizzate
Per testare quest’ultima affermazione e per testare se la percezione della gente in un contesto sessuale causa una completa dementalizzazione, viene effettuato un quarto esperimento in cui si mostrano tre foto diverse della stessa donna (aumentando la suggestività sessuale della stessa): nella prima foto è completamente vestita, nella seconda è nuda ma non sessualizzata, nella terza essa è nuda e sessualizzata. La valutazione delle percezione della mente nelle sue due dimensioni è simile a quella risultante dall’Esperimento 1. Anche in questo caso, l’oggettizzazione fa sì che aumenti l’experience percepita e contemporaneamente diminuisca l’agency; questo effetto si intensifica aumentando la suggestività sessuale delle foto, cioè nella condizione in cui il target è nudo e sessualizzato.
Nei due esperimenti successivi si analizza il legame tra l’oggettizzazione delle persone e le corrispondenti implicazioni morali.

Esperimento 5: mentalità e moralità
Si è visto come venga attribuita maggiore experience e minor agency se l’esposizione di una persona o la mentalità dell’osservatore si focalizzano sul corpo; avendo evidenziato il legame tra le due dimensioni della mente, le responsabilità e i diritti morali, si testano quali siano gli effetti morali di questo processo. Secondo l’ipotesi che una percezione di maggiore agency porti a visualizzare la persona come un’agente morale, e che viceversa la percezione di una maggiore experience porti alla visione di un paziente morale, vengono presentati ai partecipanti due target, uno percepito in maniera più razionale ed un altro in maniera più emozionale, ponendo entrambi in due situazioni diverse in cui sono, rispettivamente, aggrediti o compiono degli atti disdicevoli. I risultati, come previsto, mostrano che il target identificato come razionale viene percepito più come un agente morale che come un paziente morale e, quindi, risulta agli occhi dell’osservatore maggiormente responsabile per i suoi misfatti, e meno soggetto ad aggressioni; per il target più emozionale, accade l’opposto cioè questi viene visto come più incline ad aggredire e meno responsabile per i suoi errori.

Esperimento 6: pelle e shock elettrici
Si è ipotizzato, nel sesto esperimento, che il fatto di percepire qualcuno in maniera più “fisica” possa portare anche ad aspetti positivi, spingendo gli altri a proteggerlo dalle sofferenze ed aumentandone lo status morale anziché diminuirlo. Vengono mostrati ai partecipanti due soggetti in due condizioni diverse, prima completamente vestiti, dopo senza t-shirt e viene chiesto loro, in maniera sottile e suggerendo come obiettivo la protezione della persona interessata, di somministrargli delle scosse elettriche (ovviamente fittizie in realtà) tramite degli elettrodi applicati al petto. Viene quindi chiesto ai partecipanti di valutare la loro visione del target nelle due condizioni, da totalmente fisico a totalmente mentale. I risultati mostrano che oltre a vedere il target come più fisico nella condizione di nudità, i partecipanti gli somministrano un numero minore di scosse elettriche, percependo in questo caso una maggiore experience nel target.
In conclusione, Gray et al. (2011) spiegano alcune delle discrepanze tra il modello classico dell’oggettivazione e i risultati dei sei esperimenti come dovute al sessismo ostile, e al fatto che la ridistribuzione della mente è indipendente dal genere dei target e dei percipienti.
Viene inoltre sottolineato come la comprensione degli altri sia più complessa rispetto a quella definita dal semplice dualismo tra aspetti mentali e aspetti fisici, e che se la categoria mentale contiene la parte della mente collegata all’agency, la categoria fisica include non esclusivamente il corpo ma anche un’altra parte della mente, quella più viscerale legata alle emozioni e alle passioni; queste conclusioni sono coerenti con quelle relative al “moral typecasting”.
Infine, viene corretta l’assunzione per cui la focalizzazione sul corpo comporta necessariamente l’oggettivazione: le persone private del corpo non sono trattate come oggetti ma piuttosto come animali, ovvero sono incapaci di controllarsi o pianificare le proprie azioni, ma possono essere considerate maggiormente sensibili, emozionali e passionali. Tale conclusione è coerente con quanto sostenuto da Haslam e Loughnan (2014) sulla deumanizzazione, secondo cui essa può avvenire assimilando le altre persone ad oggetti privi di natura umana, con una negazione dell’experience, o ad animali privi dell’essenza umana, con una negazione dell’agency

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

Le conseguenze per chi viene percepito

Le conseguenze per chi viene percepito

 

La diversa percezione della mente di un’entità modifica l’interazione delle persone con essa perché implica lo stato morale: ai pazienti morali vengono attribuiti diritti morali, mentre agli agenti vengono attribuite responsabilità morali.

Vista la tendenza all’antropomorfizzazione, le persone assegnano responsabilità morali anche ad entità non umane (come animali e computer) con conseguenze potenzialmente dannose, come quando i genitori puniscono immeritatamente i comportamenti dei figli poiché li giudicano intenzionali.

Come descritto nel primo capitolo, il problema etico più serio nasce dall’attribuzione di capacità mentali ridotte agli altri che porta a minori remore nei loro confronti e quindi a trattarli come animali o oggetti.

D’accordo con la teoria della deumanizzazione (Haslam, 2006) si possono negare le capacità mentali in due modi diversi, legate alle dimensioni di agency ed experience: possono essere negati rispettivamente gli aspetti unicamente umani, come competenza o civiltà, o gli aspetti della natura umana, come calore e vitalità.

In entrambi i casi di deumanizzazione (o dementalizzazione), ci sono conseguenze per l’entità percepita: nel caso si neghi l’experience, esse sono viste come robotiche, fredde e crudeli, incoraggiando le aggressioni verso di loro; se, invece, viene loro negata l’agency, vengono viste come schiavi o animali, giustificando azioni di sfruttamento o negazione dei diritti nei loro confronti (Waytz et al., 2010).

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

Le conseguenze per il percipiente

Le conseguenze per il percipiente

 

Il percepire degli stati mentali (percezione della mente) in un’altra entità intensifica l’esperienza psicologica degli eventi, anche casuali, da parte del percipiente, in quanto gli eventi intenzionali (che possono essere ricorrenti e richiedere una reazione) vengono vissuti in maniera più intensa rispetto a quelli accidentali, e possono indurre a una maggiore elaborazione cognitiva e razionalizzazione. Per esempio, è stato dimostrato che uno shock elettrico risulta più doloroso se somministrato intenzionalmente, e che le persone giudicano le aggressioni intenzionali come più crudeli di quelle accidentali (Cushman, 2008). Inoltre, visto che chi percepisce vuole essere valutato positivamente dagli altri, se si percepisce che le altre entità abbiano una mente si possono intensificare i comportamenti pro sociali. Il credere che esistano delle menti che ci sorveglino è adattivo e solitamente incrementa i comportamenti pro sociali di cui beneficia il proprio ingroup (Graham & Haidt, 2010) e riduce quelli antisociali che possono portare a delle punizioni. Ad esempio, la convinzione che dei e spiriti possano osservare il nostro comportamento porta ad essere meno disonesti o a fare donazioni economiche più generose; anche il semplice evocare le caratteristiche esteriori di una mente (come due occhi che ci osservano) ci spinge a seguire un codice morale punendo chi agisce in maniera sbagliata. In alcuni casi, questo fenomeno può portare a conseguenze personali negative: è il caso degli schizofrenici paranoici, la cui percezione della mente iperattiva gli fa credere di essere costantemente sorvegliati (Crespi & Badcock, 2008). Inoltre, il percepire una mente in un contesto morale può portare a credere che ce ne sia anche una seconda poiché lo schema psicologico per gli eventi morali coinvolge almeno due menti: un agente morale compie l’atto ed un paziente morale che lo subisce. Quindi, se delle persone sono danneggiate o vittimizzate esse cercano un responsabile che può essere un’altra persona, un animale o Dio; viceversa, quando vedono un comportamento moralmente sbagliato immaginano la presenza di una vittima che lo subisca.

I percipienti tendono anche a caratterizzare agenti e pazienti morali secondo il loro aspetto mentale prevalente mediante il fenomeno definito “moral type-casting”, ignorando l’experience degli agenti e l’agency dei pazienti: ciò spiega la riluttanza a criticare le vittime o come compiere atti morali incrementi l’agency della persona. L’attribuzione di minori capacità mentali ad un’entità riduce anche il suo stato morale, portando a giustificare le proprie responsabilità dopo aver aggredito qualcuno, percependo quest’ultimo come mancante di capacità mentali. In definitiva, la percezione della mente è legata in modo inscindibile alla moralità anche perché gli eventi morali (punizioni o ricompense) sono principalmente eventi sociali.

 

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

Le cause per chi viene percepito

Le cause per chi viene percepito

Anche le caratteristiche dell’entità che vengono percepite possono influenzare la percezione della mente: chi agisce in modo imprevedibile evoca il bisogno di controllo e viene visto come più mentale rispetto a chi agisce in modo prevedibile (Waytz, 2010); allo stesso modo, entità che producono effetti negativi o che commettono più atti negativi che positivi sono visti come più intenzionali (Knobe, 2006); infine, tendando di capire la sofferenza piuttosto che la salvezza si tende a credere in un Dio agente (Gray & Wegner, 2010).

Riguardo alla similarità percepita ad entità non umane (come i robot), viene attribuita più mente se hanno un’apparenza umana, e le persone che sono più simili a sé sono viste come “più mentali” (persone con opinioni politiche vicino alle nostre sono viste come più razionali, mentre gli altri sono meno oggettivi e capaci di analisi logica). Inoltre, anche alle entità che ci piacciono vengono attribuite più capacità mentali rispetto a chi non ci piace: nelle relazioni intergruppi si tende ad attribuire meno emozioni secondarie e stati mentali ai membri dell’outgroup rispetto ai membri dell’ingroup (Boccato, 2007), e la presenza di membri dell’outgroup provoca una minore attivazione della corteccia pre frontale mediale, regione del cervello coinvolta nella percezione della mente (Waytz et al., 2010).

Infine, avviene deumanizzazione (o dementalizzazione) per agenti specifici che non ci piacciono (come persone che ci respingono) o quando l’attenzione si concentra solo sul corpo di una persona (oggettivazione) e non sulla mente di quest’ultima.

Recenti studi dimostrano che l’oggettivazione non consiste in una dementalizzazione vera e propria, bensì in una ridistribuzione della percezione della mente nelle due dimensioni che la caratterizzano (agency ed experience); se ne tratterà più diffusamente nel prossimo sottocapitolo.

 

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

Le cause per chi percepisce la mente

Le cause per chi percepisce la mente

 

Gli esseri umani prendono in considerazione le capacità mentali degli altri se devono perseguire degli scopi immediati, che sono la comprensione, previsione e controllo dei comportamenti altrui e lo sviluppo di connessioni sociali con altri agenti (Epley, 2007). Ma quali sono i fattori che innescano questi meccanismi e quindi aumentano la tendenza di percepire le menti altrui?

L’incertezza causale è l’innesco principale per la previsione e il controllo: infatti l’attribuzione di stati mentali come intenzioni, desideri e sensazioni risulta il modo più semplice di spiegare i comportamenti di entità indipendenti rispetto ad elaborazioni causali più complesse (Bering, 2002). Ciò avviene in particolare sotto un elevato carico cognitivo; ad esempio, gli adulti tendono a spiegare gli eventi naturali attraverso la loro funzione (“piove per fare crescere le piante”) o si associano malati di Alzheimer ai bambini (in quanto ad entrambi mancano alcune abilità mentali).

Un fattore analogo di innesco è la mancanza di controllo da parte della persona, come avviene in eventi casuali o incontrollabili (casi in cui si tende a credere in un Dio capace di pianificare intenzionalmente gli eventi). Allo stesso modo, davanti all’impossibilità di evitare la morte, le persone tendono a credere ad entità sovrannaturali che possano dare sicurezza e fare ambire all’immortalità incrementando il senso personale di controllo (Kat, 2010; Norenzayan & Hansen, 2006).

Per quanto riguarda la ricerca di connessione sociale con un’altra entità, il considerare il suo stato mentale tramite l’assunzione di prospettiva aumenta la similarità percepita (Ames, 2008). Analogamente, il bisogno di appartenenza spinge ad una maggiore attenzione alle espressioni e ad i toni vocali (e quindi agli stati mentali dell’altro), e situazioni di solitudine (naturale o indotta) spinge le persone ad attribuire stati mentali ad animali ed oggetti e fa credere maggiormente alla presenza di entità sovrannaturali.

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

La struttura della percezione della mente

La struttura della percezione della mente

Waytz et al. (2010) evidenziano come la rappresentazione bidimensionale (agency e experience) sia emersa anche in altri settori della ricerca psicologica, come la distinzione tra natura umana e unicità umana (già trattate dettagliatamente nel primo capitolo da Haslam e Leyens) o le due dimensioni fondamentali della valutazione sociale che distingue tra calore e competenza (Fiske, 2002). Nel dettaglio, l’experience viene collegata rispettivamente alla natura umana e al calore, mentre l’agency viene collegata all’unicità umana e alla competenza. Si può quindi comprendere il legame esistente tra il processo di percezione della mente, i fenomeni di deumanizzazioneinfraumanizzazione e di valutazione sociale, e come, per un efficace strategia di riduzione del pregiudizio, sia utile considerare queste teorie psicologiche, solitamente distinte.

Nei processi di attribuzione della mente ad altre entità (siano esse persone o gruppi) un fattore di complessità è dato dal fatto che sono coinvolte due menti differenti, quella del percipiente e quella dell’entità che viene percepita: ciò comporta che la struttura di questo processo sia rappresentabile con uno schema 2×2 (come da Figura 4), in cui sia le cause che le conseguenze sono suddivisibili in due categorie legate ai due attori coinvolti. Vengono adesso analizzate nel dettaglio le cause e le conseguenze della percezione della mente legate rispettivamente al percipiente e al percepito.

Figura 4 – Cause e conseguenze della percezione della mente per il percipiente ed il percepito (da Gray et al., 2011)

 

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa