La situazione italiana nei corsi di laurea in Psicologia: le prove di ingresso

La situazione italiana nei corsi di laurea in Psicologia: le prove di ingresso

Introduzione

Dalla loro fondazione, fino agli anni ’90, i Corsi di Laurea in Psicologia hanno subito un continuo e costante incremento di richieste di immatricolazione. La crescita del numero degli iscritti, tuttavia, è spesso coincisa con un inasprimento delle problematiche tipiche dell’Università italiana: alta mortalità (Giossi e Bertani, 1997b) e prolungamento degli studi oltre i limiti previsti dalla didattica (Guicciardi e Lostia, 1997). Questo è stato vero soprattutto dove e quando le ammissioni non sono state subordinate a prove di orientamento e selezione (Arcuri e Soresi, 1997; Majer e Mariani, 1997). L’importanza dell’orientamento degli studenti è stata ribadita anche in contributi inerenti altri corsi di studio (Corradi, Bottarelli e Bertoli, 2005, per Veterinaria e Casarosa e Forte, 2006, per Architettura).

Le prove di ingresso

I primi corsi a limitare il numero di immatricolazioni furono Medicina ed Odontoiatria.

Le prove utilizzate da questi corsi di studio ed in seguito anche da Ingegneria, sono di natura strettamente contenutistica.

A differenza di quelle di Psicologia che si concentrano su abilità di base come le capacità di ragionamento, di comprensione, di vocabolario (Arcuri e Soresi, 1997) e di cultura generale.

Le prime prove di selezione vennero adottate senza alcuna analisi sulla validità di contenuto e di costrutto (Arcuri e Soresi, 1997) non rendendole, rebus sic stantibus, “uno strumento scientifico di conoscenza dell’uomo” (Brezinski, 1991).

Si ritenne necessario, quindi, dareimportanza alla capacità predittiva degli stili attribuzionali (Arcuri, 1985), al senso di auto-efficacia (Arcuri, 1985; 1996), alla capacità di affrontare situazioni di problem solving cognitivo e relazionale (Mirandola e Soresi, 1991; Soresi, 1996; Soresi e Mirandola, 1996), alle preferenze culturali e professionali, agli stili cognitivi posseduti dallo studente, al suo bisogno di chiusura inteso come tendenza a portare a termine i compiti (De Grada, Kruglanski, Mannetti, Pierro e Webster, 1990; Kruglanski, 1990), alla sua competenza sociale, alla sua capacità adattiva ed alle sue strategie di presa in carico dei compiti di apprendimento e di massimizzazione del tempo dedicato allo studio (Nota e Soresi, 1996).

Ci siamo chiesti quali potrebbero essere gli elementi non ancora indagati, che consentirebbero di valutare se lo studente è adatto al percorso accademico da lui scelto.

Si potrebbe ipotizzare l’integrazione di un’area che, oltre alle abilità logiche e di comprensione, tenesse conto anche della motivazione intrinseca e dell’orientamento allo studio del soggetto.

Vagliare la motivazione intrinseca, cioè capire se è presente la giusta predisposizione ad affrontare anni di università e l’orientamento, ovvero l’ambito di studi (psicologico, medico o educativo) verso il quale lo studente si sente maggiormente portato, attraverso l’introduzione di un test più prettamente psicologico, che indaghi la personalità e che valuti atteggiamento verso la scuola, motivazione allo studio, capacità di organizzazione e di elaborazione strategica, concentrazione e ansia da studio, potrebbe rendere l’esame di ammissione uno strumento ancora più selettivo. I questionari di approccio allo studio TOM (Test di Orientamento Motivazionale) (Borgogni, Pettita, Barbaranelli, 2004), AMOS (Test di Abilità, Motivazione e Orientamento allo Studio) (De Beni, Moè, Cornoldi, 2014) o QAS (Questionario di Approccio allo Studio) (De Beni, Moè, Cornoldi, 2003) potrebbero essere validi strumenti di supporto nella costruzione di un test che ci aiuti a capire se lo studente possieda o meno le caratteristiche psicologiche che gli permetteranno di raggiungere il termine del percorso di studi.

 

© I predittori della performance accademica  – Laura Foschi

I predittori della performance accademica: Introduzione

I PREDITTORI DELLA PERFORMANCE ACCADEMICA

Validita’ predittiva delle prove di ammissione al Corso di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche dell’Universita’ di Bologna !

Introduzione

Il presente contributo esamina le proprietà delle prove di ammissione al Corso di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche (ex Scienze del Comportamento e delle Relazioni Sociali) dell’Università di Bologna e si prefigge lo scopo di individuare quali dimensioni possano rivelarsi predittive del rendimento accademico universitario. A tal scopo, l’attenzione è stata rivolta ai numerosi corpora di ricerche che hanno indagato quali potessero essere le variabili in relazione con il successo all’Università.

La nostra ricerca ha dato risalto alla coerenza delle carriere degli studenti. Il rendimento accademico all’Università è stato valutato utilizzando come parametri il numero di esami sostenuti e la votazione media riportata. La messa in relazione di questi dati con le prove di ingresso permette, infatti, già dalla fine del secondo anno, di individuare gli studenti maggiormente esposti al rischio di abbandono o al protrarsi degli studi oltre i limiti previsti dall’offerta formativa. Il Corso di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche dell’Università di Bologna ha un numero programmato a livello locale. In base alle caratteristiche strutturali del corso (grandezza delle aule, numero dei docenti), si è scelto di selezionare un massimo di 300 studenti per anno accademico. La regolazione degli accessi consente un adeguato rapporto docente-studente.

Il test di ingresso per l’ammissione agli studi universitari è stato reso obbligatorio in Italia dal D.M. 270/2004 ed è stato formulato con l’intento di valutare cultura generale e abilità di ragionamento verbale, numerico e astratto. La ratio di questi test, sembra essere quella di fornire agli studenti indicazioni relative alla loro capacità di inserirsi proficuamente nel processo formativo proposto dal corso di studi, con lo scopo di ridurne il tasso di abbandono.

L’art. 6 del del Regolamento ministeriale in materia di autonomia didattica degli atenei, consente ai singoli Atenei ed ai singoli corsi di studio universitari di decidere quanto il test sia discriminante nella selezione degli studenti, introducendo requisiti di accesso che il candidato dovrebbe possedere. Tranne che per alcune discipline (medicina in primis, legge 264 del 1999), il test non è un test di ammissione vincolante. Per i corsi di studio che propongono test non vincolanti, è possibile avere informazioni sull’esito di tutti gli studenti immatricolati, sulle loro caratteristiche individuali e sul loro percorso accademico (e non solo, come capita con i test vincolanti, per coloro che lo hanno superato).

Molti sono i corsi di studio universitari italiani che hanno ottemperato alla legge proponendo un test “non vincolante” cioè un test di orientamento, il cui risultato non infici la possibilità di iscriversi. In alcuni casi, se il test non viene superato, gli studenti devono partecipare ad attività didattiche più o meno impegnative ma possono comunque iscriversi (Staffolani, 2012). Il 3 novembre 1999, il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica ha redatto un Regolamento in materia di autonomia didattica degli atenei. La riforma è arrivata al termine di un percorso condiviso con le corrispettive istituzioni dei paesi dell’Unione Europea, attraverso le dichiarazioni della Sorbonne (1998) e di Bologna (1999). Con il Decreto Ministeriale n.509, è stata attuata la riforma dei cicli universitari. Quello che viene comunemente indicato come Nuovo Ordinamento o formula del 3 + 2, basata sul modello anglosassone, è entrato in vigore a partire dall’anno accademico 2001/2002.

Lo schema “3 + 2” richiama l’esperienza dei diplomi universitari (D.U.) di derivazione ingegneristica, agraria ed economica che hanno avuto successo perché mirati sia a livelli professionali (i quadri tecnici) che ad analoghe figure professionali europee da tempo sulla scena. Questo decreto cornice determina l’articolazione dei titoli di studio: Laurea, Laurea Magistrale, master universitario di I e II livello, specializzazione e dottorato di ricerca. Dichiara i quattro grandi obiettivi espliciti della riforma didattica (e lascia intravedere quelli impliciti di correzione delle principali disfunzioni del sistema): a) l’autonomia ovvero l’assunzione di responsabilità da parte dei corsi di studio nel definire cosa si insegna; b) la convergenza con il modello europeo di istruzione universitaria ovvero una articolazione dei livelli e dei titoli di studio, assimilabile a quella della maggior parte dei paesi europei; c) l’attenzione alle esigenze e al lavoro dello studente mediante la revisione dell’impianto didatco centrato sui crediti; d) la flessibilizzazione del sistema, intesa sia come ampliamento dell’offerta formativa, sia come autoriformabilità (ovvero la possibilità di modificare velocemente l’impostazione dei corsi di studio rispetto all’evoluzione della domanda sociale), sia come uso effettivo di modalità di valutazione interna ed esterna degli esiti dell’attività didattica (Sarchielli G., 2000).

Un auspicio prettamente italiano era quello di arginare alcuni problemi peculiari della nostra Università (Michelini, 2010). Nel 2000 infatti, ultimo anno prima dell’entrata in vigore della riforma, in Italia si sarebbero laureati entro i tempi previsti dall’offerta formativa soltanto il 5% degli studenti immatricolati, il 35% si sarebbe laureato fuori corso ed il restante 60% non avrebbe concluso il proprio ciclo di studi (ISTAT, 2001).

I fenomeni della “mortalità studentesca” e dei “fuori corso” erano già stati affrontati negli anni precedenti. Le problematiche didattiche conseguenti all’aumento delle immatricolazioni erano salite sul banco degli imputati specialmente nei Corsi di Laurea a carattere psicologico, che avevano visto un costante incremento degli studenti fino a metà degli anni ’90. La consapevolezza di questi nodi problematici rese condivisa l’intenzione di intervenire con dei correttivi adeguati. La risposta delle allora Facoltà si concretizz  nell’introduzione di prove di selezione: il “numero chiuso” e il “test d’ingresso”. Questa configurazione avrebbe garantito l’immatricolazione soltanto ai migliori o, quantomeno, ai più adatti allo studio della Psicologia. Le caratteristiche dell’iter formativo e le acquisizioni dei differenti saperi, avrebbero assicurato agli studenti una adeguata padronanza di metodi e contenuti scientifici generali nonché l’acquisizione di specifiche conoscenze, atte all’entrata in un mercato occupazionale contraddistinto da differenti configurazioni ed expertise professionali.

I lavori della Commissione Nazionale appositamente creata per la valutazione dei test, tuttavia, evidenziarono subito la scarsa validità predittiva delle prove di selezione (Giossi e Bertani, 1997) che finivano per essere “un impietoso e qualche volta cieco strumento di decimazione” (Arcuri e Soresi, 1997), segnalando evidenti disfunzioni dentro il sistema. ?

Nella tradizione statunitense, i test di accesso al College hanno una storia lunga ma controversa. Nel febbraio 2001 Richard Atkinson, presidente della University of California System, raccomandava l’eliminazione del College Board’s SAT (un esame di ingresso a College e Università), sostenendo che il test non forniva nessuna informazione addizionale rispetto quelle derivanti dal curriculum degli studenti (Robinson e Monks, 2005).

Gli studi psicologici si sono interessati a questi argomenti con il fine prevalente di valutare quali tipi di test di ammissione siano più efficienti nel predire la performance degli studenti. M. Guicciardi e M. Lostia (1998) concludono una analisi sugli iscritti al corso di studio di Psicologia di Cagliari sostenendo che il test di ammissione, se analizzato insieme ad altre caratteristiche degli studenti, manca di capacità predittiva della performance accademica studentesca. G. Favretto, M. Pasini e M. Pastore (2002) cercano di analizzare come differenti tipologie di test siano correlate con i risultati degli studenti nel corso degli studi universitari. Considerando varie misure di performances degli studenti, O. Andreani Dentici e G. Amoretti (2000) concludono che “la misura di ingresso più predittiva è sempre il voto di maturità, seguito dal punteggio del test”.

Altri studi giungono a risultati più dubitativi sulle capacità predittive dei test di accesso “The experiment demonstrated that some of the entry exams gave a good indication of the student level while other exams did not predict the correct student level.” (A.S. Al-Hammadi e R.H. Milne, 2004). Anche il contributo di A. Arshad e A. Umar (2010) giunge a risultati incerti sull’efficienza dei test di accesso ed evidenzia che la relazione tra test e performance è differente per diversi tipologie di studenti: “…Ma per ci  che riguarda gli studenti di sesso femminile ed alcune discipline di ingegneria i risultati sono ancor più sorprendenti, dimostrano, infatti, che esiste una relazione negativa fra i risultati dei predittori ed i risultati accademici.”

Le prove di selezione continuano, ogni anno, ad essere applicate con modalità analoghe nonostante l’introduzione del “Nuovo Ordinamento” non abbia prodotto miglioramenti apprezzabili nel numero di studenti che raggiungono la Laurea. Nel 2008 infatti, solo il 47,8% degli immatricolati alle Università italiane è riuscito a conseguire la Laurea Triennale (ISTAT, 2009), una differenza non sostanziale rispetto al 40% del 2000, a fronte soprattutto di un percorso più breve (3 anni contro i 4 o 5 precedenti).

© I predittori della performance accademica  – Laura Foschi

Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Appendice

APPENDICE

– La meritocrazia a scuola: un serio ostacolo all’apprendimento – F. Butera (2006)

La tesi sostenutadall’autore è che la meritocrazia nuoce all’apprendimento in quanto crea un clima di confronto sociale tra allievi, studenti o altre categorie di persone in formazione, che minaccia il sé e limita le capacità cognitive richieste per apprendere. La meritocrazia è il principio di giustizia che postula che a scuola, così come in altri ambiti della società, ognuno debba essere ricompensato o valorizzato in funzione dei propri meriti. Secondo questo principio è legittimo dare voti più alti agli allievi o agli studenti che hanno migliori prestazioni e offrire attività maggiormente stimolanti a coloro che imparano più in fretta.

Il principio dell’eguaglianza delle opportunità consiste appunto nel rendere possibile che gli allievi meritevoli, cioè con un alto profitto misurato in voti, possano continuare gli studi, qualunque sia il loro ceto d’origine. Il successo di questo sistema è dovuto al fatto che esso introduce un principio di giustizia nell’ineguaglianza sociale, rendendola apparentemente più accettabile: se le opportunità sono le stesse per tutti, allora gli allievi che riescono meglio sono quelli che hanno sviluppato le competenze che rendono legittima la loro posizione di superiorità.

Un sistema basato sul merito porta gli individui inseriti in questo sistema a un processo di confronto sociale permanente. Il confronto sociale è la tendenza umana a valutare le proprie capacità in maniera relativa, utilizzando gli altri come termini di paragone. La meritocrazia, soprattutto quando diventa una norma sociale generalizzata, implica un funzionamento costantemente orientato verso il confronto sociale. Se la norma prevede che si venga premiati per l’eccellenza, allora bisogna tenersi informati in continuazione non solo sui propri risultati ma anche, anzi soprattutto, sui risultati degli altri. La meritocrazia mette l’accento sulla riuscita, in termini di posizione raggiunta, più che sull’apprendimento effettivo; infatti applicare il principio della meritocrazia vuol dire relegare la questione dell’apprendimento a un ruolo secondario, rispetto alla questione della riuscita.

La psicologia sociale, per trattare della relazione tra meritocrazia e apprendimento, trova origine negli studi sul confronto sociale. Secondo la Teoria del Confronto Sociale (Festinger, 1954) il bisogno di valutare il sé (self-evaluation) è un bisogno fondamentale, un meccanismo così radicato nel funzionamento umano da essere attivato in maniera automatica e inconscia. Questa tendenza alla valutazione di sé svolge una funzione adattiva; di fronte a questo bisogno di valutazione di sé, e non possedendo strumenti di misura oggettivi, le persone si valutano confrontandosi con gli altri. Gli altri diventano così la fonte d’informazione.

Perché il confronto sociale può essere utile all’apprendimento? Oltre alla motivazione fondamentale alla valutazione di sé (self-evaluation), esiste anche una motivazione al miglioramento di sé (self-improvement). Il miglioramento dei risultati scolastici avviene quando gli allievi si confrontano con altri allievi tutto sommato molto simili per risultati e non quando si confrontano con il primo della classe.

Come detto la meritocrazia pone l’accento sulla riuscita e si basa sul confronto sociale; il confronto sociale può avere effetti nefasti, se implica una minaccia per il sé, per cui è ragionevole affermare che la meritocrazia implica un confronto sociale minaccioso. Infatti una persona si sente minacciata quando la valutazione di sé la porta alla conclusione, conscia o inconscia, che i suoi risultati non sono all’altezza degli standard normativi per lei pertinenti (i risultati di altre persone, i criteri di riuscita in un dato contesto, le aspettative delle persone di riferimento). In questo caso le persone sono particolarmente preoccupate di ridurre la discrepanza tra la valutazione effettiva e gli standard di riferimento.

La minaccia nel confronto sociale rappresenta un impedimento all’apprendimento. In primo luogo, la minaccia provocata dal confronto sociale studente-insegnante induce una rappresentazione normativa dell’insegnamento, fissando l’attenzione degli allievi sull’obbedienza all’autorità dell’insegnante, più che sull’apprendimento. In secondo luogo, la minaccia provocata dal confronto sociale induce una rappresentazione competitiva delle interazioni sociali, limitando il potenziale benefico di queste interazioni. Solo l’uso dell’expertise da parte dell’insegnante può portare a forme di apprendimento durature. L’insegnante che usa le sue conoscenze, più che la sua posizione, crea l’interesse degli allievi, interesse che implica un trattamento profondo delle informazioni e una loro integrazione più radicata nel sistema di conoscenze.

Purtroppo nell’ideologia del merito, quello che assume importanza nella relazione con l’insegnante è il suo potere di elargire rinforzi positivi o negativi e di stabilire una graduatoria, quindi il suo potere di coercizione o di ricompensa, che porta a una mera obbedienza e talvolta a comportamenti antisociali.

È noto che l’apprendimento avvenga soprattutto per motivazione intrinseca; infatti è la motivazione intrinseca che induce effetti positivi sulla persistenza nel compito in seguito a un insuccesso, sul mantenimento di un comportamento, sulla performance, sulla soddisfazione, sul benessere, sugli atteggiamenti interpersonali positivi e sui comportamenti prosociali. Tutto questo in paragone alla motivazione esterna; e coercizione e ricompensa sono motivazioni esterne. La meritocrazia, promettendo ai partecipanti della competizione una ricompensa in termini di posizioni sociali dominanti, riduce le motivazioni intrinseche/autonome, quelle che predicono meglio un apprendimento profondo e duraturo.

La minaccia nel confronto sociale induce una rappresentazione competitiva delle rappresentazioni sociali, a sua volta nociva per l’apprendimento; per tre ordini di ragioni:

    • riduce il beneficio della cooperazione. Se in un compito cooperativo il confronto sociale si articola attorno alla complementarietà dei ruoli, la competenza del partner diventa un aiuto all’apprendimento. Diversamente se nello stesso compito cooperativo il confronto sociale viene orientato verso la valutazione delle competenze, allora la competenza del partner diventa una minaccia e un impedimento per l’apprendimento;
    • riduce il beneficio del conflitto socio-cognitivo. L’effetto benefico del conflitto socio-cognitivo è sotteso da uno scopo che spinge l’individuo a concentrarsi sul contenuto; lo scopo che spinge l’individuo a primeggiare sugli altri non solo elimina l’effetto benefico del conflitto socio-cognitivo, ma lo rende addirittura deleterio;
    • produce un effetto di focalizzazione. Una minaccia nella valutazione del sé porta le persone a riflettere sui mezzi per ridurre tale minaccia occupando una buona parte delle risorse attenzionali; questa distrazione induce una focalizzazione dell’attenzione sugli elementi centrali di un compito, portando l’individuo a tralasciare gli elementi periferici.

 

Quando il confronto sociale è minaccioso, si pensa troppo al proprio status e di conseguenza rimangono poche risorse attenzionali per occuparsi di ciò che si dovrebbe, o che si vorrebbe, imparare.

In altre parole:

    • la meritocrazia, in quanto confronto sociale minaccioso permanente, non permette di trarre beneficio dalla cooperazione; gli individui cresciuti credendo nell’individualismo non saranno in grado di approfittare del lavoro di gruppo, se non quando il gruppo è costituito da individui subordinati. Se si vuole veramente l’eccellenza, allora bisogna applicare l’apprendimento cooperativo;
    • la meritocrazia minimizza l’utilità del conflitto socio-cognitivo in quanto il progresso cognitivo viene dalla capacità di integrare le differenze; se questa integrazione non avviene perché le differenze vengono rifiutate e percepite come minacciose, allora avrà luogo il conformismo;
    • la meritocrazia, e le sue minacce per il sé, porta ad una focalizzazione percettiva e cognitiva. Preoccupati dalla sorte della propria posizione sociale, gli utenti del sistema meritocratico si ritrovano a corto di risorse per elaborare l’informazione che dovrebbe porre le basi della loro formazione.

 

 

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© Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: sviluppi recenti – Fabrizio Manini

 

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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Conclusioni

CONCLUSIONI

I ricercatori hanno definito conflitto una situazione che prevede il disaccordo fra due (o più) parti in causa (Buchs, Butera, Mugny & Darnon, 2004; Doise & Mugny, 1984). Tale disaccordo circa la realizzazione di un compito comporta due componenti:

    • una componente sociale;
    • una componente cognitiva.

Il conflitto è sociale perché crea un confronto fra due persone, mentre invece è cognitivo perché solleva dubbi che riguardano il contenuto o la soluzione del compito assegnato. Un conflitto socio-cognitivo può implicare che noi abbiamo torto e la controparte abbia ragione, per cui la più diretta conseguenza è che quest’ultima possa risultare più competente.

Durante un compito di apprendimento le persone coinvolte possono comportarsi in due modi:

    • focalizzarsi sul problema e cercare di capirlo;
    • utilizzare e usare le loro competenze a riguardo.

Il conflitto, generato dal confronto tra affermazioni che divergono, può essere affrontato:

    • in maniera epistemica incentrando l’attenzione e gli sforzi sulcompito (primo modo);
    • in maniera relazionale evidenziando il confronto sociale delle competenze (secondo modo).

La seconda modalità non è funzionale all’apprendimento, nel caso in cui le persone coinvolte condividono le stesse informazioni, mentre un confronto sullo stesso argomento frena la collaborazione rispetto a quando le informazioni sono complementari.

Di conseguenza la prestazione in un conflitto affrontato in modo relazionale causa un peggiore apprendimento rispetto a un conflitto affrontato in modo epistemico.

Per affrontare questo conflitto, che mette in discussione la validità e l’accuratezza di ogni proposta, si può cercare di rielaborare il problema attraverso ciò che è stata chiamata regolazione epistemica del conflitto (Doise & Mugny, 1984; Mugny, De Paolis & Carugati, 1984).

Tuttavia se, nel conflitto, la competenza viene ad assumere un ruolo importante (Mugny, Butera, Quiamzade, Dragulescu & Tomei, 2003; Nicholls, 1984) il sentirsi incompetenti può incidere sulla propria percezione di autostima; in questo caso la reazione sarà quella di difesa nel tentativo di proteggere la propria competenza cercando, allo stesso tempo, di svalutare quella altrui.

Tale modo di agire è ciò che è stato definito regolazione relazionale del conflitto (Doise e Mugny, 1984).

La Teoria dell’elaborazione del conflitto (Pérez & Mugny, 1993; 1996) indica il meccanismo che ha luogo nelle situazioni di apprendimento. La dinamica è duplice perché anzitutto il conflitto mette in dubbio una delle due soluzioni possibili e poi, essendo un’opposizione tra individui, implica che uno abbia torto e uno ragione. In altre parole un conflitto solleva due questioni:

    • trovare la soluzione corretta o più soddisfacente (regolazione del conflitto in maniera epistemica);
    • mostrare e sostenere la propria competenza (regolazione del conflitto in maniera relazionale) (Mugny & Butera, 2001).

Il ricorso all’una o all’altra modalità dipende dal grado di minaccia percepita durante l’interazione:

    • in una situazione di non minaccia per la competenze dell’individuo (ad es. quando le informazioni possedute sono complementari) prevale la modalità epistemica (Mugny & Butera, 2001);
    • in una situazione di minaccia per le competenze dell’individuo (ad es. quando le informazioni sono le stesse oppure quando esiste già un precedente rapporto di competizione) prevale la modalità relazionale.

 

È stato osservato che affrontare il conflitto in maniera epistemica (attraverso un confronto di punti di vista alternativi) comporta una maggiore accuratezza nella soluzione dei problemi e produce un progresso a lungo termine (Carugati, DePaolis & Mugny, 1980; Mugny et al., 1978-79). Ma questi benefici non hanno luogo se le persone coinvolte mostrano remissività, vale a dire se il conflitto è regolato in maniera relazionale. Infatti le due forme di regolazione suddette hanno due diversi livelli di attività cognitiva e, di conseguenza, anche due diversi risultati di apprendimento:

    • nella prima modalità, cioè in condizioni di non minaccia incentrate sulla risoluzione epistemica, prevale una strategia diagnostica che porta i partecipanti a focalizzarsi sul compito e non sul rapporto;
    • nella seconda modalità, cioè in condizioni di minaccia incentrate sulla risoluzione relazionale, prevale una strategia non diagnostica che porta i partecipanti a focalizzarsi sul rapporto e non sul compito (Butera & Mugny, 1995, 2001).

 

In generale un conflitto è benefico soltanto se non è associato al confronto sociale in quanto quest’ultimo è negativo per l’apprendimento.

Il rapporto tra i partecipanti sarà positivo e costruttivo solamente nella modalità epistemica, così come l’apprendimento avverrà solo nel conflitto epistemico. Risolvere il conflitto in modo difensivo, cioè con una modalità relazionale, significa caricare ulteriormente il proprio sistema cognitivo per dimostrare la propria conoscenza/competenza; questo sovraccarico interferisce con l’elaborazione del compito e risulta dannoso per l’apprendimento.

In sostanza un conflitto può deteriorare l’apprendimento se si tratta di un conflitto relazionale, basato sulla minaccia delle competenze individuali.

Quindi:

    • se i partecipanti lavorano su informazioni identiche (in condizione di indipendenza delle fonti), le attività relazionali aumentano, ci sono meno interazioni; il rapporto è percepito più negativamente e tutti i tipi di interazioni sono equivalenti per l’apprendimento che sarà di modesto livello;
    • se i partecipanti lavorano su informazioni complementari (in condizione di interdipendenza delle fonti), le attività epistemiche aumentano, così come aumenta il numero delle interazioni; il rapporto sarà percepito più positivamente e l’apprendimento sarà maggiore.

 

Il primo tipo di regolazione (quella relazionale) ha il suo focus sulla valutazione della competenza e quindi sul confronto sociale, mentre il secondo tipo di regolazione (quella epistemica) ha il suo focus sul compito da risolvere.

Per quanto riguarda il rendimento esistono due tipi di risultati:

    • i risultati o scopi della padronanza (o risultati di apprendimento, o risultati focalizzati sul compito);
    • i risultati o scopi della prestazione (o scopi focalizzati sull’io, o scopi di abilità relativa).

 

I primi corrispondono alla volontà di acquisire conoscenza e sviluppare competenza, i secondi corrispondono alla volontà di dimostrare la propria competenza.

La ricerca dimostra che i risultati di padronanza favoriscono un profondo processo del compito, mentre i risultati della prestazione favoriscono un processo superficiale del compito (Darnon & Butera, 2005; Elliot, McGregor & Gable, 1999; Nolen, 1988).

Prendendo in considerazione gli scopi di prestazione si può affermare che:

    • l’adesione agli scopi di padronanza predice la risoluzione epistemologica;
    • l’adesione agli scopi di prestazione predice la regolazione relazionale.

 

Sia gli scopi di padronanza sia gli scopi di prestazione rappresentano variabili socio-cognitive che influenzano il modo in cui viene regolato il conflitto (risoluzione epistemica o risoluzione relazionale).

I più recenti modelli di scopi di risultato hanno specificato che gli scopi della prestazione possono avere due diverse forme (Elliot, 1997; Elliot & Harackiewicz, 1996):

    • se gli individui sono orientati verso il superare gli altri nella prestazione (cercando di ottenere giudizi positivi), allora stanno perseguendo scopi di approccio alla prestazione;
    • se sono orientati a evitare prestazioni inferiori agli altri (evitando giudizi negativi), allora stanno perseguendo scopi di evitamento alla prestazione (Elliot, 1997, 1999; Elliot & Church, 1997; Elliot & Harackiewicz, 1996; Middleton & Midgley, 1997).

 

La ricerca dimostra che gli scopi per evitare la prestazione sono correlati a risultati di maladattamento, inclusa la prestazione accademica, mentre gli scopi di approccio alla prestazione sono spesso positivamente correlati al livello di prestazione a un esame.

Da notare che i suddetti risultati vanno in senso contrario rispetto alla visione tradizionale che gli scopi di prestazione sono scopi negativi che devono essere evitati quanto più possibile nelle classi.

Cercando di capire perché sia gli scopi di approccio alla prestazione sia gli scopi per evitarla hanno diversi rapporti con i risultati scolastici, Elliot (1999), Elliot & Church (1997) hanno esaminato gli antecedenti di questi scopi individuandone due:

    • la componente negativa degli scopi di prestazione (sia di approccio sia per evitarla) è la loro associazione con la paura di fallire. L’associazione con la paura di fallire aiuta a spiegare perché gli scopi per evitare la prestazione sono legati a risultati negativi;
    • la componente positiva degli scopi di prestazione è la loro associazione (motivazionale) alle aspettative di competenza (Elliot & Church, 1997).

 

Più precisamente, secondo questi autori, gli individui con alte aspettative di competenza è più probabile che adottino scopi di approccio alla prestazione, mentre quelli con basse aspettative di competenza più probabilmente adotteranno scopi per evitare la prestazione.

In ambito accademico, e scolastico in generale:

    • gli studenti che hanno adottato più alti livelli di scopi di approccio alla prestazione hanno migliori prestazioni all’esame perché percepiscono il contenuto della lezione come “non troppo complicato” per loro;
    • al contrario, gli studenti che hanno adottato livelli più alti di scopi per evitare la prestazione hanno prestazioni più scarse perché percepiscono il contenuto della lezione come “troppo complesso” per loro.

 

Gli studenti che adottano scopi di approccio alla prestazione in questa situazione possono essere protetti contro la paura del fallimento perché essi percepiscono il compito come rientrante nella loro gamma di capacità (per es. non “troppo difficile per loro”) e così possono fare una buona prestazione.

Diversamente, gli studenti che adottano scopi per evitare la prestazione non sono protetti contro la paura del fallimento perché il loro focalizzarsi sull’evitare il fallimento può portarli a percepire il compito come al di là della loro gamma di capacità (per es. “troppo complicato per loro”). A causa di queste focalizzazioni non hanno buone prestazioni sul compito.

 

 

© Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: sviluppi recenti – Fabrizio Manini

 

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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Effetti di Mediazione

EFFETTI DI MEDIAZIONE

Per testare gli effetti di mediazione, è stata usata la metodologia raccomandata da Baron e Kenny (1986).

Per gli scopi di approccio alla prestazione,

    1. gli scopi di approccio alla prestazione preconiz-zano positivamente la variabile dipendente (prestazione all’esame), come mostrato nella precedente sessione;
    1. gli scopi di approccio alla prestazione preconizzano negativamente il mediatore (com-plessità percepita per sé);
    1. la complessità percepita preconizza la prestazione all’esame anche nei controlli dell’effetto degli scopi di approccio alla prestazione. È interessante notare che l’effetto degli scopi di approccio alla prestazione per la prestazione all’esame non è significativa quando si controlla l’effetto del mediatore.

 

Per gli scopi di evitamento della prestazione

    1. gli scopi per evitare la prestazione preconizza-no negativamente la prestazione all’esame, come indicato nella sezione precedente;
    1. gli scopi per evitare la prestazione preconizzano positivamente la complessità per sé;
    1. la complessità percepita preconizza la prestazione all’esame anche quando si controlla l’effetto degli scopi per evitare la prestazione. È interessante notare che il legame tra scopi per evitare la prestazione e prestazione all’esame non è significativo quando si controlla l’effetto del mediatore.

 

Allo scopo di verificare che i suddetti effetti di mediazione non fossero dovuti alla complessità percepita della lezione in generale, le suddette analisi sono state ripetute con la misurazione della percepita “complessità del contenuto della lezione per il nostro livello accademico”. Il ruolo di mediazione della complessità generale percepita non è stato verificato. Questa variabile non preconizza la prestazione all’esame, né modifica l’effetto degli scopi di approccio alla prestazione, o di quelli per evitare la prestazione.

In sintesi, queste analisi dimostrano che la percezione del contenuto della lezione come troppo complicato per se stesso, e non la percezione della lezione come troppo complicata per qualsiasi studente a quel livello accademico, media gli effetti sulla prestazione all’esame sia degli scopi di approccio alla prestazione sia di quelli per evitarla.

UN ESEMPIO DI STUDIO

In molti studi, gli scopi di approccio alla prestazione preconizzano la prestazione all’esame, mentre gli scopi per evitare la prestazione la preconizzano negativamente (per es. Church et al. 2001; Elliot & Church, 1997; Elliot & McGregor, 1999). Il primo scopo di questo studio è di riprodurre queste scoperte con un esame orale, cioè una forma di esame che richiede agli studenti di va-lutare e sintetizzare il materiale a un livello più approfondito che i test a scelta multipla. Inoltre, questo studio testerà l’ipotesi che i legami tra scopi di prestazione (approccio e per evitarla) e prestazione all’esame sono mediati dalla difficoltà percepita. Poiché si pensa che il possibile meccanismo di mediazione sia specifico della persona piuttosto che una difficoltà percepita dalla classe in generale, ci si aspetta che il mediatore sarà la complessità percepita e non qualche generale complessità percepita della difficoltà del contenuto della classe per il suo livello accademico.

Vale la pena di notare che in questo studio la maggioranza dei partecipanti erano studentesse, il che riflette la distribuzione di studenti nei dipartimenti di psicologia. Tuttavia, tutti gli effetti presentati rimanevano significativi con il controllo per il sesso dei partecipanti. Ai questionari si è ri-sposto a metà del semestre. L’esame ha avuto luogo alla fine del semestre.

Questo studio replica i legami tra scopi di prestazione all’esame e prestazione all’esame riscontrati nella precedente ricerca (Church et al., 2001; Elliot e Church, 1997; Elliot e McGregor, 1999, 2001; Elliot et al., 1999; Harackiewicz et al., 1997, 2000, 2002; Pintrich, 2000; Wolters et al., 1996). Come già detto, nella maggior parte di questi studi questo legame veniva osservato in un test a scelta multipla, una misura della prestazione che può essere considerata come una superficie di riflessione, anziché come maggiore apprendimento. È interessante che Barron e Harackiewicz (2003) abbiano osservato lo stesso legame nelle classi avanzate che richiedevano un livello più profondo di comprensione. La presente ricerca supporta quest’ultima scoperta. Infatti questi risultati indicano che il legame positivo tra scopi di approccio alla prestazione e prestazione all’esame – così come il legame negativo tra scopi per evitare la prestazione e prestazione all’esame – veniva riscontrato quando la prestazione era misurata tramite esame orale (un compito basato su ricordo e integrazione) anziché tramite un esame a scelta multipla (un compito basato sulla ricognizione principalmente). Così i risultati indicano che il legame positivo tra scopi di approccio alla prestazione e prestazione all’esame viene osservato anche quando l’esame richiede un livello più profondo di apprendimento.

L’analisi di mediazione dimostra che gli studenti che hanno adottato più alti livelli di scopi di approccio alla prestazione hanno migliori prestazioni all’esame perché percepiscono il contenuto della lezione come “non troppo complicato” per loro. Al contrario, gli studenti che hanno adottato livelli più alti di scopi per evitare la prestazione hanno prestazioni più scarse perché percepiscono il contenuto della lezione come “troppo complesso” per loro. È importante che venga percepita la complessità per se stessa, piuttosto che una complessità generale percepita, mediando così gli effetti dello scopo di prestazione sulla prestazione all’esame orale.

I risultati di mediazione sono coerenti con la ricerca recente che dimostra l’importanza dell’incertezza nel comprendere gli effetti degli scopi di prestazione (Darnon, Harackiewicz, Bute-ra, Mugny & Quiamzade, 2007). Essi sostengono l’idea che la propria percezione di capacità di realizzare un compito è un contributo chiave. Come già discusso, le differenze iniziali nelle aspettative di competenza portano o all’adozione di scopi di approccio o per evitare il risultato (Elliot & Church, 1997). Questo studio aggiunge che, a sua volta, l’adozione di uno scopo porta a percepire il compito come “raggiungibile”, in caso di scopi di approccio, o come troppo difficile, in caso di scopi per evitarlo. Queste percezioni di difficoltà hanno un impatto diretto sulla prestazione e, in caso di scopi di approccio alla prestazione, forniscono uncuscinetto contro gli effetti deprimenti della paura del fallimento.

Come suggerito da Dweck e Legett (1988), in un contesto in cui gli scopi di prestazione sono prevalenti, il fallimento è significativo poiché è percepito come un’indicazione che le capacità sono scarse. Di conseguenza sia gli scopi di approccio alla prestazione sia quelli per evitarla vengono associati alla possibilità di fallimento. Tuttavia, gli scopi di approccio alla prestazione e gli scopi di approccio per evitare la prestazione non sono associati allo stesso modo di affrontare le situazioni significative per il fallimento. In linea con il modello di Elliot (1997), gli studenti che adottano scopi di approccio alla prestazione in questa situazione possono essere protetti contro la paura del fallimento perché essi percepiscono il compito come rientrante nella loro gamma di capacità (per es. non “troppo difficile per loro”) e così possono fare una buona prestazione. Al contrario, gli studenti che adottano scopi per evitare la prestazione non sono protetti contro la loro paura del fallimento. Al contrario, il loro focalizzarsi sull’evitare il fallimento può portarli a percepire il compito come al di là della loro gamma di capacità (per es. “troppo complicato per loro”). A causa di queste focalizzazioni non hanno buone prestazioni sul compito.

Per quanto riguarda questo studio si possono notare alcuni limiti. In particolare, il mediatore è una singola misurazione di una variabile e ha bisogno di essere convalidata. Inoltre sarebbe interessante esaminare le similitudini tra questa misurazione e altre misurazioni come l’auto-efficacia (Bandura, 1997), aspettative di competenza (Elliot & Church, 1997) e paura del fallimento (Elliot & Church, 1997). La futura ricerca dovrà esaminare le inter-relazioni tra questa misurazione di difficoltà percepita e questi altri potenziali mediatori.

Nonostante queste limitazioni, questa ricerca permette una migliore comprensione del legame tra scopi di prestazione e risultato accademico. Si è già ricordato quanto spesso questi effetti sono stati osservati e come fosse importante spiegarli. Una spiegazione che viene data per queste scoperte è che la misurazione della prestazione all’esame è stata limitata a domande di livello superficiale, e che il legame tra scopi di prestazione e anno di corso non sarebbe stato riscontrato se l’esame avesse richiesto una procedura più approfondita. Inoltre, i risultati sottolineano l’importanza della difficoltà percepita in sé nello spiegare questi risultati. In generale questi risultati aiutano a chiarire il rapporto tra scopi di prestazione e prestazione all’esame – una questione che è centrale nella letteratura sugli scopi di riuscita (Senko et al., in stampa).

 

© Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: sviluppi recenti  – Fabrizio Manini

 

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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Dagli approcci di prestazione agli approcci di apprendimento

DAGLI APPROCCI DI PRESTAZIONE AGLI APPROCCI DI APPRENDIMENTO

Per diversi anni i ricercatori hanno ritenuto che gli studenti che sono impegnati in compiti di prestazione possano aderire a due diversi tipi di scopi (Ames, 1992; Dweck, 1986; Nicholls, 1984). Gli scopi di padronanza vengono definiti come il desiderio generale di fare bene rispetto agli altri. Gli autori sono d’accordo nel sostenere che gli scopi di padronanza portano a molti risultati di adat-tamento, come la durata dopo il fallimento (Diener & Dweck, 1980), l’interesse intrinseco (Ra-wsthorne & Elliot, 1999), i pochi resoconti di comportamenti disgregativi (Kaplan, Gheen & Mi-dgley, 2002) e gli efficaci modelli di regolazione del conflitto (Darnon, Muller, Schrager, Pannuzzo & Butera, 2006; Darnon & Butera, 2007).

Tuttavia, c’è minor consenso sugli effetti dei risultati della prestazione (per es. Harackiewicz, Barron & Elliot, 1998; Harackiewicz, Barron, Pintrich, Elliot & Thrash, 2002; Kaplan & Middleton, 2001; Pintrich, 2003).

I più recenti modelli di scopi di risultato hanno specificato che gli scopi della prestazione pos-sono avere due diverse forme (Elliot, 1997; Elliot & Harackiewicz, 1996):

    • se gli individui sono orientati verso il superare gli altri nella prestazione (cercando di ottenere giudizi positivi), allora stanno perseguendo scopi di approccio alla prestazione;
    • al contrario, se sono orientati a evitare prestazioni inferiori agli altri (evitando giudizi negativi), allora stanno perseguendo scopi di evitare la prestazione (Elliot, 1997, 1999; Elliot & Church, 1997; Elliot & Harackiewicz, 1996; Middleton & Midgley, 1997).

 

Questa distinzione permette una maggiore specificità nel preconizzare gli effetti degli scopi della prestazione. La ricerca invariabilmente dimostra che gli scopi per evitare la prestazione sono correlati a risultati di maladattamento, inclusa la prestazione accademica (Church, Elliot & Gable, 2001; Elliot & Church, 1997; Elliot, McGregor & Gable, 1999; Elliot & McGregor, 1999, 2001; MgGregor & Elliot, 2002; Sideridis, 2005), mentre gli scopi di approccio alla prestazione sono spesso positivamente correlati alla prestazione all’esame (Bouffard, Boisvert, Vezeau & Larouche, 1995; Church et al., 2001; Elliot & Church, 1997; Elliot & McGregor, 1999, 2001; Elliot et al., 1999; Harackiewicz, Barron, Pintrich, Carter, Letho & Elliot, 1997; Harackiewicz, Barron, Tauer & Elliot, 2002; Pintrich, 2000; Sideridis, 2005; Wolters, Yu & Pintrich, 1996; per revisioni si veda Baron & Harackiewicz, 2000; Harackiewicz et al., 2002).

Questa correlazione è stata osservata nel-le misurazioni a lungo termine di prestazione accademica (Harackiewicz, Barron, Tauer, Carter & Elliot, 2000) e nei seminari avanzati per non diplomati (Baron & Harackiewicz, 2003).

I suddetti risultati vanno in senso contrario rispetto alla visione tradizionale che gli scopi di prestazione sono scopi negativi che devono essere evitati quanto più possibile nelle classi (per es. A-mes, 1992; Dweck & Legett, 1988), e hanno portato a un dibattito nella letteratura sulla ragione degli scopi di prestazione positiva legati al risultato all’esame (Harackiewicz, Barron, Pintrich et al., 2002; Kaplan & Midgley, 2002; Midgley et al., 2001; si veda anche Senko, Durik & Harackiewicz, in stampa).

Fra gli argomenti presentati per spiegare questo legame positivo c’è il modo in cui viene determinata la prestazione accademica.

Infatti, si è sostenuto che un limite di molti studi realizzati in classi universitarie è che la prestazione all’esame è determinata usando questionari a scelta multipla che richiedono di “compilare lavoro ripetitivo, essere condiscendenti, comportarsi bene o, in generale, avere un livello apparente di comprensione del materiale” (Wolters, 2004). Questo tipo di studio può essere considerato come non riflettente la profonda comprensione da parte degli studenti del corso e come un’indicazione di un efficace, non superficiale modo di studiare (per es. cercando di apprendere solo ciò che è necessario per l’esame). Secondo Harackiewicz et al. (1997) “Un approccio superficiale all’apprendimento può in effetti essere molto efficace nel prepararsi agli esami a scelta multipla nelle classi preparatorie.

Se gli esami del college non testano i processi profondi o la sintesi meditata e l’integrazione, allora gli studenti orientati alla prestazione possono essere quelli che probabilmente otterranno buoni voti” (Harackiewicz et al. 1998, 2000; Wolters, 2004).

Così, per testare questa spiegazione, è importante esaminare se l’approccio alla prestazione-legame anno di corso è valido anche per un diverso tipo di esame, un tipo che necessita molta riflessione sui ma-teriali studiati. Questa convalida sarà lo scopo principale di questo studio, dove gli studenti si sottopongono a un esame orale che richiede loro non solo di richiamare importanti informazioni, ma anche di interpretare, analizzare e integrare il materiale del corso durante una presentazione orale.

Il secondo scopo dello studio è di contribuire allo sforzo di spiegare questo effetto, e in particolare di trovare un adeguato mediatore. Come hanno notato Harackiewicz et al. (1998), “Un altro li-mite della ricerca a scuola è che non è stato esaminato il processo che mediava l’effetto di risultato che si è osservato”.

Seguendo questa raccomandazione alcuni autori hanno esaminato che il legame negativo tra scopi per evitare la prestazione e prestazione all’esame era mediato dalla disorganizzazione, mentre il legame positivo tra scopi di approccio alla prestazione e prestazione all’esame era mediato da perseveranza e sforzo.

Inoltre, Elliot e McGregor (1999) hanno osservato che il legame tra evitare la prestazione e prestazione all’esame era mediato dall’ansia per l’esame di stato. Non era così per gli scopi di approccio alla prestazione. Questo studio ha lo scopo di estendere questi risultati esaminando una variabile che potrebbe mediare i legami tra entrambi i tipi di scopi di prestazione e prestazione all’esame: difficoltà percepita.

Cercando di capire perché gli scopi di approccio alla prestazione e per evitarla hanno diversi rapporti con i risultati scolastici, Elliot (1999), Elliot & Church (1997) hanno esaminato gli antecedenti di questi scopi. Per Elliot la componente negativa degli scopi di prestazione (sia di approccio sia per evitarla) è la loro associazione con la paura di fallire (si veda anche Rawthorne & Elliot, 1999). L’associazione con la paura di fallire aiuta a spiegare perché gli scopi per evitare la prestazione sono legati a risultati negativi.

Sebbene gli scopi di approccio alla prestazione siano anche legati alla paura di fallire, essi sono anche associati ad antecedenti motivazionali più positivi, come le aspettative di competenza (Elliot & Church, 1997). Più precisamente, secondo questi autori, gli individui con alte aspettative di competenza è più probabile che adottino scopi di approccio alla prestazione, mentre quelli con basse aspettative di competenza più probabilmente adotteranno scopi per evitare la prestazione.

Le alte aspettative di competenza possono attenuare gli effetti negativi per la paura di fallire dei singoli e permettere così scopi di approccio alla prestazione positivamente legati ai risultati.

Se gli studenti che adottano scopi di approccio alla prestazione sono quelli con alte aspettative di competenza (Elliot & Church, 1997), allora ci si può aspettare che la ragione per cui gli studenti che aderiscono a scopi di approccio alla prestazione riescono bene negli studi è che essi in realtà pensano di “essere in grado di farlo”. Cioè pensano che il compito sia “alla loro portata”. Dall’altra parte, se gli studenti che adottano scopi per evitare la prestazione sono quelli che mancano di fiducia nelle proprie capacità, allora forse la ragione per cui questi studenti hanno scarse prestazioni è che essi pensano “non ce la farò mai”. Cioè il compito è considerato troppo difficile per il loro livello di capacità. Se il ragionamento è corretto, allora il legame positivo tra scopi di approccio alla prestazione e prestazione all’esame dovrebbe essere mediato dalla difficoltà percepita del compito. La stessa variabile dovrebbe anche mediare il legame negativo tra scopi per evitare la prestazione e prestazione all’esame.

 

 

 

 

 

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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Situazione di incertezza – Il conflitto sociocognitivo

SITUAZIONE DI INCERTEZZA: CONFLITTO SOCIOCOGNITIVO

Un tipo di situazione che ha luogo frequentemente negli ambienti di apprendimento è quella che crea incertezza: il confronto con un’altra persona che non è d’accordo su una risposta. Alcuni ricer-catori chiamano questa situazione “conflitto socio-cognitivo” (Buchs, Butera, Mugny & Darnon, 2004; Doise & Mugny, 1984; Mugny & Doise, 1978). Per questi autori il fatto che un’altra persona proponga una risposta diversa mette in discussione la conoscenza di un individuo e suggerisce che forse la sua risposta è sbagliata (Butera & Mugny, 1995, 2001; Quiamzade & Mugny, 2001). Quindi questa situazione è caratterizzata da una doppia incertezza: sia un’incertezza sulla validità di una risposta sia un’incertezza sulla competenza personale. In linea con questa tesi McGarry, Turner, Oakes e Haslam (1993) hanno dimostrato che il disaccordo con gli altri aumenta l’incertezza soggettiva (vedi anche Hardin & Higgins, 1996). Questo punto di vista è anche in linea con altri risultati (Pool, Wood & Leck, 1998) che dimostrano che il disaccordo con altre persone rilevanti minaccia l’autostima.

Molti contesti educativi comprendono l’opportunità di lavorare con altri studenti, sia nelle discussioni di classe e nei gruppi di studio che in unità di apprendimento cooperativistico. Ogni volta che queste interazioni con gli altri sono possibili, possono aversi disaccordi ed è importante studiare gli effetti degli scopi di risultato in questi contesti. Infatti, se dover affrontare il disaccordo di un pari grado aumenta l’incertezza, allora ci si può aspettare che gli scopi di prestazione perdano il loro potenziale positivo in questi tipi di contesti di apprendimento.

DUE ESEMPI DI STUDIO

Gli esperimenti che seguono testano l’ipotesi che gli scopi di approccio alla prestazione siano più efficaci in condizioni di scarsa incertezza e che siano meno vantaggiosi in condizioni di grande incertezza. Ciò verrà testato su tipici compiti accademici, cioè apprendere un testo accademico (Esperimento 1) e risolvere problemi matematici (Esperimento 2). In entrambi gli studi viene manipolata l’incertezza esponendo alcuni partecipanti al conflitto socio-cognitivo. Nell’esperimento 1 viene testata l’ipotesi sperimentalmente manipolando l’approccio verso scopi di evitamento della prestazione ed esponendo così ipartecipanti a un’altra persona che è in accordo o in disaccordo con loro. Quando ci si trova di fronte qualcuno che è in disaccordo, il vantaggio (beneficio) degli scopi di approccio o di evitamento dovrebbe andar perso in relazione alle condizioni in cui i pari grado sono d’accordo. Nello Studio 2 vengono misurati gli scopi di risultato auto-fissati e vine manipolata l’incertezza in due modi. Oltre alla manipolazione del conflitto socio-cognitivo, si manipola l’incertezza sulla competenza personale fornendo ad alcuni partecipanti un feed-back negativo sulle loro capacità.

STUDIO 1

I partecipanti hanno ricevuto istruzioni di approccio alla prestazione, rispetto all’evitamento, per una lezione di apprendimento di un testo e sono stati portati a pensare che stavano interagendo con un’altra persona. Durante questa “interazione”, l’altra persona poteva essere d’accordo o in disaccordo con loro sulle risposte alle domande sul testo.

Come previsto, il disaccordo rende i partecipanti incerti sulla validità della loro risposta e incoraggia comportamenti aventi lo scopo di ridurre l’incertezza. Infatti, i partecipanti hanno scelto di ritornare sul testo più dopo il disaccordo che dopo l’accordo. In linea con ciò, il disaccordo incoraggiava gli scambi; i partecipanti che avevano dovuto affrontare il disaccordo non solo non rileggevano di più il testo, ma anche replicavano di più al partner, riecheggiando il punto di vista di Festinger (1950) secondo il quale il disaccordo è l’elemento chiave che fa comunicare le persone. Inoltre, i risultati aiutano a chiarire l’effetto distintivo degli scopi di approccio e di evitamento della prestazione. Infatti, in condizioni di disaccordo, gli scopi di approccio alla prestazione portano a ritornare al testo dopo la risposta del partner, un comportamento che è piuttosto tipico della motivazione di approccio (Elliot, 1997).

Riproducendo i primi risultati (per esempio Elliot & Church, 1997; Elliot et al., 1999), è stato riscontrato che gli scopi di approccio alla prestazione sono più benefici per la prestazione di quanto non lo siano quelli di evitamento, ma – e questo è il contributo di questo esperimento – solo in condizioni di accordo (bassa incertezza). È stato riscontrato un diverso modello di risultati quando ci sono disaccordi; in questa condizione di incertezza, i due scopi portano allo stesso basso livello di prestazione.

Così, i risultati di questo esperimento supportano l’ipotesi che gli effetti positivi degli scopi di approccio alla prestazione possano apparire solo quando l’incertezza è bassa. Tuttavia, sono state notate delle importanti limitazioni. In primo luogo, come già detto, i teorici hanno sostenuto che il disaccordo introduce una doppia incertezza: un’incertezza sulla correttezza di una risposta e un’incertezza sulla competenza personale (Butera & Mugny, 2001). In questo esperimento la manipolazione del conflitto ha sollevato dell’incertezza sulla correttezza di una risposta, ma non necessariamente solleva incertezza sulla competenza personale. Infatti, il disaccordo in questo studio è orientato al contenuto e all’interpretazione del testo e non c’è riferimento alla capacità del partecipante (si veda Darnon, Buchs & Butera, 2002, per diverse formulazioni del conflitto interpersonale). Un interessante ampliamento di queste scoperte sarebbe di esplorare se gli stessi effetti hanno luogo in condizioni di incertezza sulla competenza personale. Cioè, gli scopi di approccio alla prestazione si dimostrerebbero di maladattamento se, invece di dubitare della validità della loro risposta, i partecipanti fossero portati a dubitare della loro competenza personale? L’esperimento 2 tratteràquesta questione.

Inoltre, in questo esperimento, gli scopi sono manipolati. Tuttavia, molta della letteratura sugli scopi di risultato riguarda studi di scopi di auto-riuscita, e legami positivi tra scopi di approccio alla prestazione e prestazione accademica sono stati documentati in maniera più esaustiva in studi dove gli scopi non venivano manipolati, ma misurati (per es. Elliot & Church, 1999; Elliot & McGregor, 2001; Elliot et al., 1999; Harackiewicz et al., 1997, 2000, 2002; P.Pintrich, 2000; si veda anche Senko & Harackiewicz, 2001; o Elliot et al. 2005). A livello sperimentale gli scopi manipolati non sempre hanno gli stessi effetti degli scopi auto-determinati (Barron & Harackiewicz, 2001; Linnen-brink, 2005). È quindi importante esaminare i mediatori degli effetti degli scopi auto-determinati. Nell’esperimento 2 è stata testata la mitigazione degli effetti degli scopi auto-determinati di approccio e di evitamento alla prestazione tramite il disaccordo e il feedback negativo. Si dovrebbe osservare un modello similare di moderazione come nell’esperimento 1, cioè gli scopi di approccio alla prestazione dovrebbero essere migliori preconizzatori della prestazione in condizioni di bassa incertezza.

STUDIO 2

Come nel precedente studio 1 i partecipanti sono stati portati a pensare che stavano interagendo con un co-attore durante un compito di apprendimento. Questo esperimento tuttavia differisce dal primo per tre aspetti: 1) in contrasto con l’esperimento precedente gli scopi di approccio e di evitamento non sono manipolati, bensì determinati come variabili auto-riferite. 2) oltre al fattore di disaccordo, è stato manipolato un altro fattore per creare incertezza: feedback negativo sulla competenza personale. 3) il compito usato nell’esperimento 2 è diverso da quello dell’esperimento 1. Comporta l’apprendimento di una nuova tecnica di soluzione dei problemi di moltiplicazione.

Come nell’esperimento precedente, il disaccordo è preconizzato per moderare l’effetto degli scopi di approccio alla prestazione; cioè, i benefici degli scopi di approccio alla prestazione dovrebbero apparire solo senza disaccordo. La stessa moderazione dovrebbe essere osservata con feedback negativo, cosicché gli scopi di approccio alla prestazione dovrebbero avere effetti positivi in assenza di feedback negativo. In contrasto, gli scopi di approccio alla prestazione dovrebbero sempre preconizzare negativamente la prestazione, indipendentemente dal disaccordo o dal feedback negativo.

Questo esperimento era preparato per trattare due questioni. In primo luogo si è cercato di riprodurre i risultati dell’esperimento 1, ma con scopi auto-stabiliti, anziché manipolati. In secondo luogo, si è preso in considerazione la questione se la moderazione degli effetti degli scopi di approccio alla prestazione sarebbero stati osservati anche con una diversa manipolazione dell’incertezza, basata sulla competenza personale piuttosto che sulla validità di una risposta.

I risultati del controllo di manipolazione indicano che sia il feedback negativo sia il disaccordo sono efficaci nell’introdurre incertezza. Come nell’esperimento 1, il disaccordo aumenta l’incertezza sulla validità delle risposte del partecipante (anche se erano corrette). Al contrario, il feedback negativo non aumenta l’incertezza sulla validità di una risposta, ma solo l’incertezza sulla competenza personale. Sebbene questi due fattori portino a diversi tipi di incertezza, ognuno di essi moderava gli effetti degli scopi di approccio alla prestazione allo stesso modo. Infatti, si è osservato un’interazione tra scopi di approccio alla prestazione e disaccordo, e anche un’interazione tra scopi di approccio alla prestazione e feedback negativo. La prima interazione permette una replica concettuale dell’esperimento 1. La seconda indica che la stessa dinamica appare con l’incertezza sulla competenza personale.

Ci si aspettava che gli scopi di evitamento della prestazione fossero negativamente collegati alla prestazione attraverso le condizioni sperimentali. Contrariamente a questa ipotesi, l’effetto principale degli scopi di evitamento della prestazione non è significativo. Tuttavia, l’interazione significativa tra scopi di evitamento della prestazione e disaccordo rivelano che gli scopi di evitamento della prestazione preconizzano la prestazione (come anche riscontrato da Elliot & Church, 1997; Elliot & McGregor, 2001; Elliot et al., 1999; Sideridis, 2005; Skaalvik, 1997) ma solo in condizioni di non-conflitto. In condizioni di conflitto, tuttavia, la prestazione è bassa indipendentemente dall’applicazione dello scopo di evitazione della prestazione, forse perché tutti i partecipanti sperimentano l’incertezza quando il loro partner non è d’accordo con loro. Inoltre, questo effetto di interazione è in linea con i risultati dell’esperimento 1, indicando che gli scopi di evitamento della prestazione minano la prestazione relativa agli scopi di approccio alla prestazione in condizioni di accordo, ma non in condizioni di disaccordo.

L’alta correlazione tra scopi di approccio ed evitamento della prestazione suggerisce che gli individui possono adottare e adottano entrambi i tipi di scopi e che è importante testare i loro effetti separati e interattivi (Barron & Harackiewicz, 2001; Pintrich, Conley & Kempler, 2003). L’interazione tra scopi di evitamento e di approccio alla prestazione indica che, quando si associano a un forte supporto degli scopi di approccio alla prestazione, gli scopi di evitamento della prestazione non sono negativi per la prestazione. Questo risultato suggerisce che il supportare entrambi i tipi di scopi di prestazione può essere più adattabile che supportare solo gli scopi di evitamento della prestazione, forse perché lo scopo di approccio contiene l’effetto negativo dello scopo di evitamento. Questo risultato illumina la possibilità di sostegno di scopi multipli, una possibilità sinora studiata solo per gli scopi di padronanza e di approccio alla prestazione.

DISCUSSIONE GENERALE

Lo scopo di questi due esperimenti è di trattare la questione degli effetti degli scopi di prestazione sulla prestazione stessa. È stato ipotizzato che gli scopi di approccio alla prestazione aumentassero la prestazione se confrontati con gli scopi di evitamento della prestazione, ma solo in condi-zione di bassa incertezza. Al contrario, si prevedeva che gli scopi di evitamento della prestazione fossero alla base della prestazione, indipendentemente dal livello di incertezza. Considerati insieme, i risultati degli esperimenti supportano fortemente l’ipotesi. Nell’esperimento 1 questa ipotesi è stata valutata in un contesto in cui è stato manipolato il conflitto attraverso il confronto tra un attore in disaccordo e un co-attore in accordo. I risultati dimostrano che, come ci si aspettava e come osservato nella precedente richiesta (McGarty et al., 1993), la manipolazione del conflitto aumentava l’incertezza. Il test critico dell’ipotesi, tuttavia, riguardava la prestazione. Infatti gli scopi di approccio alla prestazione hanno un vantaggio sugli scopi di evitamento della prestazione in caso di accordo, ma questo beneficio andava perso non appena i partecipanti dovevano affrontare i disaccordi. Coerentemente con l’ipotesi, allora, era solo quando l’incertezza era bassa (nessun disaccordo) che gli scopi di approccio alla prestazione avevano più effetti positivi sulla prestazione rispetto agli scopi di evitamento della prestazione. Nell’esperimento 2 la stessa ipotesi era testata in una situazione in cui sono statemanipolate due tipi di incertezza: l’incertezza sulla risposta corretta (permettendo una replica concettuale dell’esperimento 1) e l’incertezza sulla competenza personale. Oltre alla manipolazione del disaccordo, alcuni partecipanti hanno ricevuto un feedback negativo sulla loro precedente prestazione. Inoltre, in questo esperimento, gli scopi erano misurati anziché manipolati come nell’esperimento 1. I risultati non solo replicavano quelli dell’esperimento 1, mostrando una moderazione degli effetti degli scopi di approccio alla prestazione tramite il disaccordo, ma anche dimostravano che la stessa dinamica avveniva con il feedback di competenza negativa.

Presi insieme questi due esperimenti confermano che, in linea con la prospettiva revisionata degli scopi di prestazione (Harackiewicz et al., 2002), gli scopi di approccio alla prestazione possono avere effetti positivi sulla prestazione. Va notato tuttavia che negli studi attuali come nella ricerca precedente questo legame positivo può essere compreso nei termini della particolare struttura degli scopi implicita nel contesto di ricerca (Meece, Anderman & Anderman, 2006), cioè una grande università. All’università infatti la competenza è tipicamente definita in termini di capacità relative. In altre parole, lo scopo di superare gli altri nella prestazione è coerente con la contestuale struttura dello scopo ed è, in questo senso, di adattamento. Questo potrebbe spiegare perché, in una tale struttura di approccio alla prestazione, gli scopi preconizzano positivamente il successo. I risultati tuttavia suggeriscono che questo beneficio non viene osservato in tutte le situazioni. Infatti, quando i partecipanti si sentono insicuri della loro risposta o della loro capacità, gli scopi di approccio alla prestazione non promuovono la prestazione. In una condizione di altissima incertezza, come la condizione dell’esperimento 2 in cui c’erano sia il feedback negativo sia il disaccordo col partner, gli scopi di approccio alla prestazione erano veramente negativi per la prestazione. Questa scoperta è coerente con il punto di vista di Elliot (1999) che questi scopi sono scopi ibridi e che i loro effetti sono misti e dipendono in larga misura dal contesto. I risultati sono anche coerenti con lo studio di Barron & Harackiewicz (2001) che documentava che gli effetti degli scopi di approccio alla prestazione sono moderati dalla difficoltà del compito. Sebbene siano stati riscontrati positivi per gli scopi di approccio alla prestazione per i problemi facili, gli scopi di approccio alla prestazione non hanno preconizzato la prestazione su problemi più difficili, forse perché i partecipanti erano incerti sulla loro capacità di risolverli.

Per quanto riguarda gli scopi di evitamento della prestazione, gli studi dimostrano, come nella precedente ricerca, che questi scopi non sono di adattamento (si veda Elliot & Church, 1997; Elliot & McGregor, 2001; Elliot et al., 1999; Sideridis, 2005; Skaalvik, 1997). I risultati dell’esperimento qualificano questa affermazione generale, tuttavia, perché gli scopi di evitamento della prestazione non avevano effetti uniformemente negativi sulla prestazione. In situazioni di grande incertezza, il rapporto negativo tra scopi di evitamento della prestazione e prestazione è attenuato. Inoltre sono state riscontrate interazioni significative tra gli scopi di approccio e di evitamento della prestazione, suggerendo che gli effetti negativi degli scopi di evitamento possono essere compensati dal sostegno degli scopi di approccio alla prestazione. Anche se i risultati supportano l’idea che questi scopi non portano mai a risultati positivi, suggeriscono però che in alcune situazioni (disaccordo), o quando associati ad altri scopi più positivi (approccio alla prestazione), questi scopi non sono negativamente correlati alla prestazione.

È importante notare che in questa ricerca sono stati esaminati solo gli scopi di prestazione, ma l’incertezza può anche moderare gli effetti degli scopi di prestazione e questo può essere importante da esaminare nella futura ricerca. Più specificamente, e in contrasto con gli scopi di prestazione, è possibile aspettarsi che gli scopi di padronanza siano particolarmente di adattamento in condizioni di grande incertezza. Infatti la ricerca recente indica che la prestazione è favorita quando gli scopi di padronanza sono associati ad alti livelli di difficoltà del compito (Senko & Harackiewicz, 2005) o perseguiti in condizioni di conflitto (Darnon et al., 2007). La futura ricerca dovrà anche chiarire la precisa natura dell’incertezza creata in questi esperimenti. L’incertezza può essere correlata all’auto-efficacia (Bandura, 1982), ed è possibile che i partecipanti dubitassero della loro capacità di raggiungere certi livelli di prestazione. Un’altra possibilità è che ciò che conta sia l’incertezza sulla propria capacità di dar prova della sua competenza. Nei due tipi di condizioni di incertezza qui studiati, i partecipanti non erano sicuri di poter soddisfare i loro scopi di prestazione (fare bene rispetto agli altri). Questo può aver fatto sì che si rivolgessero a strategie che li danneggiavano, come il ritiro o lo sforzo, quindi mettendo in pericolo la loro prestazione (Rhodewalt & Tragakis, 2002).

Inoltre, una possibile interpretazione di questi risultati potrebbe essere che l’effetto del disac-cordo (esperimenti 1 e 2) e del feedback negativo (esperimento 2) potrebbe essere stato infatti di trasformare gli scopi di approccio alla prestazione negli scopi di evitamento della prestazione. Questa idea sarebbe supportata dai recenti risultati di Senko e Harackiewicz (2005b) che hanno dimostrato che la prestazione scarsa nei primi esami aumenta l’attuazione di scopi di evitamento della prestazione. Si potrebbe sostenere che i partecipanti allo studio che hanno applicato scopi di approccio alla prestazione possano essersi spostati sull’evitamento dopo un disaccordo o un feedback negativo. Questo potrebbe spiegare perché, in queste ultime condizioni, gli scopi di approccio alla prestazione hanno legami negativi con la prestazione. Uno studio che misuri gli scopi prima e dopo un disaccordo o una manipolazione del feedback permetterebbe una più approfondita analisi di questa possibilità.

 

In sintesi si ritiene che questi studi contribuiscano a una comprensione dei processi degli scopi di prestazione. In linea con la recente ricerca (vedi Senko, Durik & Harackiewicz, in stampa) questi risultati suggeriscono che gli scopi di approccio alla prestazione, quando non associati all’incertezza, hanno effetti positivi sulla prestazione. Tuttavia i risultati indicano che non appena gli studenti diventano incerti, o a causa di dubbi sulla loro risposta o a causa di dubbi sulla loro capacità di rispondere correttamente, gli scopi di approccio alla prestazione diventano meno adattivi. Questo punto è di grande importanza. Infatti, poiché molti studi hanno ora dimostrato il legame positivo tra scopi di approccio alla prestazione e prestazione all’esame, si potrebbe raccomandare di promuovere non solo la padronanza ma anche gli scopi di approccio alla prestazione nelle classi (per es. Hidi & Harackiewicz, 2000; Rawsthorne & Elliot, 1999). I risultati mostrano che gli scopi di approccio alla prestazione possono solo avere effetti positivi se quanto richiesto nel compito è qualcosa che sembra facile e non aumenta l’incertezza. Questo è un punto molto importante. Infatti, si ritiene che sia quasi impossibile – e non desiderabile – rendere il il lavoro accademico libero da incertezze. Come sostenuto precedentemente, i contesti accademici implicano discussioni e quindi conflitto. I risultati della corrente ricerca suggeriscono che, in questi contesti, gli scopi di approccio alla prestazione possono diventare negativi per l’apprendimento.

 

 

 

© Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: sviluppi recenti  – Fabrizio Manini

 

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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Effetti caratteristici degli scopi di approccio alla prestazione

Effetti caratteristici degli scopi di approccio alla prestazione

 

Sebbene la distinzione approccio-evitamento abbia aiutato a chiarire gli effetti contrastanti degli scopi di prestazione, i risultati relativi agli scopi di approccio alla prestazione rimangono controversi (Harackiewicz et al., 2002; Kaplan & Middleton, 2002; Midgley, Kaplan & Middleton, 2001). I teorici hanno cercato di identificare i moderatori degli effetti degli scopi di approccio alla prestazio-ne.

È interessante notare che Dweck e Legget (1988) inizialmente sostenevano che le conseguenze pregiudizievoli degli scopi di prestazione apparirebbero solo quando gli individui devono affrontare sfide o difficoltà. Nicholls (1984) sosteneva anche che gli scopi di prestazione (“scopi ego” nelle sue parole) portavano a un deterioramento della prestazione solo nelle persone che avevano una bassa percezione delle proprie capacità (si veda anche Elliott & Dweck, 1988; Spinath & Stien-smeier-Pelster, 2003). Nella stessa linea, Grant e Dweck (2003) hanno dimostrato che gli effetti deterioranti degli scopi di prestazione (definiti come “scopi di capacità”) venivano osservati solo sui compiti difficili.

Questa tesi è coerente con il punto di vista di Elliot sugli effetti degli scopi di approccio e di evitamento della prestazione (Elliot, 1997; Elliot & Church, 1997). Infatti, secondo questi autori, gli scopi di approccio e di evitamento della prestazione sono entrambi motivati dalla paura di fallire. Questo corrisponde al sentimento che le competenze sono minacciate, ed è definito da Atkinson (1957) come il motivo generale per evitare il fallimento.

Gli scopi di evitamento della prestazione, poiché sono legati alla grande paura di fallire e alla bassa aspettativa di competenza, focalizzano l’attenzione dei singoli sulla possibilità di fallire e così, portano a un modello di mal adattamento della risposta e a una prestazione scarsa (Elliot & Church, 1997; Elliot & McGregor, 2001; Elliot et al, 1999; Skaalvik, 1997).

Gli scopi di approccio alla prestazione, tuttavia, sono più complessi. Infatti, anche se legati alla paura di fallire, derivano anche da un grande bisogno di risultato e da alte aspettative di competenza. Elliot (1997, 1999) descriveva gli scopi di approccio alla prestazione come “scopi ibridi” nel senso che servivano sia a motivi di approccio che di evitamento. Come conseguenza, gli effetti di questi scopi possono dipendere dall’accessibilità di ognuna di queste motivazioni, cioè dalla misura in cui il compito aumenta le aspettative di competenza o la paura del fallimento. Secondo Elliot (1997, 1999), quando un compito enfatizza l’aspettativa di competenza (probabilità di successo), gli scopi di approccio alla prestazione possono portare a un modello di rispo-sta di adattamento.

Dall’altra parte, in una situazione che enfatizza la possibilità di fallimento, nasce la paura del fallimento e gli scopi di approccio alla prestazione possono allora divenire equivalenti agli scopi di evitamento.

È interessante che uno studio sull’apprendimento di un nuovo metodo di risolvere problemi matematici da parte di Barron e Harackiewicz (2001, Studio 1) abbia manipolato la difficoltà del compito e trovato un legame positivo tra scopi di approccio alla prestazione e la prestazione su questo compito, ma solo quando il compito era relativamente facile. Non c’era rapporto tra scopi di prestazione e prestazione nel compito quando questo era difficile.

Per riassumere, gli scopi di approccio alla prestazione sembrano essere i più adattabili in condizioni di bassa difficoltà del compito o di bassa paura di fallire. Infatti, non ci si aspetta che gli scopi di approccio alla prestazione aumentino la prestazione quando la paura di fallire è alta (Elliot, 1997), ma non sono stati fatti molti test su questa ipotesi.

In linea con questa tesi, Barron e Hara-ckiewicz (2001) hanno riscontrato che gli scopi di prestazione non preconizzano positivamente la prestazione quando i partecipanti sono messi di fronte a un compito difficile, come discusso precedentemente.

In altre ricerche, quando i partecipanti percepivano la loro competenza come bassa (El-liott & Dweck, 1988) o quando il compito era particolarmente difficile (per es. Grant & Dweck, 2003) gli scopi di approccio alla prestazione diventavano ancor più dannosi per la prestazione. Si ritiene che una caratteristica comune a tutte queste situazioni è che siano immerse nell’incertezza. Infatti la difficoltà del compito, la bassa percezione di capacità e la paura del fallimento lasciano l’individuo incerto sulla prestazione attesa. Sembra quindi che l’incertezza crei condizioni in cui gli scopi di prestazione non sono più utili, ma possono persino diventare negativi per la prestazione.

 

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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Scopi di prestazione e di padronanza

SCOPI DI PRESTAZIONE E SCOPI DI PADRONANZA

Fin dall’infanzia gli individui imparano dai loro genitori e insegnanti che dovrebbero cercare di ottenere dei buoni voti a scuola. Non è quindi sorprendente che a scuola o successivamente, all’università, gli studenti possano trovarsi motivati dal desiderio di fare meglio rispetto a quel che sono per il desiderio di apprendere in determinate materie. Infatti, molti contesti educativi possono essere caratterizzati dall’enfasi sui paragoni con gli altri e sulle votazioni. Un alto livello di risultato in questi contesti significa non solo di essere in grado di dominare il contenuto del corso, ma anche di dimostrare la propria competenza superando gli altri nelle prestazioni.

Gli scopi che tendono a prestazioni migliori rispetto agli altri sono stati definiti come scopi di prestazione (Ames, 1992; Dweck, 1986), e qualche volta etichettati come coinvolgenti l’ego (Ni-cholls, 1984). Questi scopi corrispondono al desiderio di dimostrare capacità e sono spesso contra-stati dagli scopi di padronanza (o scopi che comportano un compito; Nicholls, 1984) che corrispon-dono al desiderio di acquisire conoscenza. Molti studi hanno dimostrato che gli scopi di padronanza portano a risultati di adattamento come sforzo, perseveranza dopo il fallimento, e interesse (vedi Ames, 1992; Ames & Archer, 1988; Dweck, 1986; Harackiewicz, Barron, Carter, Lehto & Elliot, 1997; Nicholls, 1984). Al contrario, gli scopi di prestazione sono stati associati a risultati come la scelta di compiti facili (Ames & Archer, 1988; Elliot & Dweck, 1988) e a metodi di studio superfi-ciali in contrasto con le procedure approfondite dei materiali del corso (Nolen, 1988).

Come conseguenza, alcuni teorici sostengono che gli scopi di prestazione dovrebbero minare la base dell’apprendimento e della prestazione (per esempio, Dweck, 1986; Nicholls, 1984). Tuttavia, molti studi non sono riusciti a dimostrare gli effetti negativi degli scopi di prestazione sulla presta-zione stessa (per esempio Covington & Omelich, 1984; Yates, 2000). Inoltre numerosi studi correlati, realizzati nelle classi, hanno riscontrato dei legami positivi tra gli scopi di prestazione e la prestazione accademica (Elliot & Church, 1997; Elliot & Mcgregor, 2001; Elliot, McGregor & Gable, 1999; Harackiewicz, et al. 1997; Harackiewicz, Barron, Tauer, Carter & Elliot, 2000; Pintrich, 2000; Skaalvik, 1997; per una revisione si veda Harackiewicz, Barron, Pintrich, Elliot & Thrash, 2002). Più recentemente i ricercatori hanno anche riscontrato gli effetti positivi di scopi di approccio alla prestazione manipolati a scopo sperimentale (Elliot, Shell, Bouas & Maier, 2005; Senko & Harackiewicz, 2005).

Gli effetti positivi degli scopi di prestazione sono più evidenti quando gli scopi di approccio al-la prestazione sono distinti da quelli per evitarla (Elliot, 1997, 1999; Elliot & Harackiewicz, 1996; Middleton & Midgley, 1997).

La motivazione può essere orientata sia verso l’approccio ai desiderati risultati positivi, sia ver-so l’evitare gli eventi negativi (vedi Atkinson, 1957).

Il primo porta a un grande investimento nelle situazioni che possono produrre una valutazione positiva. Al contrario, il secondo è focalizzato sull’evitare valutazioni negative. Quindi possono es-sere definiti due tipi di scopi di prestazione (Elliot & Church, 1997; Elliot & Harackiewicz, 1996):

·    scopi di approccio alla prestazione (cercando di ottenere giudizi positivi);

·    scopi di evitamento della prestazione (evitando giudizi negativi).

La ricerca ha ampiamente dimostrato che gli scopi di evitamento della prestazione sono asso-ciati con scarsi interesse e prestazione (Elliot & Church, 1997; Elliot & McGregor, 2001; Elliot et al., 1999; Sideridis, 2005; Skaalvik, 1997). Al contrario, alcune ricerche hanno dimostrato che gli scopi di approccio alla prestazione hanno effetti positivi in alcune situazioni (per es. lezioni del college) o per alcuni partecipanti (per es. individui orientati al risultato; Harackiewicz, Barron & El-liot, 1998). Infatti, alcuni teorici hanno sostenuto che gli scopi di approccio alla prestazione possono avere effetti positivi sulla motivazione accademica perché promuovono la valutazione di competen-za e mobilitano lo sforzo nei contesti che enfatizzano i confronti normativi (Harackiewicz et al., 2002).

 

 

 

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Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: Due esempi di studio

DUE ESEMPI DI STUDIO

Se, come mostrato nella letteratura, gli scopi agiscono sul modo in cui il compito viene risolto (per es. Nolen, 1988), sul modo in cui un individuo percepisce e reagisce al fallimento (per es. A-mes et al., 1977) e sul modo in cui un individuo percepisce le altre persone (per es. A.M.Ryan & Pintrich, 1977), allora è probabile che agiscano anche sul modo in cui il conflitto viene regolato. Come abbiamo detto, si è dimostrato che gli scopi di padronanza sono collegati a una profonda analisi del materiale che deve essere appreso, a una focalizzazione sul problema, alla percezione dell’altro come un aiuto e alla volontà di cooperare. La regolazione epistemica significa esaminare il contenuto e la validità di ognuna delle proposizioni in conflitto e fare un maggiore sforzo verso una migliore comprensione (per es. rielaborando il problema, Mugny et al., 1984). Corrisponde anche al riconoscimento della competenza dell’altro e del fatto che il punto di vista dell’altro può essere di aiuto nella comprensione del problema (Butera & Mugny, 2001). In una situazione di conflitto gli scopi della padronanza dovrebbero quindi far prevedere la regolazione epistemica del conflitto.

Al contrario, gli scopi di prestazione fanno concentrare gli studenti sull’essere competenti e fanno focalizzare sul confronto sociale con gli altri (Nicholls, 1984). Inoltre, tali scopi favoriscono la rappresentazione degli altri come minacce (A.M.Ryan & Pintrich, 1997). Una delle caratteristiche della regolazione sociale è che l’attenzione è focalizzata sulle istanze di confronto sociale e di com-petenza (Butera & Mugny, 2001). Così, gli scopi di prestazione dovrebbero portare i partecipanti al conflitto cercando di dimostrare che uno ha ragione e l’altro ha torto – cioè a regolare il conflitto in modo relazionale.

Ritornando all’esempio iniziale, si ritiene che se gli scopi principali che A sta perseguendo quando ha luogo il conflitto sono scopi di padronanza, allora può percepire il conflitto come un’indicazione che egli ha bisogno di rielaborare il problema per meglio comprenderlo. Così, gli scopi della padronanza dovrebbero portarlo a regolare il conflitto in un modo epistemico. Tuttavia, se i suoi scopi principali sono scopi di prestazione, allora è più probabile che egli percepisca il conflitto come una minaccia alla sua competenza e lo regoli in modo relazionale.

I due studi che vengono presentati testano l’ipotesi che gli scopi della padronanza e della prestazione preannuncino distinte reazioni al conflitto. Sono state esaminate queste ipotesi nello Studio 1 chiedendo ai partecipanti di riferire, dopo aver immaginato di aver interagito con un altro in di-saccordo, come avrebbero regolato il conflitto. Nello Studio 2, sono state esaminate le stesse ipotesi attraverso misurazioni più accurate della regolazione del conflitto: la competenza attribuita a sé stessi e all’altro in disaccordo.

STUDIO 1

Nello Studio 1 ai partecipanti è stato chiesto di immaginare una discussione con un’altra persona che era in disaccordo con loro sull’esperimento che avevano studiato in classe nel semestre precedente. È stato poi chiesto loro di riferire fino a che punto, in questa situazione, avrebbero regolato il conflitto in modo relazionale o epistemico.

I risultati di questo primo studio mostrano che gli scopi previsti predicono effettivamente modi diversi di regolazione. In particolare, gli scopi di padronanza – ma non quelli di prestazione – pronosticano la regolazione del conflitto epistemico. Al contrario, gli scopi di prestazione – ma non quelli di padronanza – pronosticano la regolazione del conflitto relazionale.

Vale la pena di notare che in questo studio è stato misurato il modo di regolare il conflitto chiedendo ai partecipanti fino a che punto avrebbero regolato il conflitto nei modi epistemici e relazionali. Si può tuttavia sostenere che la regolazione è un processo meno conscio e che forse è troppo sensibile agli effetti dell’essere desiderato per essere affermato tramite autoriferimento. La focalizzazione del secondo studio è di dare prova del legame tra scopi di padronanza e di prestazione, da una parte, e strategie di regolazione del conflitto dall’altra, usando una misurazione più precisa della regolazione del conflitto. Come già detto, regolare il conflitto in modo epistemico significa prendere in considerazione il punto di vista degli altri, riconoscendo la sua validità e, di conseguenza, riconoscendo la competenza dell’altro. Al contrario, regolare un conflitto in modo relazionale implica difendere e asserire la propria competenza. Quindi, nello Studio 2, la regolazione del conflitto era asserita dalla competenza attribuita a sé stesso e alla persona che era in disaccordo.

Inoltre, nello Studio 1, i partecipanti sono semplicemente portati a immaginare di aver interagito con una persona che è in disaccordo. È possibile pensare che questa situazione, dato che implica un’interazione fittizia, non rifletta come le persone reagiscono quando devono affrontare un conflit-to. Nello Studio 2, i partecipanti sono posti in una situazione reale di conflitto standardizzato.

Infine, la ricerca ha mostrato che gli scopi di padronanza favoriscono la ricerca di istruzioni educative, mentre quelli di prestazione favoriscono la ricerca di informazioni valutative-normative (Butler, 1992, 1993; Curty et al. 1997). Tuttavia nessuna di queste ricerche ha esaminato questi legami in una situazione in cui gli studenti interagiscono gli uni con gli altri. Come già notato, la situazione in una classe implica interazioni con gli altri, che rendono molto probabile il presentarsi di conflitti. Sembra quindi importante ripetere queste ricerche in una reale situazione di conflitto. E questo è lo scopo dello Studio 2.

STUDIO 2

In questo studio gli studenti di una scuola superiore sono stati portati a sperimentare una situazione reale – e non immaginaria – di conflitto. Dopo questa interazione è stato loro chiesto di riferi-re quanto ritenevano competenti se stessi e il loro partner. Due settimane più tardi hanno avuto la possibilità di scegliere tra diversi tipi di informazioni che avrebbero voluto ricevere – in particolare, quelle del loro diploma. Ci si aspettava che gli scopi di padronanza avrebbero preconizzato la competenza del partner e quelli di prestazione l’auto-competenza percepita. Ci si aspettava inoltre che i risultati interessassero anche i diversi tipi di informazioni, così come gli scopi di padronanza avrebbero preconizzato l’interesse nel compito, mentre gli scopi di prestazione avrebbero preconizzato l’interesse per il diploma.

Lo Studio 1 ha dimostrato che gli scopi di padronanza e prestazione preconizzano diversi modi auto-referenziali di regolazione del conflitto. Lo Studio 2 completa i risultati dello Studio 1 trovando risultati similari su una misurazione diversa e più sottile della regolazione del conflitto e in una situazione di reale conflitto. In particolare, i risultati indicano che gli scopi di risultato preconizzano modi diversi di attribuire la competenza all’interno della coppia. Gli scopi di padronanza aumentano il riconoscimento della competenza del partner, laddove gli scopi di prestazione aumentano l’asserzione della propria competenza. Come già detto, la competenza attribuita a se stessi e alla fonte del conflitto è un’indicazione della modalità di regolazione del conflitto (Butera & Mugny, 1995). Tuttavia, questa misurazione è più sottile rispetto alle voci auto-riportate direttamente, dato che invece di chiedere ai partecipanti di riferire ciò che avevano fatto durante l’interazione, essa consisteva nel chiedere loro di dare un giudizio su se stessi e sull’altra persona. Malgrado questa differenza nella natura delle variabili dipendenti, questi risultati forniscono prova convergente con quella ottenuta con le voci di auto-riferimento diretto usate nello Studio 1.

Questi risultati confermano le ipotesi e dimostrano che riferire la competenza percepita di sé e dell’altro dopo un conflitto può avere una funzione motivazionale. Molti autori hanno sostenuto che la gente cerca sempre di mantenere un’auto-valutazione positiva (per es. Steele, 1998; Tesser, 1988). Come già detto, in una condizione di conflitto, l’auto-competenza può essere minacciata. Un modo di gestire questa minaccia è di aumentare l’auto-competenza riferita, così da restaurare un’immagine positiva di sé stessi. Questo processo è interessante, poiché è risultato solo dall’adesione agli scopi di prestazione; gli scopi di padronanza non hanno portato alla stessa reazione. Coerentemente con quanto dimostrato da altra ricerca, gli scopi di padronanza non facevano preoccupare gli studenti relativamente alla questione della valutazione di competenza (Jagacinski & Nicholls, 1987; Sansone, 1986) e alla volontà di percepire l’altro come una minaccia alla propria competenza. Invece, gli scopi di padronanza favorivano una rappresentazione delle altre persone come supporti informativi, come un mezzo per migliorare la conoscenza (Newman, 1990; A.M.Ryan & Pintrich, 1997). Di conseguenza, questi scopi rendevano più probabile che i partecipanti reagissero ad un conflitto socio-cognitivo riconoscendo e aumentando i riferimenti alla competenza dell’altro piuttosto che alla propria.

I risultati di questo studio indicano anche che gli scopi influiscono sull’informazione a cui gli studenti erano interessati dopo il conflitto socio-cognitivo. Nella situazione interpersonale, come nelle situazioni individuali (per es. Butler, 1992, 1993) gli scopi di padronanza favoriscono l’interesse nell’informazione di istruzione, il testo, laddove gli scopi di prestazione favoriscono la ricerca di informazione normativa valutativa, il voto.

DISCUSSIONE GENERALE

Come già detto, la situazione di conflitto socio-cognitivo è particolare nel senso che introduce un dubbio sulla propria conoscenza e competenza (Butera & Mugny, 2001; McGarty, Turner, Oakes & Haslam, 1993). In entrambi gli studi i partecipanti vengono messi di fronte a un disaccordo chiaro, credibile. In riferimento allo Studio 1, l’interpretazione personale di lamentela con l’autorità è stata di solito osservata nelle classi iniziali e corrisponde a ciò a cui Hewson & Hewson (1984) e Poster, Strike, Hewson e Gertzog (1982) si riferivano come modello semplice o concezione erronea – cioè la concezione semplice che gli studenti avevano prima che venisse loro insegnato il modello scientifico. Per quanto riguarda il secondo studio, tutti i disaccordi sono basati sul possibile fraintendimento del testo. Eylon e Linn (1988) si riferiscono a queste risposte come modelli coerente-mente non corretti, Hewson e Hewson (1984) come concezioniplausibili. In altre parole, queste risposte sono credibili dal punto di vista dei partecipanti.

Gli studi specificano due modi di regolazione per trattare il conflitto: la regolazione epistemica, che è focalizzata sulla comprensione del compito e sull’esame della validità di ogni frase, e la regolazione relazionale, che corrisponde alla difesa della propria competenza attraverso l’affermazione del proprio punto di vista (Mugny et al., 2003). I due studi presentati supportano l’idea che l’adesione agli scopi di padronanza preconizza la risoluzione epistemica, mentre l’adesione agli scopi di prestazione preconizza la regolazione relazionale.

Vale la pena di menzionare che i due studi differiscono nella loro popolazione (studenti univrsitari contro studenti della scuola superiore). Dato che l’età si è dimostrata essere un possibile moderatore degli effetti dello scopo (Anderman, Austin & Johnson, 2001) e poiché sembra ragionevole pensare che le capacità di regolazione del conflitto possano aumentare con l’età (Sandy & Cochran, 2000), ci si potrebbero aspettare differenze tra queste due popolazioni. Tuttavia, i legami tra scopi e regolazione del conflitto sono stati osservati in entrambi questi gruppi di età. Questi due studi differiscono anche per le variabili dipendenti usate per determinare la regolazione del conflitto. Ancora una volta, è interessante notare che, malgrado queste differenze, sono state osservate le stesse dinamiche nei due studi. Cioè, gli scopi di padronanza predicevano la regolazione epistemica del conflitto, mentre gli scopi di prestazione predicevano la regolazione relazionale del conflitto. Era così sulle voci dell’auto-rapporto diretto della regolazione del conflitto (Studio 1) e anche nella più sottile misurazione della regolazione del conflitto (Studio 2), che insieme convergevano a definire con precisione i legami tra scopi di risultato e regolazione del conflitto.

È già stato discusso il fatto che la maggior parte degli studi realizzati nel campo degli scopi di risultato hanno esaminato il modo in cui gli individui fronteggiano il compito, ma a livello intra-individuale. Rari sono gli studi che esaminano gli effetti degli scopi di risultato sulle variabili sociali, come la percezione degli altri e i modi di interagire con loro (per le eccezioni, vd. Gabriele & Montecinos, 2001; Kaplan, 2004). La classe, tuttavia, è un posto dove gli studenti non sono soli e nel quale devono affrontare non soltanto il materiale accademico, ma anche gli altri studenti. I risultati di questi due studi rappresentano in questo senso un significativo contributo alla letteratura. In primo luogo, la ricerca ha dimostrato che gli scopi di padronanza e di prestazione portano a interessarsi a diversi tipi di informazione, ma questi effetti sono stati esaminati solo in scenari individuali. Lo Studio 2 estende queste scoperte alla situazione sociale. In secondo luogo, questi studi affrontano la questione dell’effetto dello scopo di risultato sui risultati sociali, dato che sia lo Studio 1 che lo Studio 2 mostrano che gli scopi di risultato interessano fortemente il modo in cui i partecipanti giudicano gli altri e rispondono loro in una situazione di conflitto socio-cognitivo.

Inoltre, nella letteratura sul conflitto, le regolazioni epistemiche e relazionali vengono molto spesso invocate per spiegare gli effetti del conflitto nelle diverse situazioni (per es. concorrenza, competenza, minaccia). Tuttavia, le strategie di regolazione non sono mai state esaminate direttamente, laddove le misurazioni dipendenti erano l’influenza (per es. Mugny, Tafani, Butera & Pigia-re, 1999), le strategie di ragionamento (per es. Butera & Mugny, 1995) o i progressi cognitivi (per es. Doise & Mugny, 1984). I due studi presentati riempiono questa spaccatura mostrando che i due modi di regolazione del conflitto possono essere stabiliti sia con misurazioni dirette autoriferite, sia con misurazioni più sottili, come l’attribuzione di competenza. Nella stessa linea, vale la pena di notare che in questa letteratura la motivazione è spesso invocata per spiegare perché le variabili situazionali, come il contesto competitivo o l’asimmetria delle competenze, possono influenzare gli effetti del conflitto socio-cognitivo. Tuttavia, i diversi modi di regolazione del conflitto non sono mai stati prima collegati direttamente alle variabili motivazionali personali. Il contributo dei due studi presentati, quindi, è anche di dimostrare esplicitamente questo legame, suggerendo che gli scopi di padronanza e prestazione sono variabili motivazionali che influenzano il modo della regolazione del conflitto.

Nonostante il contributo che questi due studi rappresentano per la letteratura sugli scopi di risultato e sulla regolazione del conflitto, vanno notate alcune limitazioni. In primo luogo, il fatto che entrambi questi studi sono correlazionali rende impossibile stabilire un legame causale tra scopi e regolazione del conflitto. Inoltre, vale la pena di notare che questa ricerca è stata portata avanti su un campione che era per lo più composto da donne. Molti ricercatori hanno documentato un effetto del sesso sia sulle strategie di risoluzione del conflitto (per es. Holt & DeVore, 2005; Reinisch & Sanders, 1986) sia sull’approvazione dello scopo (per es. Dweck, 1986). Come conseguenza, sembra ragionevole pensare che i partecipanti maschi potrebbero non reagire al conflitto nello stesso modo. In particolare, poiché è stato dimostrato che sono meno propensi delle donne a usare strategie di cooperazione in una situazione di conflitto, ci si può forse aspettare che i partecipanti maschi regolino il conflitto in modo relazionale senza tener conto del livello di adesione allo scopo. È necessaria ulteriore ricerca per testare questa idea su un campione che sia composto uniformemente di partecipanti maschi e femmine.

Infine, la recente ricerca ha dimostrato che la regolazione del conflitto relazionale può effettivamente prendere due diverse forme. Se difendere e asserire la propria competenza è un modo di trattare la minaccia, adattarsi e adottare il punto di vista dell’altro è un altro modo di farlo (Darnon, Butera, Mugny & Quiamzade, 2006). Similarmente, gli scopi di prestazione possono essere sia sco-pi di approccio alla prestazione sia di evitare la prestazione (Elliot, 1997; Elliot & Harackiewicz, 1996). I soli scopi di prestazione esaminati in questo studio erano scopi di approccio alla prestazione. Si ritiene che gli scopi di evitare la prestazione, poiché sono legati a una debole aspettativa di competenza, potrebbero favorire la condiscendenza. È necessaria della futura ricerca per esaminare questo punto.

Malgrado queste limitazioni, questi studi sono la prima prova empirica che sostiene che gli scopi della padronanza e della prestazione interessano la regolazione del conflitto; questo punto contribuisce sia alla ricerca sulla regolazione del conflitto sia a quella sugli scopi di risultato. Inoltre, sottolineano le conseguenze benefiche degli scopi di padronanza piuttosto che di quelli della prestazione, quando i partecipanti sono portati a discutere punti di vista conflittuali. Infatti, la letteratura sulla regolazione del conflitto ha coerentemente sostenuto che il conflitto porta a risultati più positivi quando è regolato in modo epistemologico rispetto a quando lo è in modo relazionale (Butera & Mugny, 1995; Darmon, Buchs & Butera, 2002; Doise & Mugny, 1984). Questi due studi dimostrano che un modo di orientare gli studenti alla regolazione del conflitto epistemico è di aumentare gli scopi di padronanza.

© Compiti di prestazione e compiti di apprendimento: sviluppi recenti  – Fabrizio Manini

 

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