Intelligenza Emotiva ed Altruismo: Computer e procedura

Intelligenza Emotiva ed Altruismo: Computer e procedura

 

Computer

Per la presentazione degli stimoli è stato usato un computer con un processore di 2,4 GHz ed un monitor da 21 pollici.

La frequenza di aggiornamento del dispositivo era di 60Hz e la risoluzione di 1440×900 pixel.

Le dimensioni dello stimolo che i partecipanti dovevano cliccare era di 154 x 168 pixel.

Procedura

Per prima cosa i partecipanti venivano condotti in laboratorio e veniva loro chiesto di compilare i 30 item del  PANAS-X. In particolare veniva detto che dovevano riportare l’intensità dei sentimenti che provavano in quel preciso istante. Non appena finivano di compilare il questionario i partecipanti venivano fatti accomodare al computer e gli venivano mostrate le istruzioni del compito che avrebbero affrontato.

Leggevano che il compito consisteva in 5 blocchi e che in ogni dovevano impegnarsi per salvare un bambino diverso e che avrebbero dovuto muovereil cursore del mouse da punto centrale di fissazione centrale alla foto che sarebbe comparsa casualmente in uno dei quattro angoli dello schermo e che avrebbero dovuto cliccare sulla foto premendo il tasto sinistro del mouse.

In aggiunta, veniva detto loro che era importante che rispondessero entro 500 ms dal momento che dalla velocità e dall’accuratezza con cui avrebbero eseguito questo compito sarebbe dipeso l’ammontare di soldi che avrebbero accumulato per salvare il bambino (per ogni risposta avrebbero accumulato 1 euro).

Nelle istruzioni poi veniva detto che alla fine di ogni blocco avrebbero ricevuto un feedback riguardo al risultato.

Dopo aver letto queste istruzioni e aver fatto pratica con un blocco di prova, i partecipanti iniziavano il compito. In ogni blocco compariva un bambino diverso ma la procedura era impostata in modo tale che tutti i partecipanti vedessero gli stessi bambini nello stesso ordine di comparizione.  Il bambino da salvare compariva ogni volta in un angolo diverso dello schermo. Il tempo di comparizione della foto era di 1000 ms mentre quello del punto di fissazione era di 500 ms. L’angolo dello schermo in cui sarebbe comparsa l’immagine invece non era predeterminato ma casuale. La presentazione degli stimoli e la misura dell’accuratezza e velocità con cui i partecipanti eseguivano le prove è stato usato un ambiente E-prime. Alla fine di ogni blocco i partecipanti ricevevano un feedback sulla loro prestazione (“Sei riuscito a salvare il bambino” in caso di successo o “Non sei riuscito a salvare il bambino” in caso di insuccesso). In realtà, questo feedback era stato manipolato precedentemente. I partecipanti della condizione di feedback positivo riuscivano sempre nell’intento di salvare il bambino mentre quelli nella condizione di feedback negativo invece, per quanto potessero impegnarsi, non riuscivano mai a salvare il bambino.

Alla fine di ogni blocco, dopo aver saputo se avevano o non avevano salvato il bambino, tutti i partecipanti compilavano nuovamente i 30 item del PANAS-X. La sessione sperimentale, poi, terminava con la somministrazione del TEIQue ed il debriefing.

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

Misure dell’affetto: PANAS-X

Misure dell’affetto: PANAS-X

Per la misurazione dell’affetto è stato usata una versione estesa del Positive And Negative Affect Schedule (Watson, Clark e Tellegen, 1988): il Positive And Negative Affect Schede-Expanded (PANAS-X; Watson e Clark, 1999).

Questo questionario è composto da 60 item (40 in più rispetto al PANAS) che misurano due scale di ordine superiore, affetti positivi ed affetti negativi.

In aggiunta, rispetto alla versione da cui è derivato, misura anche 11 affetti specifici: paura, tristezza, colpa, ostilità, timidezza, fatica, sorpresa, giovialità, autostima, attenzione e serenità.

Nell’esperimento qui presentato però venivano usati solo 30 item che misuravano solo 5 di questi affetti specifici: tristezza, colpa, fatica, giovialità ed autostima.

In particolare, il PANAS-X si compone di una lista di parole che descrivono i diversi sentimenti ed i tester devono valutare quanto ciascuna parola corrisponde ai sentimenti provati in quel momento.

Queste valutazioni possono variare da 1 (Per niente) a 5 (Estremamente).

L’affidabilità di questa scala è molto buona per Tristezza, Colpa, Giovialità ed Autostima, dove questa varia dal .94 al .79, mentre è più bassa, per quanto ancora accettabile, per quanto riguarda la Fatica, per la quale varia dal valore minimo di .62 a quello massimo di .72.

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

Misure dell’Intelligenza Emotiva di Tratto: TEIQue-SF

Misure dell’Intelligenza Emotiva di Tratto: TEIQue-SF

L’intelligenza emotiva di tratto veniva misurata tramite il Trait Emotional Intelligence Questionaire-Short Form (TEIQue-SF – Petrides e Furnham, 2006).

Questo questionario è composto da 30 item, due per ognuna delle 15 dimensioni (adattabilità, assertività, espressione delle emozioni, gestione delle emozioni, percezione delle emozioni, regolazione delle emozioni, empatia, felicità, impulsività, ottimismo, abilità nelle relazioni interpersonali, autostima, automotivazione, competenza sociale e gestione dello stress).

 

Queste dimensioni saturano 4 fattori specifici: emozionalità, sociabilità, autocontrollo e benessere ed un fattore generale corrispondente all’intelligenza emotiva di tratto.

I partecipanti segnavano le risposte su una scala Likert che andava da 1 (assolutamente in disaccordo) a 7 (assolutamente d’accordo).

Alcuni esempi di item erano: “Solitamente riesco a trovare il modo di controllare le emozioni quando voglio” oppure “Gli altri mi ammirano per il fatto di riuscire a rimanere rilassato”.

I punteggi di questo questionario vanno da un minimo di 110 ad un massimo di 189 (M = 149,46; SD = 17, 80).

Il TEIQue-SF è dotato di una buona affidabilità: ? = .83.

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

Intelligenza emotiva ed altruismo: Partecipanti

Intelligenza emotiva ed altruismo: Partecipanti

Il campione era composto da 63 studenti dell’Università degli Studi di Padova (55,6 % femmine; età media 24 anni, SD = 2 anni).

Questi partecipanti erano reclutati in buona parte nei pressi della Facoltà di Psicologia, durante l’orario delle lezioni.

L’assegnazione ad una delle due condizioni sperimentali era casuale: 32 partecipanti hanno completato il compito nella condizione di feedback positivo, 31 in quella di feedback negativo.

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

Intelligenza emotiva ed altruismo: Un Esperimento

Intelligenza emotiva ed altruismo: Un Esperimento

Molti studi hanno dimostrato che le emozioni possono influenzare il processo decisionale nell’ambito delle donazioni in beneficenza in molti modi differenti. Quando una persona deve decidere se aiutare un altro  in difficoltà può essere influenzata dal suo stato d’animo (Isen e Mean, 1983; Cialdini et al. 1973; 1976; 1987), dall’interesse empatico che prova nei confronti della vittima (Batson et al. 1978; 1981; 1984; 1997; 2007; Cialdini et al. 1987) ma anche le emozioni elicitate dallo stimolo stesso (Fetherstonaugh et al. 1997; Kogut e Ritov, 2005a; 2005b; Small et al. 2007).

 

Solo di recente invece la ricerca ha cominciato a spostare l’attenzione anche sulle differenze individuali nell’elaborazione di questi affetti. In particolare, è stato mostrato che le persone che hanno più confidenza con i numeri sono meno influenzabili dagli stimoli affettivi rispetto a persone che non lo sono (Small et al. 2007; Dickert, 2008; Dickert et al. 2011).

 

Oltre alle abilità matematiche, un ruolo importante sembrerebbero averlo le strategie con cui le persone regolano le loro emozioni (Cameron e Payne, 2011; Rubaltelli e Agnoli, 2012). Proprio il fatto che differenti abilità nella gestione delle reazioni affettive possano influenzare la decisione di aiutare  qualcuno in difficoltà suggerisce che l’IE di tratto possa avere un ruolo importante come mediatore del comportamento altruistico.

 

Altri studi hanno mostrato che l’IE di tratto gioca un ruolo fondamentale nel determinare il comportamento dell’attore decisionale (Sevdalis et al. 2007). Nessuno studio ha invece mai indagato il ruolo di questo costrutto in relazione ai comportamenti altruistici. L’obiettivo di questo studio è proprio quello di mostrare che l’intelligenza emotiva ha un ruolo determinante nel comportamento altruistico.

A questo scopo è stato messo a punto un paradigma sperimentale. In questo paradigma i partecipanti dovevano affrontare una prova al computer dove la sopravvivenza di 5 bambini in pericolo di vita dipendeva dalla loro prestazione. In particolar modo, le foto di questi bambini comparivano in diversi punti dello schermo del computer e i partecipanti dovevano cliccarle il più velocemente ed accuratamente possibile. L’intera sessione era suddivisa in 5 blocchi, uno per ogni bambino. Al termine di ogni blocco i partecipanti sapevano se erano riusciti o non erano riusciti a salvare il bambino rappresentato nella foto. Tuttavia, questo feedback era stato manipolato sperimentalmente. In una condizione i partecipanti riuscivano sempre a salvare il bambino (feedback positivo), nell’altra condizione invece, per quanto si potessero impegnare, non riuscivano mai nell’intento di salvarlo (feedback negativo). Venivano misurati l’intelligenza emotiva di tratto e lo stato d’animo. Quest’ultimo, in particolare veniva misurato all’inizio e dopo ogni blocco. Venivano misurate anche la velocità e l’accuratezza con cui i partecipanti affrontavano il compito come indicatore della motivazione implicita ad aiutare il bambino.

 

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

 

 

 

 

 

 

 

 

TEIQue: Validità ed altri studi

TEIQue: Validità ed altri studi

Petrides e colleghi (Petrides e Furnham, 2003; Petrides, Pita e Kokkinaki, 2007) hanno sottoposto il TEIQue ad un scrupoloso programma di ricerca per testarne le qualità psicometriche e hanno così mostrato che questo strumento dispone di un ottima validità.   In uno studio in due step, Petrides e Furnham (2003) hanno verificato la validità di costrutto.  In una prima parte somministravano ai partecipanti il TEIQue, insieme ad un inventario di personalità, il NEO PI-R di Costa e McCrae (1992). Il NEO PI-R è una derivazione di un altro questionario di personalità, il Big Five, e misura 5 dimensioni basilari di personalità: Neuroticismo (N), Estroversione (E), Apertura all’esperienza (AE), Amicalità (A) e Coscienziosità (C). Dopo un periodo di 5 mesi i partecipanti dovevano affrontare la seconda parte dell’esperimento che consisteva in una procedura d’induzione dell’emozione. In particolare, ai partecipanti venivano mostrati due video uno disturbante ed uno allegro. Il video disturbante mostrava delle immagini dei campi di concentramento dell’Olocausto. Il video allegro invece mostrava degli sketch comici. Entrambi questi video avevano una durata di circa 3 minuti. Inoltre, i partecipanti dovevano compilare un questionario sull’umore, il Profile of Mood States (POMS: McNair, Lorr e Droppleman, 1992), non appena arrivavano, subito dopo il video disturbante e subito dopo il video comico. I risultati hanno mostrato che, in linea con le ipotesi di Petrides e Furnham (2003), le persone che avevano un alta percezione di autoefficacia emotiva erano anche più sensibili alle manipolazioni di induzione dell’umore.  In particolare, solo questi mostravano un deterioramento significativo dell’umore in seguito al video disturbante (mentre non c’erano differenze significative nel miglioramento dell’umore che seguiva il clip comico). Sembrerebbe dunque che persone con un differente EI di tratto differiscano nelle reazioni a stimoli affettivamente carichi. Questo dato in particolare contrasta l’idea che un quoziente emotivo elevato sia universalmente vantaggioso (e.g. Goleman, 1995).

Petrides, Perez-Gonzalez e Furnham (2007) hanno messo ulteriormente alla prova la validità di costrutto del TEIQue confrontandolo anche ad altri strumenti che misurano lo stesso costrutto. Lo strumento scelto per questo confronto era l’EQ-i di Bar-On (1997) che, come detto sopra, misura anche capacità, abilità e competenze che non sono oblique rispetto all’intelligenza emotiva, tuttavia mostra un ottima affidabilità (.90). In secondo luogo, i suoi limiti fattoriali non erano di particolare rilievo in questo studio.

 

Un primo studio prevedeva la somministrazione di questo strumento insieme al NEO PI-R. Inoltre, in questa ricerca venivano testate anche alcune variabili criterio che gli autori si aspettavano essere correlate con l’intelligenza emotiva di tratto. Queste dimensioni erano: ruminazione, soddisfazione della propria vita e strategie di coping (adattive vs. maladattive). I risultati dell’analisi fattoriale hanno mostrato che l’intelligenza emotiva di tratto era un predittore affidabile di tutte questi criteri. Ad una maggiore punteggio sull’EQ-i corrispondeva una maggiore soddisfazione della vita, una minore ruminazione, oltre che a migliori strategie di far fronte alle emozioni. Inoltre, non solo questi punteggi correlavano con le dimensioni più legate all’affettività del NEO PI-R, ma addirittura spiegavano una parte di varianza aggiuntiva rispetto alle altre variabili. In un secondo studio, Petrides, Perez-Gonzalez et al. (2007) somministrarono, al posto dell’EQ-i, il TEIQue. Inoltre, venivano misurate variabili criterio differenti. Infatti, oltre al coping, altri criteri presi in considerazione erano depressione, attitudini disfunzionali, self-monitoring (automonitoraggio), aggressività verbale e fisica, rabbia e ostilità.  I risultati di questo secondo studio hanno portato non solo ulteriore supporto alla validità di costrutto del TEIQue, ma hanno anche portato supporto alla validità convergente, incrementale e discriminante. Infatti, le misure ottenute da questo strumento erano convergenti rispetto a quelle ottenute nel primo studio con l’EQ-i. Inoltre, tutte le dimensioni prese in considerazione correlavano con l’intelligenza emotiva con l’unica eccezione dell’aggressività verbale, forse perché confusa con l’assertività che invece è correlata con alti punteggi. In aggiunta, il TEIQue incrementava la varianza di tutte le dimensioni, con l’unica eccezione della rabbia. Dunque, questi risultati hanno portato ulteriore conferma non solo alla validità di costrutto, ma anche di quella incrementale e convergente del TEIQue. In aggiunta, il fatto che le misure dell’IE di tratto contribuiscano a spiegare la varianza sia di variabili tipicamente cliniche (depressione e abitudini disfunzionali) sia di variabili tipicamente sociali (self-monitoring ed aggressività) mostra la versatilità di questo strumento. Ancora, i risultati presenti supportano anche la validità discriminante del TEIQue e forniscono importanti informazioni inerenti il fatto che l’IE di tratto sia identificabile all’interno dello spazio fattoriale di personalità. Questo studio implicava il NEO PI-R come criterio di confronto, tuttavia Petrides e colleghi (Petrides, Perez-Gonzalez e Furnham, 2007; Petrides, Pita, Kokkinaki, 2007) hanno trovato risultati simili anche utilizzando altri strumenti per l’indagine di personalità, come l’International Personality Disorder Esamination (IPDE; Loranger, Janca e Sanctorius, 1997) e l’Eysenk Personality Questionnaire  (EPQ; Eysenck & Eysenck, 1975). In particolar modo, per quanto riguarda l’EPQ l’intelligenza emotiva di tratto risultava particolarmente correlato a due dei “grandi tre fattori” misurati da questo test, l’Estroversione e il Nevroticismo, ma non per la terza dimensione, lo Psicoticismo. D’altra parte, quest’ultima dimensione è da sempre quella la cui misurazione risulta più problematica (Eysenck, Eysenck e Barret, 1985). Inoltre, anche in questo caso l’effetto dell’autoefficacia emozionale di tratto permetteva di spiegare la varianza di diverse dimensioni anche quando l’effetto dell’EPQ era controllato. Questi risultati sono importanti perché consentono l’inclusione dell’intelligenza emotiva ditratto all’interno dei principali modelli di personalità e mostrano anche che questo costrutto si colloca al livello più basso di queste gerarchie tassonomiche. In secondo luogo, anche le implicazioni per la validità nomologica sono importanti. Infatti, ad un alta intelligenza emotiva sono associate anche una maggiore soddisfazione nella vita e un più frequente uso di strategie di coping adattive per far fronte alle difficoltà. In oltre, alti valori nella percezione delle proprie abilità emozionali sono correlate negativamente con la ruminazione di eventi negativi e strategie non adattive, quali l’evitamento e, dunque, anche una minore predisposizione alla depressione. In un altro studio, ChamorroPremuzic, Bennett e Furnham (2007) hanno mostrato anche che ad un alta autoefficacia emozionale di tratto corrisponde anche una maggiore disposizione alla felicità. In uno studio questi ricercatori somministravano ai loro partecipanti una batteria composta dal TEIQue-SF (Petrides e Furnham, 2006), dall’Oxford Happiness Inventoy (OHI; Argyle, Martin e Crossland, 1989), per la misura della felicità, e il Ten Item Personality Inventory (TIPI; Gosling, Rentfrow e Swann, 2003), per la misura della personalità.

 

Quest’ultimo è una versione di soli 10 item del Big Five. I risultati di questo studio hanno dimostrato che l’intelligenza emotiva di tratto, non solo aveva un effetto positivo sulla felicità, ma era addirittura un predittore significativamente più forte delle cinque variabili di personalità del TIPI. Inoltre il rapporto tra alcune dimensioni di personalità, quali l’estroversione e l’amicalità, e la felicità sembrerebbero essere mediate dall’effetto dell’intelligenza emotiva. D’altra parte, la coscienziosità appare spiegata solo parzialmente dall’autoefficacia emotiva di tratto. Una spiegazione potrebbe essere che le persone che ottengono alti punteggi in C siano non solo più abili a regolare ed identificare le emozioni proprie e degli altri ma siano anche più disposti a lavorare duro per raggiungere i loro obiettivi. Il fatto che ad un alta intelligenza emotiva corrisponda anche una maggior disposizione ad essere felici ha delle potenti implicazioni anche per lo studio dei processi di giudizio e decisione. Infatti, alla felicità sono legate anche una maggior rapidità ed accuratezza nella presa di decisione (Isen e Patrick, 1983) e una maggiore propensione al rischio quando la possibilità di perdere non appare una minaccia per l’umore (Isen, Nygren e Ashby, 1988). Tuttavia, il fatto che le persone con un elevata intelligenza emotiva di tratto siano più sensibili alle emozioni elicitate da uno stimolo affettivamente carico (Petrides e Furnham, 2003) potrebbe portare anche delle conseguenze negative nel processo di scelta. Sevdalis, Petrides e Harvey (2007) hanno dimostrato che ad una alta IE di tratto corrisponde anche una maggiore tendenza a sovrastimare le predizioni riguardanti il proprio stato d’animo. In un esperimento tutti i partecipanti dovevano affrontare un gioco in letteratura noto come ultimatum game (Güth, Schmittberger e Schwarz, 1982). Questo gioco prevede un compito di negoziazione tra un proponente ed un ricevente. Lo sperimentatore generalmente da una somma di denaro al proponente il quale deve condividerla con il ricevente. Se quest’ultimo accetta l’offerta del proponente allora questi possono dividersi il denaro, al contrario se la trattativa si conclude con un nulla di fatto nessuno dei due partecipanti guadagna nulla. In realtà tutti i partecipanti erano assegnati al ruolo di proponente. Prima che il gioco avesse inizio ai partecipanti veniva chiesto che emozioni si aspettavano di provare subito dopo la decisione del ricevente e dopo 5 giorni. In particolare, le emozioni misurate erano il regret ed il disappunto. Quindi venivafatto compilare anche il TEIQue-SF. In un secondo momento subito dopo aver negoziato con il ricevente, che era in un altra stanza, i proponenti apprendevano se il ricevente aveva accettato o no la loro offerta. Per tutti i partecipanti, il feedback sulla trattativa era negativo. Ai partecipanti era chiesto dunque di complilare subito un questionario sugli affetti positivi e negativi, il Positive And Negative Affect Scale (PANAS; Watson, Clark e Tellegen, 1988). I partecipanti sarebbero poi tornati cinque giorni dopo per compilare nuovamente questo questionario. In linea con quanto è stato trovato in altri studi (Loewenstein e Schkade, 1999), tutti coloro che avevano preso parte a questo esperimento tendevano a sovrastimare lo stato d’animo che avrebbero provato se non avessero portato a casa alcuna somma di denaro. Tuttavia, coloro che avevano ottenuto punteggi più alti sul TEIQue-sf riportavano anche una maggiore discrepanza tra il punteggio dell’emozione anticipata subito prima che l’ultimatum game avesse inizio e quella realmente esperita 5 giorni dopo. Il fatto che gli attori decisionali con un’ alta intelligenza emotiva di tratto sovrastimino maggiormente il regret ed il disappunto potrebbe avere delle implicazioni anche per il loro comportamento di scelta. Infatti coerentemente con il fatto che le persone minimizzino il massimo dispiacere possibile (Mellers, Scwhartz, Ritov, 1999), queste persone  potrebbero essere anche meno propense a correre il rischio associato ad un esito negativo di una decisione. D’altra parte, potrebbero essere anche più propense ad anticipare l’emozione positiva associata ad un esito positivo e dunque avere una propensione al rischio maggiore rispetto a chi invece ha un autoefficacia emotiva di tratto più bassa. Il  fatto poi che le persone con un alto IE di tratto mostrino un maggiore deterioramento dell’umore in seguito ad un video che elicita sentimenti negativi (Petrides e Furnham, 2003) e che sovrastimino maggiormente il regret ed il disappunto anticipati legati ad una scelta (Sevdalis, et al., 2007) contrasta l’idea, affermatasi negli anni 90’, che l’intelligenza emotiva di tratto sia una virtù assolutamente positiva (e.g. Goleman, 1995). Infatti se è vero che questo tipo d’intelligenza risulta essere adattiva in alcuni contesti, è anche vero che in altri risulta maladattiva (Petrides, 2011). Resta il fatto che  l’intelligenza emotiva sembrerebbe giocare un ruolo chiave nelle differenze individuali nella valutazione affettiva degli stimoli e dunque anche nel processi di giudizio e decisione. Di conseguenza, anche le implicazioni per lo studio del comportamento altruistico e più precisamente, di quello delle donazioni in beneficenza potrebbero essere interessanti. Per esempio, il fatto che una persona con alto EI di tratto sia più portata ad anticipare le emozioni associate all’esito negativo di una decisione potrebbe significare anche che queste persone siano più propense ad anticipare il regret che deriverebbe se non aiutassero una persona in difficoltà. In accordo con il negative relief state model (Cialdini et al. 1973, 1976) invece queste persone potrebbero anche essere più propense ad aiutare un altro in difficoltà rispetto a chi ha una minore autoefficacia emotiva di tratto. In aggiunta, questo aspetto potrebbe essere amplificato dalla maggiore tendenza all’interesse empatico verso un’altra persona che è associata all’intelligenza emotiva di tratto. Molti studi, infatti, hanno mostrato l’interesse empatico verso una vittima può portare ad una maggiore propensione a comportamenti prosociali (Batson et al. 1978; 1981; 1997; 2007; Cialdini et al. 1987). Ancora più interessante ai fini della presente tesi è il fatto che le persone con un elevato livello di IE di tratto possiedano anche una maggiore abilità nel regolare e gestite le proprie emozioni. Dunque in accordo con quanto dimostrato da Rubaltelli ed Agnoli (2012) queste persone dovrebbero anche rispondere in maniera differente agli affetti contrastanti che si possono generare nel contesto di una decisione di beneficenza. Proprio nel prossimo capitolo verrà mostrato un esperimento che per la prima volta mostra che l’intelligenza emotiva gioca un ruolo fondamentale come moderatore del comportamento della decisione di aiutare.

 

 

 

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

 

 

 

 

 

 

 

 

Abilità di Intelligenza Emotiva e Intelligenza Emotiva di Tratto

Abilità di Intelligenza Emotiva e Intelligenza Emotiva di Tratto

In accordo con le argomentazioni del paragrafo precedente, Petrides e Furnahm (2000) hanno proposto una distinzione tra due differenti costrutti dell’intelligenza emotiva: abilità di intelligenza emotiva ed intelligenza emotiva di tratto. Questi due costrutti sono differenziati in base al metodo di misura usato per la loro operazionalizzazione.

L’abilità di intelligenza emotiva dovrebbe essere misurata tramite test di misurazione della massima performance legata alle abilità cognitive primariamente coinvolte nel processo emotivo mentre l’intelligenza emotiva di tratto dovrebbe essere misurata tramite misure self-report. Il costrutto di abilità di intelligenza emotiva, detto anche abilità congnitivo-emozionale, in linea con quanto sostenuto da Salovey et al. (1990) corrisponde all’abilità di processare l’informazione emotiva. L’abilità dell’intelligenza emotiva è in realtà particolarmente problematica da misurare, per varie ragioni. Prima tra tutte, la soggettività dell’esperienza emozionale rappresenta una sfida notevole per chiunque voglia creare un test che misuri questo costrutto. Infatti, una difficoltà da aggirare è quella di creare item o prove che siano davvero oggettivi e che possano comprendere in maniera completa l’ambito dell’abilità cognitivo-emotiva.

L’intelligenza emotiva di tratto, o autoefficacia emozionale di tratto o IE di tratto, diversamente, è la “costellazione di autopercezioni situata al livello più basso della gerarchia di personalità” (Petrides, 2011) e rappresenta un costrutto meno problematico da misurare. Infatti, a differenza dell’abilità di intelligenza emotiva, comporta  l’uso di strumenti self-report per la sua misurazione perché implica l’autopercezione che una persona ha delle proprie abilità emozionali. In questo costrutto, dunque, la soggettività intrinseca all’esperienza emotiva è riconosciuta operazionalmente.

Sulla base di queste premesse  Petrides e Furnahm (2000) hanno proposto la teoria dell’intelligenza emotiva di tratto. Secondo questa teoria non c’è un profilo che sia vantaggioso in ogni contesto, ma piuttosto diversi profili vantaggiosi in un determinato contesto e svantaggiosi in un altro. In altre parole il profilo “emozionalmente intelligente” è nulla più di un mito (Petrides, 2011). Inoltre, punteggi alti potrebbero essere l’indicazione di arroganza oppure di un alta desiderabilità sociale.

Sulla base della teoria dell’intelligenza emotiva di tratto, Petrides e Furnham (2000) hanno proposto anche un questionario: il Trait Emotional Intelligence Questionnaire (TEIQue). Questo questionario si basa su risposte riportate dalle stesse persone che lo compilano e misura specificatamente l’intelligenza emotiva di tratto. E’ composto da 153 Item che permettono di misurare un punteggio su 15 dimensioni (adattabilità, assertività, espressione delle emozioni, gestione delle emozioni, percezione delle emozioni, regolazione delle emozioni, empatia, felicità, impulsività, ottimismo, abilità nelle relazioni interpersonali, autostima, automotivazione, competenza sociale e gestione dello stress), 4 fattori specifici (emozionalità, sociabilità, autocontrollo e benessere) ed un punteggio generale corrispondente all’intelligenza emotiva di tratto. Inoltre sono state proposte versioni di questo questionario tarate su popolazioni specifiche, come bambini (Mavroveli, Petrides, Shove e Whitehead, 2008) e adolescenti (Petrides, 2009). Di particolare interesse per questa tesi è invece il TEIQue-short form (Cooper e Petrides, 2010). Questo questionario è una versione abbreviata del TEIQue e si presta particolarmente per la ricerca, soprattutto in contesti dove c’è poco tempo a disposizione. In questo caso vengono misurate 4 dimensioni specifiche ed un punteggio generale. Gli item sono solo 30: 2 per ognuna delle 15 variabili della versione completa del TEIQue.

 

 

 

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

 

 

 

 

 

 

Intelligenza Emotiva: Definizione del costrutto

Intelligenza Emotiva: Definizione del costrutto

 

Un costrutto che recentemente ha riscosso sempre più l’attenzione dei ricercatori è quello dell’intelligenza emotiva.

 

Sebbene come parola abbia fatto la sua apparizione già a partire degli anni ’60 (Leuner, 1966), questo costrutto ha cominciato ad avere una forma maggiormente definita solo in tempi relativamente recenti. La concezione di un intelligenza emotiva ha comunque alcuni antenati illustri. Quasi un secolo fa, infatti, Thorndike (1920) sosteneva l’esistenza di un intelligenza sociale che coincideva con la capacità di capire e dirigere le persone ed agire saggiamente nelle relazioni interpersonali. Abbastanza simile a questa intelligenza è l’intelligenza interpersonale proposta invece da Gardner (1983). Questo tipo d’intelligenza coincide con la capacità di riconoscere e fare distinzioni riguardo i sentimenti, le intenzioni e le credenze altrui.

A questo tipo d’intelligenza Gardner ne affiancava una seconda più introspettiva: l’intelligenza intrapersonale, ovvero la capacità di riconoscere i propri sentimenti. Questi due tipi di intelligenza quando sono considerati insieme costituiscono l’intelligenza personale. Secondo Gardner, infatti, intelligenza intrapersonale ed interpersonale sono strettamente collegate e per questo motivo non è semplice riuscire sempre a distinguerle.  Tuttavia, una prova della loro autonomia sarebbero ad esempio i bambini autistici in cui è compromessa l’intelligenza interpersonale ma non quella intrapersonale.

Gardner (1983) includeva queste due tipologie di intelligenza insieme ad altre cinque all’interno del suo modello delle intelligenze multiple. In particolar modo, questo studioso criticava la visione, allora predominante, secondo la quale l’intelligenza coincide con una capacità unitaria di ragionamento logico.

 

Il contributo di Gardner (1983) ha indubbiamente spianato il terreno per il successivo affermarsi dell’intelligenza emotiva. La prima definizione si deve al lavoro di Salovey e Mayer (1990) che definiscono l’intelligenza emotiva come “l’abilità di monitorare le emozioni e i sentimenti propri e altrui, distinguere tra questi ed usare le informazioni per guidare il pensiero e le azioni di qualcuno”. In particolare questi due studiosi considerano l’intelligenza emotiva come un sottoinsieme dell’intelligenza intrapersonale ed intrapsichica di Gardner (1983).  In aggiunta, Salovey e Mayer (1990) considerano l’intelligenza emotiva come l’abilità di processare l’informazione affettiva. Quest’abilità comporterebbe in particolar modo il coinvolgimento di tre processi differenti: valutazione ed espressione delle emozioni in se stessi e negli altri,  regolazione delle emozioni in se stessi e negli altri, uso delle emozioni in modo adattivo.

Se il lavoro di Salovey e Mayer (1990) è stato importante perché l’intelligenza emotiva entrasse nelle grazie dei ricercatori, il best-seller di Goleman (1995), “Intelligenza Emotiva”, è stato addirittura fondamentale perché il concetto diventasse estremamente popolare anche al di fuori del campo della ricerca psicologica.

 

Negli anni successivi la ricerca sull’intelligenza emotiva o anche quoziente emozionale, come spesso è stato chiamato, hanno preso sempre più il sopravvento ottenendo un attenzione crescente sia dal mondo scientifico che da quello popolare. Questo fermento ha portato molti teorici a proporre definizioni differenti del costrutto e, di conseguenza, anche a proporre molti strumenti per la sua misurazione. Tuttavia, molte definizioni proposte si sono rivelate o troppo ampie o troppo strette, se non addirittura in contrasto l’una con l’altra. Molte di queste, poi, generalizzavano il concetto di intelligenza emotiva ad altre abilità, competenze e qualità. Per Goleman (1995), ad esempio, l’intelligenza emotiva coincide con la perseveranza nel raggiungere un obiettivo, con la capacità di motivare se stessi, ma anche con la predisposizione all’empatia, alla speranza, all’ottimismo e all’assertività. Tuttavia queste sono dimensioni che appartengono alla personalità e dunque dovrebbero essere ortogonali all’intelligenza. Di conseguenza anche gli strumenti costruiti per misurare il test hanno spesso rispecchiato questa confusione concettuale alla base della definizione del costrutto (e.g. Bar-On, 1997). In aggiunta, nella costruzione di molti di questi strumenti sono stati ignorati i principi elementari che vanno rispettati quando viene costruito un test. Una di queste è la differenza fondamentale tra misure di tipiche e massime performance (Crombach, 1949; Argentero, 2006). I test di massima performance infatti hanno l’obiettivo di misurare le massima prestazione che una persona può ottenere in un determinato compito e usualmente ricorrono all’utilizzo di prove di abilità (e.g. risposte giuste e sbagliate). I test di tipica performance invece hanno l’obiettivo di misurare un comportamento che caratterizza l’individuo abitualmente e coinvolgono maggiormente misure self-report che non considerano risposte giuste o sbagliate. Molti ricercatori hanno ignorato questa distinzione fondamentale e hanno proposto costrutti misurati con prove di massima peformance come se rispecchiassero la modalità tipica di comportamento (e.g. Mayer, Caruso, Salovey, 1999). Non c’è da sorprendersi se misure basate su definizioni di costrutti e metodi di misurazione della performance differenti mostrassero anche una bassa validità convergente e molti teorici abbiano messo in dubbio la scientificità stessa del costrutto (e.g. Eysenck, 2000, Petrides e Furnham, 2000; Locke, 2005). Petrides e Furnham (2000) hanno tentato tuttavia di indirizzare la questione riguardante l’intelligenza emotiva verso una maggior scientificità cercando di superare i limiti delle precedenti teorie.

 

 

 

 

 

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

 

 

 

 

Altruismo: Differenze individuali

Altruismo: Differenze individuali

Indubbiamente, il contesto e la presentazione dello stimolo hanno un ruolo fondamentale nell’influenzare il benefattore. Eppure come si può spiegare che persone diverse reagiscano in modi diversi agli stessi stimoli? I ricercatori hanno cominciato ad indagare solo di recente le differenze individuali nell’elaborazione delle informazioni. Ad esempio, Peters, Västijfal, Slovic, Mertz, Mazzocco e Dickert (2006) hanno mostrato che le  abilità di calcolo possono influenzare le prestazioni in un compito di giudizio e decisione. In particolare sembrerebbe che quando gli attori decisionali  che possiedono basse abilità logico-matematiche  affrontano un compito che richiede una stima di probabilità siano più propensi a ricorrere al sistema esperienziale rispetto a coloro che invece possiedono maggiori abilità in quest’ambito. Infatti, Peters et al. (2006) hanno mostrato questi ultimi sono significativamente più attratti dalla possibilità di puntare su una scommessa che consente solo la vincita di 9$ ed in alternativa nulla rispetto ad una che consente di vincere la stessa somma ma anche di perdere 5c. Sembrerebbe dunque che ad alte capacità numeriche corrisponda anche una minore necessità di ricorrere alle informazioni affettive che il confronto con la piccola perdita renderebbe invece maggiormente reperibili. Dickert (2008) ha dimostrato che questi dati possono essere generalizzati anche alle decisioni relative alle donazioni in beneficenza. Per esempio, le persone più abili ad interpretare dati numerici sono anche quelle meno soggette dall’effetto della vittima identificabile. In un esperimento simile a quello di Small et al. (2007), alcuni partecipanti leggevano la storia di Rokia mentre altri quella di un bambino africano anonimo. Queste due condizioni erano a loro volta suddivise in due ulteriori gruppi. Infatti per alcuni la storia di questa bambina Africana era provvista di statistiche, per altri invece si trattava di una semplice narrazione di grande impatto emotivo. Venivano misurate le abilità numeriche di tutti i partecipanti e i sentimenti che provavano riguardo la vittima e la sua situazione. Come ipotizzato da Dickert (2008) i partecipanti con basse abilità logico-matematiche erano anche quelli più sensibili al format di presentazione degli stimoli mentre quelli più abili coi numeri non sembravano particolarmente influenzati dall’identificabilità della vittima. Inoltre, questi ultimi provavano un minore grado di empatia e preoccupazione nei confronti di Rokia ma nonostante ciò erano più propensi a donare rispetto agli altri. Questo dato è particolarmente interessante perché avvalora l’idea che persone con elevate abilità logico-matematiche siano meno propense ad usare gli affetti come informazioni di quanto non siano invece le altre persone. Inoltre, nello studio di Dickert (2008) la decisione di donare alla vittima non identificata correlava maggiormente con sentimenti focalizzati verso se stessi, come il regret anticipato legato alle conseguenze negative che sarebbero potute derivare dal fatto di non dare nessun contributo o il fatto di sentirsi meglio in seguito alla donazione, mentre la propensione  a donare alla vittima identificata,  era maggiormente legata a sentimenti etero-centrati quali la preoccupazione e l’empatia nei confronti di Rokia. Questi risultati sono stati confermati da Dickert, Sagara e Slovic (2011) che hanno mostrato una versione di Kogut et al. (2005a), dove però, prima del compito,  i partecipanti venivano indotti tramite priming ad un elaborazione delle informazioni differente. In una condizione i partecipanti dovevano eseguire alcune equazioni algebriche prima del compito mentre in un altra dovevano descrivere come si sentivano in relazione ad alcune immagini. C’era anche una condizione di controllo dove i partecipanti non affrontavano alcuna manipolazione del loro modo di processare le informazioni. I risultati hanno mostrato che gli affetti auto-centrati che dunque dovrebbero essere anche quelli più legati alla regolazione del proprio umore erano quelli più legati alla decisione vera e propria di donare, mentre quelli più etero-centrati erano quelli più coinvolti nella decisione riguardante l’ammontare del contributo da donare. Dickert et al. (2011) hanno anche mostrato che le persone sono più propense ad usare le reazioni affettive quando il loro sistema analitico è sovraccaricato. In un esperimento i partecipanti dovevano leggere una stringa di lettere e impararla a memoria. In una condizione la stringa comprendeva 10 lettere, in un altra invece solo 2. I risultati hanno mostrato che persone la cui memoria di lavoro era sovraccaricata  tendevano a ricorrere maggiormente agli affetti quando dovevano decideredi dare un contributo in beneficenza. Questi risultai sembrerebbero supportare l’idea che le persone ricorrano maggiormente agli affetti per far fronte ai limiti delle proprie risorse cognitive.

Oltre alle abilità logico-matematiche però ci potrebbero anche essere altri fattori individuali che possono influenzare il comportamento di beneficenza. Cameron e Payne (2011) hanno suggerito che uno di questi possa essere la regolazione delle emozioni. In particolare secondo questi ricercatori è possibile che le persone siano più prudenti quando devono decidere di aiutare un gruppo di persone rispetto a quando devono decidere di aiutarne una sola perché molte vittime insieme potenzialmente potrebbero elicitare una reazione emotiva che potrebbe rivelarsi difficile da controllare in un secondo tempo a fronte di costi troppo alti da sostenere. Dunque è possibile che le persone usino la regolazione delle emozioni a scopo difensivo e che questo meccanismo sia il vero responsabile di fenomeni come il psychophysiological numbing o l’identifiable victim effect. In un esperimento alcuni partecipanti leggevano la storia di bambino oppure di otto bambini originari del Darfur. Queste due condizioni comprendevano a loro volta altre due condizioni: una dove dovevano solo valutare i sentimenti che provavano verso la vittima (le vittime) ed un’altra dove avrebbero dovuto anche dire quanti soldi sarebbero stati disponibili a donare. I partecipanti prima dell’inizio della procedura prendevano coscienza del fatto che gli sarebbe stato chiesto oppure no quanto erano (ipoteticamente) disposti a donare. Quando i partecipanti si aspettavano che gli potesse essere chiesto aiuto erano più propensi a fare un offerta significativamente maggiore per la vittima singola . Questi risultati sono coerenti con quanto mostrato in altri studi (Jenni et al. 1997; Kogut et al. 2005a; 2005b). Tuttavia, quando i partecipanti non avevano ragioni di sospettare che gli venisse chiesto aiuto erano significativamente più propensi a fare una donazione alle otto vittime.   Sembrerebbe, dunque, che le persone di fronte all’aspettativa di dover aiutare siano a portate a moderare le emozioni che potrebbero comportare per loro costi eccessivi. Se così fosse, le persone più abili a regolare le proprie emozioni dovrebbero essere anche quelle più vulnerabili all’identifiable victim effect. Cameron e Payne (2011) hanno effettuato un secondo studio che teneva solo conto della condizione in cui i partecipanti dovevano donare. Inoltre, ai partecipanti veniva chiesto anche di segnare le emozioni  che provavano man mano che queste venivano elicitate dagli stimoli. In particolare, veniva usata la Difficulties Emotion Regulation Scale (DERS; Gratz e Roemer, 2004), una scala per la regolazione delle emozioni. I risultati hanno mostrato che le persone più abili a regolare le emozioni erano anche quelle più inclini ad aiutare una vittima singola piuttosto che un gruppo di otto. Dunque, sembrerebbe che le persone quando fanno beneficenza operino in un conflitto tra valori morali ed obiettivi egoistici. Per esempio, un benefattore, da un lato, dovrebbe sentire la necessità  di aiutare il maggior numero possibile di persone, dall’altro, dovrebbe sentire la necessità di risparmiare tempo e denaro. Tuttavia, di fronte alla decisione di aiutare una o più persone dovrebbero essere elicitate prima le emozioni ai nostri principi morali e solo in un secondo tempo quelle legate ai costi da sostenere per mettere in atto il comportamento altruista. E’ in questa situazione di conflitto dunque che la nostra abilità di regolare le emozioni si rivela cruciale per la nostra decisione di dare supporto ad una causa di carità.

In linea con queste premesse, Rubaltelli ed Agnoli (2012) hanno dimostrato che le diverse strategie di regolazione dell’emozione giocano un ruolo fondamentale quando si tratta di decidere di fare una donazione. In uno studio i partecipanti dovevano immaginare di dover scegliere se fare una donazione di 150 Euro ad una sola donna oppure fare una donazione di 450 Euro per tre donne. In linea con quanto trovato in altri studi (Jenni et al. 1997; Kogut et al. 2005a; 2005b) , anche in questo caso i partecipanti preferivano fare una donazione in beneficenza alla vittima presentata da sola. Tuttavia se ai partecipanti veniva offerta una terza alternativa che proponeva di aiutare due donne donando 500 Euro erano più propensi a scegliere di aiutare le tre donne del secondo programma. Questo effetto si chiama attraction effect, effetto attrazione, e mostra che i partecipanti appartenenti a questa seconda condizione percepivano la situazione come meno conflittuale rispetto a quelli che invece appartenevano alla condizione che non contemplava l’aggiunta di una terza alternativa. Dunque, i partecipanti  quando devono decidere se contribuire ad un programma con una sola vittima oppure con tre vittime dovrebbero ricorrere ad una maggiore regolazione delle emozioni per risolvere il conflitto che si origina tra la loro motivazione di aiutare più persone e risparmiare beni materiali quali tempo e denaro. Rubaltelli e Agnoli (2012) in un secondo esperimento che replicava il primo chiedevano ai partecipanti anche di compilare un questionario sulla regolazione delle emozioni (Emotion Regulation Questionnaire; Gross e John, 2003). I dati di questo secondo esperimento hanno mostrato che tra i partecipanti cui erano presentate due opzioni coloro che sceglievano di fare una donazione alle 3 donne usavano delle strategie di regolazione delle emozioni differenti rispetto a coloro che ne sceglievano solo una. Infatti mentre questi ultimi usavano la soppressione (Gross, 1998), una strategia che consiste nella, per l’appunto, soppressione dell’emozione, i secondi utilizzavano il reappraisal (Lazarus,1991), ovvero una strategia che consiste in una rivalutazione dello stimolo prima che l’emozione sia elicitata.  Il reappraisal è dunque una strategia focalizzata sull’antecedente quindi richiede uno sforzo minore della soppressione che invece è una strategia focalizzata sulla risposta. In aggiunta, la soppressione per la sua natura non è efficace nella riduzione degli effetti negativi e quindi questi tenderebbero ad accumularsi. Rubaltelli e Agnoli (2012) hanno proposto che siano proprio questi sentimenti negativi accumulatisi in seguito alla soppressione dell’emozione a far si che le persone donino di meno. Al contrario, coloro che nella stessa situazione ricorrono al  reappraisal per regolare l’emozione dovrebbero essere più abili anche ad anticipare la reazione negativa derivante dai costi della beneficenza avrebbero e di conseguenza avere meno difficoltà a seguire le loro intuizioni morali.

Il ruolo giocato dalle emozioni indotte dal contesto gioca un ruolo indubbiamente importante nell’influenzarci nella decisione di donare tempo o  denaro (più spesso entrambi) per una causa di beneficenza. Tuttavia, sembrerebbe che il modo in cui noi stessi regoliamo queste emozioni possa giocare un ruolo ancora più fondamentale in queste situazioni. Ma la regolazione delle emozioni potrebbe essere solo la punta dell’iceberg di un costrutto più ampio: l’intelligenza emotiva.

 

 

 

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi

 

 

 

 

L’intuizione altruistica nella beneficienza

L’intuizione altruistica nella beneficienza

Le ricerche fin qui esposte dimostrano ampiamente il ruolo fondamentale giocato dalle emozioni nella motivazione all’altruismo e corroborano ulteriormente l’idea che le persone usino due sistemi, uno analitico ed uno esperienziale, nell’adattamento all’ambiente (Zajonc, 1980; Epstein, 1994; LeDoux, 1996; Haidt, 2001; Kahneman, 2003). Il sistema esperienziale per la sua velocità ed automaticità è portato ad anticipare quello analitico, che è invece più lento ed accurato. Kahneman (2003) sostiene che il sistema esperienziale presenta delle forti analogie con il nostro apparato percettivo mentre il sistema analitico avrebbe il compito di monitorare la qualità di queste intuizioni. Un gran numero di ricerche tuttavia ha dimostrato come spesso il sistema analitico segua, letteralmente, le intuizioni del sistema esperienziale. Haidt (2001) paragona addirittura il ragionamento alla coda di un cane emozionale. In linea con queste argomentazioni, appare oggi inconcepibile l’idea che l’altruismo sia dettato da un freddo calcolo di costi e benefici come proponeva, ad esempio, Jeremy Bentham (1789). Haidt (2001) ha recentemente proposto un modello di intuizionismo sociale in cui viene proposto invece che il giudizio morale sia principalmente causato dalle intuizioni morali e che sia seguito dal più lento ragionamento morale. Quest’ultimo spesso arriva quando è troppo tardi e spesso costruisce giustificazioni post hoc che ci danno l’illusione di un ragionamento oggettivo. Secondo Haidt (2001) il modello dell’intuizionismo sociale darebbe dunque conto di un gran numero di situazioni in cui le persone non sanno spiegare le reali ragioni che le hanno condotte a dare un giudizio positivo o negativo su una determinata situazione. Queste argomentazioni teoriche sono coerenti col fatto che gli affetti agiscano spesso al di sotto della coscienza dei decisori nel portarli in una direzione piuttosto che in un’altra (e.g. Zajonc, 1980, Damasio, 1994, Slovic et al. 2002).

Recentemente molti studi hanno dimostrato che il modo in cui processiamo le informazioni influenza fortemente le nostre decisioni di aiutare altre persone in difficoltà. Ad esempio, Slovic e collaboratori (Slovic, Finucane, Peters, MacGregor, 2002; Slovic, 2006) in un esperimento sulla sicurezza aerea, hanno chiesto ai soggetti di valutare quanto trovassero attraente acquistare un nuovo equipaggiamento che si sarebbe reso utile nel caso di un incidente aereo. I partecipanti valutavano significativamente più attraente questo investimento se veniva loro detto che in caso d’incidente avrebbero salvato il 98% di 150 persone, piuttosto che se semplicemente veniva loro detto che avrebbero salvato 150 persone. Questi risultati sono coerenti col fatto che le persone trovino più attraenti gli stimoli che sono più facili da valutare. In particolare, sembrerebbe che l’opzione sulla carta più conveniente, cioè il programma che avrebbe consentito di salvare 150 persone, fosse giudicato in modo meno favorevole rispetto all’altra opzione perché era più difficile attribuirle un valore. Dunque, il fatto che al numero di vite da salvare fosse accompagnata una percentuale chiaramente alta contribuiva a rendere lo stimolo meno ambiguo e dunque più attraente. In aggiunta, i processi che ci guidano ad un atto di beneficenza presentano delle forti analogie con quelli legati alla percezione dei cambiamenti che avvengono nel nostro ambiente fisico. Infatti, così come il nostro apparato percettivo è più sensibile allo stesso cambio di temperatura quando questa è prossima ai 0°C rispetto a quando questa è 30° C più alta, come fù notato per la prima volta da Weber (1834) e Fechner (1860/ 1964), anche il nostro sistema esperienziale è più sensibile alle vite salvate in un piccolo villaggio rispetto a quando lo stesso numero di persone viene salvato in un villaggio più grande. In altre parole, la nostra sensibilità ai cambiamenti è inversamente proporzionale alla grandezza dello stimolo. Una conseguenza di questo insensibilità al cambiamento è quello che  Fetherstonhaugh, Slovic, Johnson e Friedrich (1997) hanno battezzato col nome di psychophysical numbing, che tradotto letteralmente significa intontimento psicofisico. In uno studio Fetherstonhaugh e colleghi (1997) chiedevano ai partecipanti di immaginare di essere un ufficiale del governo che doveva valutare quale tra una serie di programmi governativi sostenere. Due alternative, in particolare, prevedevano di stanziare fondi in favore della fornitura di acqua potabile in un campo di rifugiati del Rwanda. Entrambe queste alternative implicavano grossomodo la stessa spesa per il governo e avrebbero permesso di salvare 4.500 profughi a rischio di colera.

L’unica alternativa riguardava l’ampiezza dei due campi profughi. Nel primo campo profughi vivevano 250.000 persone, nel secondo solo 11.000, tuttavia gli “ufficiali governativi” preferivano significativamente il secondo programma. Si potrebbe

obiettare che i partecipanti fossero più propensi a fornire aiuti al secondo campo perché presentava probabilità di contagio o rivolta più ridotte rispetto al campo più grande, tuttavia in una replica di questo studio Fetherstonhaugh e colleghi (1997) hanno dimostrato che questo fenomeno si verificava anche nel caso l’intervento venisse pianificato verso la fine della carestia, cioè quando la possibilità di risoluzione del rischio di un epidemia di colera era massima.

Un effetto ancora più estremo della nostra incapacità di dare un valore alla vita umana è l’ identifiable victim effect, ovvero la maggior propensione ad aiutare una persona che si può identificare rispetto ad uno sconosciuto piuttosto che una statistica. Jenni e Loewenstein (1997) sono stati i primi ad utilizzare un approccio sistematico per studiare quali tra diverse cause determino questo fenomeno. In un esperimento i partecipanti dovevano assumere il punto di vista di un amministratore di un ospedale e dovevano valutare quanto si sentissero responsabili del decesso di un bambino che era morto in seguito ad una loro decisione che comunque avrebbe avuto una probabilità ridotta (0,1%) di salvare il bambino. In una condizione (vittima identificabile) però si diceva che il bambino era stato ospedalizzato in seguito ad un avvelenamento da piombo e la decisione riguardava un trattamento di nuova generazione e molto costoso ma che avrebbe potuto salvarlo. In un’altra condizione (statistica) veniva detto che un gruppo della comunità locale aveva richiesto all’ospedale di svolgere gratuitamente dei test relativi ai livelli di piombo nella comunità. In oltre, Jenni et al. (1997) avevano provveduto a manipolare anche altre variabili nella condizione di vittima identificabile.

Venivano infatti manipolate la vividezza con cui era descritto l’evento, rendendo il bambino più o meno anonimo, l’incertezza riguardo all’eventualità di un incidente mortale ed infine il momento in cui l’amministratore avrebbe potuto prendere la decisione, prima dell’ospedalizzazione o dopo che l’intossicazione aveva già avuto luogo. Tra quelle prese in considerazione da Jenni et al. (1997) l’unica variabile indipendente che aveva effetto sul senso di responsabilità dei partecipanti era quella riguardante l’identificabilità della vittima.

Dopo Jenni et al. (1997) molti altri studi hanno approfondito l’identifiable victim effect. Small, Loewenstein e Slovic (2007), ad esempio, hanno mostrato che nella condizione di identificabilità fornire delle informazioni statistiche relative al numero di persone a rischio non solo non favorisce una maggior propensione a donare contributi alla vittima ma addirittura li riduce significativamente. In un esperimento, i partecipanti dovevano decidere se volevano dare 5$ a Save the Children. Lo scopo di questa donazione era quello di ridurre la denutrizione nell’Africa Meridionale e dell’Etiopia. In una condizione i partecipanti leggevano alcune informazioni su una bambina di nome Rokia. Insieme a queste informazioni era mostrata anche una foto di questa bambina. In un altra condizione erano invece provviste informazioni statistiche relative alla fame nella regione dell’Africa dove erano destinate le donazioni. Tra queste due informazioni i partecipanti mostravano una chiara preferenza per la prima condizione. Tuttavia, i partecipanti che vedevano una terza condizione dove alla vittima identificabile venivano affiancate anche informazioni statistiche non era valutata significativamente più attraente rispetto alla condizione statistica. Sembrerebbe dunque che le informazioni statistiche riducano la tendenza a donare ad una vittima identificabile. Una possibile spiegazione di questo fenomeno potrebbe essere che, quando dovevano decidere se fare una donazione a Rokia, i dati statistici li inducevano a fare un minor ricorso alle reazioni affettive elicitate dallo stimolo e, dunque, anche ad una minor propensione a farle una donazione.

Nella stessa direzione vanno gli studi di Kogut e Ritov (2005a) che hanno dimostrato che i partecipanti sono più disponibili ad aiutare una persona in difficoltà rispetto ad un gruppo anche quando queste ultime vengono rese identificabili. In un loro esperimento questi ricercatori chiedevano ai  partecipanti quanto fossero disponibili a contribuire all’acquisto di una dose di farmaci dal valore di 1,5 milioni di Sicli Israeliani (circa 300.000 Euro). In una condizione, tuttavia si diceva che questi farmaci erano necessari per il trattamento di un bambino malato mentre nell’altra si diceva che erano necessari per il trattamento di otto bambini malati. In aggiunta, i ricercatori per ognuna delle due condizioni principali avevano creato due ulteriori versioni che si differenziavano per le informazioni fornite in modo da rendere le vittime più o meno identificabili. Indipendentemente da queste manipolazioni i partecipanti che leggevano lo scenario con un solo bambino da aiutare erano significativamente più desiderosi di contribuire alla sua guarigione di quanto non fossero gli altri che invece avevano letto lo scenario in cui i bambini malati e in pericolo di vita erano otto. La cosa più incredibile è che questa asimmetria singolo vs. gruppo si verificava anche quando per ogni bambino nel gruppo erano fornite informazioni anagrafiche (età, nome) e persino una foto che lo ritraeva. In linea con quanto trovato in alcune ricerche precedenti  che hanno indagato la motivazione ad aiutare un altro in difficoltà (Batson et al. 1978; 1981; 1997;2007; Cialdini et al.1973; 1976; 1987),  Kogut et al. (2005a) hanno dimostrato che i partecipanti nella condizione dove la vittima era presentata singolarmente mostravano un interesse empatico ed uno stress significativamente maggiori rispetto ai partecipanti a cui veniva presentato il gruppo di otto bambini. In aggiunta Kogut e Ritov (2005b) hanno elaborato anche un disegno sperimentale che prendeva in considerazione sia la valutazione separata (separate evaluation, SE) che quella congiunta (joint evaluation, JE) dei due prospetti. Sorprendentemente, quando i partecipanti avevano la possibilità di comparare le due opzioni erano più desiderosi di contribuire alle terapie del gruppo di otto bambini piuttosto che aiutarne uno solo. In altre parole si verificava una netta inversione di preferenza (preference reversal) tra la condizione SE e quella di JE.

 

 

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi