I predittori della performance accademica: la competenza clinica post lauream come criterio

I predittori della performance accademica: la competenza clinica post lauream come criterio

La maggior parte degli studi sul potere predittivo dei fattori cognitivi nella selezione degli studenti di medicina, si è concentrata sul successo nella formazione medica pre lauream.

Alcuni autori (Hojat, Bornstein e Veloski, 1988; Korman e Stabblefield, 1971) hanno valutato quanto i fattori cognitivi rilevati durante l’addestramento medico (l’abilità nella gestione e nell’analisi dei dati, la media voto dal primo al quarto anno, l’esame NBME – National Board of Medical Examiners – parte I e II) ed i fattori non-cognitivi (le abilità interpersonali e le attitudini), siano predittivi della competenza clinica post lauream.

I dati mostrano che i fattori cognitivi possono predire fino al 51% della varianza del voto all’esame NBME (Markert, 1993).

Due studi hanno valutato il potere predittivo sia dei criteri di ammissione (media voto di diploma e punteggio al test d’ammissione) che dei punteggi agli esami di medicina sulla competenza post lauream (Richards, Taylor e Price, 1962; Ronai et al., 1984).

I risultati mostrano una debole relazione tra i punteggi di ammissione e la competenza clinica rilevata durante l’internato.

Confrontando la tabella delle correlazioni tra le variabili, Richards e colleghi (1962) rilevano che il 60% delle correlazioni tra le abilità accademiche precedenti l’iscrizione e i risultati pre lauream è significativo (con r compreso tra .17 e .34) ma che solo un’abilità correla significativamente anche con la valutazione della performance durante l’internato post lauream (r=.20).

 

© I predittori della performance accademica  – Laura Foschi

 

 

 

 

I predittori della performance accademica: Descrizione di sé

I predittori della performance accademica: Descrizione di sé

L’utilizzo di lettere di presentazione e descrizione di sé è d’uso nelle domande di ammissione ai College di Regno Unito e Stati Uniti.

Ferguson e collaboratori (2000) nel valutare la validità predittiva delle descrizioni di sé fornite dai candidati rispetto al successo accademico, non hanno riscontrato alcuna associazione, nemmeno sui primi esami.

McManus e Richards (1986) valutando le informazioni relative al livello di cultura dei candidati, hanno rilevato come questa variabile predica, moderatamente in negativo, il voto di Laurea (?=-.184).

Analogamente a quanto riscontrato nelle altre professioni, una serie di ricerche sembra suggerire come la valutazione della descrizione di sé e, più in generale, delle variabili non cognitive, non sia predittiva dei risultati durante la Medical School ma lo diventi se considerata criterio per la riuscita professionale post lauream (Albanese et al., 2003; Murden, Galloway, Reid e Colwill, 1977; Myles e McAleer, 2003; Peskun, Detsky e Shandling, 2007; Poirier e Pruitt, 2003; Searle e McHarg, 2003).

 

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I predittori della performance accademica: Interviste

I predittori della performance accademica: Interviste

La letteratura che ha indagato il potere predittivo delle interviste ai candidati alla Medical School si divide in tre filoni di ricerca:

    1. Studi che hanno confrontato le performance degli studenti il cui processo di selezione si è avvalso di un’intervista, con le performance degli studenti accettati senza intervista (Smith, 1991; Smith, Vivier e Blain, 1986). Gli autori non hanno trovato differenze ed hanno concluso che l’intervista aggiunge poca validità al processo di selezione. I dati concordano con uno studio condotto alla Facoltà americana di Yale ove si era notato che gli studenti respinti sulla base di un’intervista non ottenevano risultati peggiori di chi, pur essendo stato accettato, aveva optato per un altro college (Milstein, Wilinson, Burrow e Kessen, 1981).
    1. Studi che mettono in relazione la valutazione dell’intervistatore (l’idoneità generale a Medicina) con il risultato dell’intervistato rispetto all’esito del corso di studi (successo o ritiro) (Calkins, Arnold e Willoughby, 1987; Elam, Studts e Johnson, 1997; Hall, Regan-Smith e Tivnan, 1992; Lazin e Neumann, 1991; McManus e Richards, 1986; Meredith, Dunlap e Baker, 1982; Murden, Galloway, Reid e Colwill, 1978; Powis, Neame, Bristow e Murphy, 1988; Powis, Waring, Bristow e O’Connell, 1992) e al giudizio di competenza professionale (Hall et al., 1992). Questi studi suggeriscono che il punteggio dell’intervista può predire il successo: il punteggio di valutazione globale dell’intervista correla con il voto di Laurea (da .08 a .14, Elam e Johnson, 1992) ed il successo nell’ottenere una lettera di presentazione del Preside (la Dean’s letter of recommendation, un riconoscimentoottenibile, previa richiesta, dagli studenti meritevoli: r= .33, Hall et al., 1992).
    1. Lo studio di Elam e Johnson (1992) ha messo a confronto l’intervista con altri criteri di ammissione. La correlazione parziale dei giudizi dell’intervista con il successo nei primi esami, tenendo come variabile di controllo la media voto di diploma, è risultata significativa.

Una critica mossa all’uso delle interviste (che di solito utilizzano scale tipo Likert) (Johnson e Edwards, 1991) è che forniscano dati quantitativi ma non validi (Kreiter, Yin, Solow e Brennan, 2004; Mitchell, Haynes e Koenig, 1994). Nel 1992 Elam e Johnson avvertivano il bisogno, tuttora valido, di informazioni rispetto alla relazione intervistato-intervistatore alla presenza di bias sistematici e sugli effetti di un training sugli intervistatori. La letteratura recente si concentra più sulle qualità psicometriche.

Stansfield e Kreiter (2007) rilevano che le interviste mostrano buone attendibilità e validità per i punteggi estremi ma che potrebbero essere migliorate utilizzando scale di risposta a tre livelli invece che a cinque. L’intervista è una delle prove tenute maggiormente in considerazione dalle figure che si occupano dell’ammissione degli studenti alle Medical Schools (Kulatunga-Moruzi e Norman, 2002).

 

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I predittori della performance accademica: Stili di apprendimento

I predittori della performance accademica: Stili di apprendimento

Gli stili di apprendimento si riferiscono sia alla motivazione ad apprendere che al processo attraverso cui lo studente affronta il compito.

La maggior parte degli studi relativi alle Medical Schools del Regno Unito utilizza due modelli: quello tripartito di Entwistle (Newble e Entwistle, 1986) e quello di Kolb (1984).

Il modello tripartito prende in considerazione tre diversi approcci all’apprendimento (Profondo, Strategico e Superficiale), il modello di Kolb prevede quattro tipi di learner:

    1. Convergenti (enfasi sul metodo deduttivo),
    1. Divergenti (usano il problem solving creativo e l’osservazione di un problema da più prospettive prima di agire), 
    1. Assimilatori (preferiscono un approccio induttivo) e
    1. Accomodatori (prediligono l’esperienza pratica).

Gli studi basati sul modello tripartito mostrano un’associazione positiva tra l’utilizzo di un apprendimento Strategico e il voto di Laurea (r tra .178 e .260; Arnold e Feighny, 1995; Hilliard, 1995; McManus, Richards e Winder, 1999; McManus, Richards, Winder e Sproston, 1998).

Nonostante vi siano prove a favore di una associazione positiva tra l’apprendimento Profondo e la performance agli esami (r da .157 a .262; McManus et al., 1998; Tooth, Tonge e McManus, 1989), questa attinenza non viene rilevata da altri studi (Leiden, Crosby e Follmer, 1990; Hilliard, 1995).

Stessa sorte per i risultati della associazione negativa tra l’apprendimento Superficiale e l’esito degli esami (r=-.204 in McManus et al., 1998) (Hilliard, 1995; Leiden et al., 1990; Martin et al., 2000).

Gli studi che hanno usato il modello di Kolb, suggeriscono che gli studenti con uno stile di apprendimento Convergente tendono ad andare meglio di quelli che utilizzano altri stili (Arnold e Feighny, 1995; Lynch, Woelfl, Steele e Hanssen, 1998).

Sembra quindi che gli studenti delle Medical Schools che utilizzano lo stile Strategico o Convergente siano quelli che ottengono i risultati migliori.

Nonostante alcuni dati suggeriscano che lo stile di apprendimento utilizzato può  cambiare nel tempo (McManus et al., 1998), rendendo difficilmente interpretabili i dati delle ricerche longitudinali, alcuni ricercatori (Iputo, 1999; Kosower e Berman, 1996) suggeriscono che i programmi per l’educazione medica comprendono l’insegnamento di questi stili.

 

© I predittori della performance accademica  – Laura Foschi

I predittori della performance accademica: Genere

I predittori della performance accademica: Genere

Buona parte della letteratura, sostiene che nell’apprendimento medico, le femmine abbiano performance migliori dei maschi (Dillner, 1995; Ferguson et al., 2000; Martin, Stark e Jolly, 2000; McManus e Richards, 1986; McManus, Richards, Winder e Sproston, 1996) e che ottengano più spesso dei loro colleghi, la Laurea con lode (McDonough, Horgan, Codd e Casey, 2000).

Le femmine tenderebbero ad ottenere risultati migliori nell’assessment clinico dei primi anni (il National Board of Medical Examination – NBME parte I), perdendo per  il primato negli anni che seguono (NBME parte II: Oggins, Inglehart, Brown e Moore, 1988).

Queste differenze sono per  molto piccole e raggiungono la significatività solo con campioni molto numerosi.

Un altro corpus di ricerche ha valutato se i fattori motivazionali, accademici e demografici, influenzano in modo diverso la performance di maschi e femmine.

Lo studio di Willoughby, Arnold e Calkins (1981) ha mostrato che per ci ò che riguarda il voto di Laurea, per le femmine sarebbero predittive le variabili legate alla “qualità del servizio” (l’aiutare gli altri) mentre per i maschi quelle inerenti la “competenza personale” (la crescita intellettuale).

 

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I predittori della performance accademica: Test di personalità

I predittori della performance accademica: Test di personalità

Le misure più utilizzate nella meta-analisi sul rapporto tra personalità e rendimento accademico sono: California Personality Inventory (Gough, 1957); Locus of Control (Rotter, 1966); 16 Personality Factors (Cattell e Stice, 1957); Eysenck Personality Inventory (Eysenck, 1980), Minnesota Multiphasic Personality Inventory II (Hataway e McKinley, 1989); Myers-Brigg Type Indicator (Myers, 1962); State–Trate Anxiety Inventory (Spielberger, Gorsuch e Lushene, 1970); interviste psichiatriche.

Il California Personality Inventory (Gough, 1957) è il test più usato. Da questo strumento sono state tratte otto sottoscale che predicono il successo nell’apprendimento medico: dominance, tolerance, sociability, self acceptance, well being, responsibility, achievement via conformance and achievement via independence (Hobfoll, Anson e Antonovsky, 1982; Tutton, 1996).

La dominanza correla significativamente con i punteggi ai test a risposta multipla (r=-.26); la tolleranza con l’abilità di utilizzare dati numerici e fare calcoli (r=-.25); il benessere e il successo attraverso il conformismo con la riuscita negli esami orali (rispettivamente, r=.22 e .32 in Tutton, 1996).

Il Locus of Control di Rotter (1966) ha rilevato che sia i voti pre clinici (r=.51) che clinici (r=.31), sono correlati con un locus of control esterno.

L’ansia di stato, misurata attraverso lo STAI (Spielberger, 1970), è debolmente correlata in modo negativo con gli aspetti della performance medica. I livelli di ansia legata alla performance del primo anno mostrano una relazione ad “U rovesciata”: gli studenti con valori di ansia estremamente alti o estremamente bassi tenderebbero ad avere performance peggiori di quelli con livelli intermedi (Pamphlett e Farnill, 1995; Stewart, Lam, Betson, Wong e Wong, 1999). In accordo con la Teoria dell’arousal (Yerks e Dodson, 1908).

Gli studi che hanno utilizzato il Modello del Big Five (Costa e McCrae, 1992) hanno evidenziato come l’estroversione sia correlata con il successo negli esami obiettivi di pediatria (pediatric objective examinations; r=.51 in Lacorte e Risuci, 1993) e come la coscienziosità possa essere un predittore del successo negli esami pre clinici (?=.58). Anche controllando i risultati dell’A-level (Ferguson, Sanders, O’Hehir e James, 2000).

 

© I predittori della performance accademica  – Laura Foschi

 

 

Variabili predittrici del rendimento accademico e professionale in medicina

Variabili predittrici del rendimento accademico e professionale in medicina

Sulla predittività del rendimento accademico e professionale dei candidati al percorso medico sono stati effettuati numerosi studi. Ferguson e collaboratori (2002) ne hanno rilevati 1.120.  Le variabili di cui viene valutata la predittività sono: a) il rendimento scolastico pre iscrizione; b) i test di personalità; c) il genere; d)  e) gli stili di apprendimento; f) le interviste; g) la descrizione di sé.

Rendimento scolastico pre-iscrizione

Il criterio più considerato dagli studi che hanno valutato le abilità accademiche che precedono l’ingresso all’Università pare sia il rendimento pre Laurea.

La statistica utilizzata nel predire il successo nello studio indica che i coefficienti di correlazione medi rilevati variano da .30 a .48. Ossia, i risultati accademici valutati prima dell’iscrizione all’Università sarebbero predittivi della performance alla Scuola di Medicina per una percentuale di varianza compresa tra il 6% e il 23%. Lumb e Vail (2004), tuttavia, utilizzando come predittore solo i voti ottenuti nelle materie portate all’A-level (sistema di scoring UCAS), stimano una percentuale di varianza predetta pari al solo 3%.

I voti di diploma e i punteggi ai test d’ingresso correlerebbero maggiormente con i risultati agli esami pre clinici rispetto a quelli clinici (Albanese, Snow, Skochelak, Huggett e Farrel, 2003; Ferguson et al., 2002; Huff, Koenig, Treptau e Sireci, 1999; Julian, 2005; Kulatunga-Moruzi e Norman, 2002; McGaghie, 2002; Silver e Hodgson, 1997; Veloski, Callahan, Xu, Hojat e Nash, 2000).

Un problema metodologico dell’utilizzare i dati relativi all’abilità accademica precedente, come gli A-level o il GCSE, risiede nella poca varianza di tali punteggi: data la rigidità della selezione degli studenti in medicina, solo quelli con i voti migliori riescono ad accedere ai corsi.

 

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Gli studenti di medicina nel mondo anglosassone

Gli studenti di medicina nel mondo anglosassone

Nonostante in Gran Bretagna le motivazioni connesse all’introduzione della selezione degli studenti di medicina segua logiche diverse da quelle utilizzate dalla maggior parte dei Corsi di Laurea italiani, la complessità dei meccanismi di selezione e di valutazione durante l’istruzione superiore, unita all’interesse del mondo anglosassone per strumenti di misurazione oggettiva, rendono le ricerche particolarmente ricche di dati quantitativi.

L’istruzione superiore e l’ammissione alle Medical School nel Regno Unito

La complessità ed i cambiamenti, nel corso degli anni, del sistema di istruzione superiore (secondary school), richiede una breve introduzione, che consente di comprendere i criteri su cui si basa il passaggio dalla scuola all’università. Nel Regno Unito, è previsto il conseguimento di un diploma generale a 16 anni (GCSE – General Certificate for Secondary Education, introdotto nel 1986 in sostituzione dell’O-level – Ordinary level). Nel biennio successivo, gli studenti possono scegliere in quali materie proseguire la loro formazione attraverso l’AS-level (Advanced Subsidiary) e l’A-level (Advanced Level). In origine, l’A-level prevedeva la distinzione tra esame sostenuto con successo o non superato. L’esito poteva essere, quindi, o il conseguimento dell’Alevel o la permanenza al grado di O-level. Con una revisione dell’AS-level e dell’A-level (2000) è stato deliberato che nelle materie in cui sostengono l’esame, gli studenti che ottengono un punteggio compreso tra il 100% e l’80% del punteggio massimo, siano valutati “A”; tra il 79% e il 70% “B”; tra il 60% e il 69% “C”; tra il 50% e il 59% “D” e tra il 40% e il 49% “E”.

Nel Regno Unito quasi tutti gli Atenei sono membri dello UCAS (Universities & Colleges Admission Services). I candidati alla selezione inviano una domanda comprendente titoli, carriera lavorativa, voti ottenuti alla fine dell’anno scolastico e una descrizione di se stessi, all’UCAS, la quale, poi, inoltra le richieste alle varie Università. L’UCAS usa un sistema standardizzato di conversione titoli in punteggi (UCAS point), ad esempio un voto “A” in un A-level vale 120 punti, un “B” vale 100, etc. L’UCAS riconosce quasi tutti i titoli conseguibili nel Regno Unito e molti titoli internazionali.

Con il termine Medical School, ci si riferisce a Università, corsi di studio o dipartimento. Sono istituti di istruzione universitaria (tertiary education) o parte di istituti finalizzati all’insegnamento della medicina. Attualmente, nel Regno Unito, sono 32 gli istituti che possono conferire il titolo di Bachelor of Medicine and Surgery.

L’iscrizione a un corso di medicina non è subordinata al conseguimento di un titolo universitario (come, invece, avviene negli Stati Uniti). I criteri di ammissione sono altamente selettivi e si avvalgono di test d’ingresso standardizzati: il BMAT (Bio Medical Admission Test) che valuta le aree delle Attitudini e Abilità (Aptitudes and Skills), della Conoscenza Scientifica (Scientific Knowledge) e le abilità di scrittura (Writing Task); il UKCAT (UK Clinical Aptitude Test), composto da subtest su Ragionamento Verbale (Verbal Reasoning), Ragionamento Quantitativo (Quantitative Reasoning – capacità di calcolo), Ragionamento Astratto (Abstract Reasoning), Capacità Analitica sulle Decisioni (Decision Analysis) e Capacità Analitica non cognitiva (Noncognitive Analysis – caratteristiche di personalità).

Gli studenti ammessi frequentano un biennio propedeutico. Alla fine del primo anno, il General Medical Council (GMC) concede loro una licenza alla pratica professionale. Al termine del biennio inizia una specializzazione della durata di tre anni, da svolgere all’interno delle cliniche universitarie. Ci si riferisce agli esami come pre clinici (pre clinical), se teorici e sostenuti nel biennio propedeutico e clinici (clinical), se pratici e sostenuti durante la specializzazione. Dopo il conseguimento della Laurea è previsto un anno di tirocinio chiamato internato, periodo durante il quale i futuri medici vengono supervisionati dalla Medical School. La licenza alla pratica professionale vera e propria viene rilasciata dalla GMC alla fine del percorso formativo.

 

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Il rapporto OECD sull’Educazione

Il rapporto OECD sull’Educazione

Introduzione

L’analisi della letteratura internazionale sull’educazione terziaria si scontra con il problema della diversità dei sistemi educativi adottati dai diversi paesi. Particolarmente interessante risulta, in questo senso, un’analisi del confronto tra il sistema educativo italiano e quelli stranieri.

Il rapporto OECD sull’Educazione

Ogni anno l’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development –  in italiano OCSE – Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) pubblica la relazione Education at a Glance che contiene numerosi dati relativi alla quantità ed alla qualità dell’educazione in 19 Paesi europei ed in 21 Paesi extra-europei.

Una prima analisi del rapporto pubblicato nel 2009, mette in evidenza dati interessanti rispetto alle motivazioni che spingono alla selezione degli studenti universitari. Arcuri e Soresi (1997) individuavano motivazioni legate all’esigenza di programmazione economica dello sviluppo del paese. Il rapporto OECD evidenzia come in Italia, in questi anni, soltanto il 14% della popolazione in età compresa tra i 25 e i 64 anni sia in possesso di una Laurea o di un Diploma Universitario. A pari merito con Portogallo, Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca, seguita da Brasile, Cile e Turchia, contro una media dei 27 Paesi aderenti all’organizzazione, pari al 28%. Guardando solamente alla fascia d’età 25-34 anni, l’Italia presenta una proporzione di laureati del 19% sulla popolazione totale, a pari merito con Austria e Messico, seguita da Brasile, Cile, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Turchia, contro una media dei Paesi OECD del 34%. In Corea e Giappone questa percentuale è superiore al 59%.

La percezione che ci siano troppi laureati non trova riscontro nei dati rispetto al mercato del lavoro. Osservando la Tabella 2.1, i tassi di impiego dei laureati in Italia sono sostanzialmente assimilabili alla media OECD ed a quella europea. Analoga è anche la situazione di ciò  che riguarda il reddito, dove i laureati guadagnano mediamente più dei diplomati, in misura maggiore di quanto succeda all’estero (circa il 70% in più in Italia contro una media OECD del 65%), con un trend in crescita nel decennio 1998-2007. Segno, questo, che il mercato del lavoro richiede e premia un titolo di studio più elevato.

Non sembrerebbero, quindi, sussistere esigenze di programmazione economica che giustifichino una selezione tout-court degli studenti che si immatricolano all’Università. Rispetto allo sviluppo economico del Paese i dati suggerirebbero una ridistribuzione delle immatricolazioni

verso quei Corsi di Laurea di cui il mercato del lavoro sente maggiormente il bisogno.

I motivi dell’introduzione del numero chiuso in numerosi Corsi di Laurea vanno, allora, probabilmente, ricercati nel campo delle motivazioni definite didattiche (Arcuri e Soresi, 1997). Il numero degli studenti sarebbe cruciale nel determinare la qualità della formazione universitaria. In questo senso, la peculiare situazione italiana viene riassunta da due indici del rapporto OECD.

Il primo riguarda la proporzione di studenti che, pur immatricolatisi, non completano il loro ciclo di studi all’Università. L’Italia risulta drammaticamente al primo posto. Seppure questi dati, nell’ultimo rapporto pubblicato, facciano riferimento al 2005, anno in cui la riforma dei cicli universitari non era ancora entrata a pieno regime, i dati ISTAT non rilevano un sostanziale miglioramento nel 2008, con solo il 47,8% delle matricole che raggiungono la Laurea (ISTAT, 2009; OECD, 2009). Come valore di riferimento, la media dei paesi OECD è leggermente superiore al 70%.

Il secondo, che pu  rappresentare anche una delle cause del primo indice, riguarda la spesa per ogni studente iscritto all’Università. Con i suoi 8.026 euro a testa, l’Italia spende meno di un terzo degli Stati Uniti (24.370$) e si colloca davanti a Cile, Corea, Estonia, Grecia, Messico, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Russia e Ungheria. La media dei paesi OECD è di 11.512$. Rapportando queste cifre al benessere generale di ogni paese, la situazione italiana appare ancora peggiore: solo lo 0,9% del PIL è investito nella formazione universitaria. Soltanto Brasile e Russia, con lo 0,8%, stanno peggio. La media OECD è dell’1,5%.

La selezione operata prima dell’immatricolazione potrebbe essere, allora, una risposta alla scarsità di fondi che si ripercuote anche sui bassi tassi di successo nei percorsi accademici. Di fronte all’iscrizione di numerosi studenti, molti dei quali non all’altezza di arrivare alla Laurea, una delle poche soluzioni compatibili con la mancanza di risorse economiche sarebbe quella di “chiudere le porte”. Questo nonostante il bisogno di un maggior numero di laureati nel mercato del lavoro.

Il rapporto OECD del 2013 dice che in Italia è aumentato il tasso di occupazione dei laureati rispetto ai meno scolarizzati, così come il livello di istruzione universitaria nei più giovani ma è laureato solo il 15% (media OCSE 32%) della fascia di età 25/64 anni.

Il tasso d’ingresso ai corsi universitari di primo e secondo ciclo è aumentato del 20% tra il 1995 e il 2011. È rimasto stazionario quello dei corsi a livello terziario più professionalizzante, per effetto di una maggiore accessibilità del sistema, cioè di riforme universitarie e di cambi strutturali avviati per meglio rispondere alle necessità del mercato del lavoro (ad es., il Portogallo ha registrato una forte crescita, addebitabile alla scelta di moltissime donne in età superiore ai 25 anni di iscriversi all’Università).

La spesa per il settore universitario è cresciuta del 39% (media OCSE solo 15%) ma il maggiore finanziamento è riconducibile soprattutto all’aumento della tassazione studentesca. Lo stanziamento complessivo pro capite (9.580 dollari, pari a 7.500 euro) continua ad essere notevolmente inferiore alla media OCSE ($ 13.528, € 10.500 euro) ed a quella dell’UE a 21 paesi ($ 12.856, circa € 10.000).

Nei Paesi OCSE, in Cina ed in Indonesia, è prevista una tendenza all’aumento del numero di studenti. Più stazionaria, invece, è la crescita degli iscritti ai Corsi di Dottorato di Ricerca (PhD), che giocano un ruolo cruciale nell’innovazione e nello sviluppo economico. La crescita economica è maggiore in Germania, Slovenia e Svizzera (+12%) e minore in Argentina, Cile e Indonesia (+1%). La analisi OECD sottolinea che vengono privilegiate ancora le discipline scientifiche: in Danimarca un dottorando su 5 segue programmi di ricerca in matematica e statistica, discipline scelte invece soltanto dall’1% degli studenti universitari.

L’età media delle matricole varia in base alle differenze nazionali nel conseguimento della maturità. E’ al di sotto dei 25 anni per l’81% dei corsi universitari propriamente detti e per il 62% di quelli a livello terziario professionalizzante, al di sotto dei 30 anni per i dottorati di ricerca.

Il profondo impatto della crisi economica che dal 2008 ha colpito molti paesi, ha spinto molti giovani ad anteporre la ricerca di un’occupazione, rinviando ad un periodo successivo l’ingresso all’Università. In Australia è consuetudine che gli studenti si prendano un anno sabbatico prima di proseguire gli studi. Il tardivo ingresso produce, per , maggiori costi pubblici e personali, ci  si traduce in improduttività potenziale di un lavoratore durante il periodo degli studi e minori introiti fiscali. Il tutto si contrappone alla difficoltà che lo studente incontra nel conciliare le due attività.            La mobilità degli studenti è in progresso nell’ultimo decennio. Provenienti per il 53% dall’Asia, sono ospitati per il 48% nelle Università dell’Unione Europea e per il 21% da quelle statunitensi: Australia, Canada, Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti accolgono da soli oltre la metà degli studenti provenienti da altri paesi. Gli studenti internazionali rappresentano oltre il 10% degli iscritti in Astralia, Austria, Nuova Zelanda, Svizzera e Regno Unito. La lingua in cui vengono impartiti i corsi, influenza le scelte degli studenti in mobilità. Inglese, francese, tedesco, russo e spagnolo sono le lingue più diffuse. Il Giappone, pur non utilizzando una lingua conosciuta, ospita un gran numero di studenti internazionali ed il 93% dagli altri paesi dell’Asia.

Una piccola nota a margine della presentazione di questi dati, riguarda la posizione degli altri Paesi industrialmente sviluppati. Tra gli Stati che seguono l’Italia negli indici presi in considerazione, soltanto la Russia fa parte del G8 mentre Corea e Messico siedono al tavolo del G20.

 

© I predittori della performance accademica  – Laura Foschi

Successo e insuccesso nello studio della Psicologia

Successo e insuccesso nello studio della Psicologia

Studi condotti nelle ex Facoltà di Padova, Pavia e Torino relativi ai Corsi di Laurea in Psicologia prima della riforma dei cicli universitari (Andreani Dentici e Amoretti, 2000; Briante e Garsia, 1995; Briante e Romano, 1997), indicavano una situazione ordinariamente drammatica: circa un terzo degli studenti non rinnovava l’iscrizione al secondo anno, proporzione che raggiungeva i due terzi dopo cinque anni.

Solo due studenti su dieci riuscivano a raggiungere la Laurea nei tempi previsti ed il tempo medio impiegato per laurearsi superava leggermente gli otto anni (rispetto ai cinque previsti).

Gli studi condotti a Torino (Briante e Garsia, 1995; Briante e Romano, 1997) indicavano una scissione, determinata dall’iter di studi condotti prima dell’iscrizione all’Università.

Da una parte gli studenti provenienti dai licei, forti di curricula indirizzati al proseguimento degli studi, dall’altra studenti che avevano frequentato istituti tecnici, commerciali o professionali, più orientati all’acquisizione di conoscenze professionali.

I dati dimostravano che gli studenti di successo appartenevano, tendenzialmente, al primo gruppo.

I motivi del successo e dell’insuccesso nella carriera universitaria sono stati indagati da due prospettive distinte: quella psicoeducativa e quella psicosociale.

La prospettiva psicoeducativa

De Beni, Moè e Rizzato (2003), ferma restando la complessità della natura del fenomeno e la varietà delle potenziali cause implicate, forniscono una possibile chiave interpretativa dei numerosi fallimenti nel percorso universitario, individuandola nelle difficoltà incontrate nello studiare. L’organizzazione dei tempi, degli spazi e dei contenuti, infatti, cambiano radicalmente rispetto alla precedente esperienza scolastica. Le forme di docenza, le richieste d’apprendimento e la loro verifica si diversificano, comportando allo studente un adeguamento mentale e organizzativo non indifferente (Giusberti, 1999). Vengono richieste abilità autonome di pianificazione e di regolazione del proprio metodo di studio di fronte a grandi quantità di materiale da studiare e memorizzare (Cornoldi, 1995; Legrenzi, 1994);

I dati rilevati in contesti educativi diversi mostrano che gli studenti risentono anche delle caratteristiche sociali e culturali. Entwistle, Tait e McCune (2000) hanno constatato che gli studenti sudafricani differiscono da quelli scozzesi rispetto ai vissuti motivazionali legati all’apprendimento, alla paura del fallimento e all’utilizzo di alcune strategie di studio, di pianificazione e di organizzazione personale. In Europa, Bräten e Olaussen, (1998) hanno evidenziato che gli studenti universitari europei, rispetto a quelli americani, usano maggiormente le strategie di pianificazione e organizzazione dello studio, di selezione dell’idea centrale, di auto-valutazione e di elaborazione dell’informazione. Gli studenti europei, per , risultano essere meno motivati, diligenti, autodisciplinati e tenaci nell’affrontare compiti difficili e più ansiosi, rispetto agli studenti americani.

La prospettiva psicosociale

Da un punto di vista psicosociale, il fenomeno del protrarsi dei cicli di studio universitari è spesso considerato indicativo di esperienze di disagio connesse con la transizione dall’adolescenza, all’età adulta (Carugati e Selleri, 1995; Maccarone e Zanasi, 1997; Melucci, 1992; Palmonari, 1997; 2001; Valerio e Minutillo, 1997). A questo fenomeno possono contribuire altri elementi, riassunti da Ravenna e Roncarati (2005) in quattro punti:

    1. scelta iniziale, in termine di processi valutativie di presa di decisione attivati (Arcuri, 1999; Rumiati e Savadori, 1999);
    1. strategie di autoregolazione e comportamenti di studio adottati (Moè e De Beni, 2000; Zimmerman, 1999);
    1. insuccessi in itinere e stili attributivi impiegati per dare conto di queste esperienze (Moè e De Beni, 2002);
    1. fattori ostacolanti relativi al rapporto dello/a studente/essa con l’Università o del tutto estranei a tale contesto (Sirigatti, Stefanile e Pasca, 1997).

La scelta di iscriversi all’Università pu  essere il risultato di un percorso cognitivo centrale o  sistematico (un accurato processo di riflessione – Arcuri e Pizzini, 1999) oppure periferico o superficiale (ragionamento semplificato o impulsivo – Petty e Cacioppo, 1986). Non sempre una scelta fondata su un’attenta analisi degli elementi in gioco è la più proficua perché pu  portare ad ossessive ricerche e a livelli di ansia elevati (Polá?ek, 1990). Questo processo pu  coinvolgere le motivazioni e le convinzioni relative alla propria efficacia come studenti (Bandura, 1993; 2000) nonché il rendimento precedente e le conoscenze possedute circa l’istruzione universitaria (Sarchielli, 1978).

Nella realtà dei Corsi di Laurea in Psicologia in Italia, tale scelta sembra essere il risultato di processi di riflessione anche degli studenti fuori corso (De Beni, Moè e Rizzato, 2003; Ravenna e Roncarati, 2005). In questa prospettiva, l’ingresso all’Università corrisponderebbe ad un periodo di sospensione nei confronti di impegni sociali e scelte definitive. Ci  potrebbe favorire una certa indeterminatezza in riferimento all’identità personale e sociale (Tajfel, 1981) che in taluni casi arriverebbe ad innescare stati di disagio e di stress (Melucci, 1992).

L’ingresso all’Università pone, infatti, l’individuo di fronte ad una serie di cambiamenti che possono essere vissuti sia come opportunità di crescita personale sia come momenti di crisi (Ravenna, Tugnoli e Gualandi, 2000).  L’impatto di questo evento, che è in definitiva un “compito di sviluppo” (Havighurst, 1952; Palmonari, 1997), introduce importanti modificazioni nelle modalità di relazione dell’individuo con l’ambiente (Ruble e Seidman, 1996). I mutamenti vengono mediati dalle caratteristiche peculiari dell’individuo, quali il ruolo dell’ottimismo, dell’autoefficacia e della speranza (Snyder, Shorey, Cheavens, Mann Pulvers, Adams III e Wicklund, 2002), che orientano la scelta dei percorsi e delle modalità con cui le diverse situazioni vengono affrontate (Cicognani, 1999). Il progetto di laurearsi richiede la sua articolazione in sottoprogetti più limitati (Miglietta, 1998).

Coulon (1985) ha identificato tre fasi critiche nella transizione che caratterizza il percorso universitario:

    1. estraneità, caratterizzata da nuove regole non sempre immediatamente identificabili;
    1. apprendistato, in cui si familiarizza progressivamente con la nuova realtà;
    1. affiliazione, durante la quale gli studenti raggiungono una certa padronanza delle regole e delle capacità di interpretarle.

Laddove queste tre fasi non siano adeguatamente affrontate, possono prodursi situazioni di difficoltà e di crisi tali, da mettere seriament0e in discussione la conclusione stessa del percorso universitario.

Le cause del disagio sperimentato nella vita quotidiana non sono riconducibili solo a questioni di rendimento ma anche ad aspetti più prettamente psicosociali, quali una certainsoddisfazione per la scelta compiuta e sentimenti di inadeguata integrazione in ambito universitario (Ravenna, Tugnoli e Guanaldi, 2000). A conferma di questo, Ravenna e Roncarati (2005) rilevano come i giudizi sulla propria esperienza universitaria degli studenti fuori corso siano, nel complesso, più positivi che negativi, attribuendo questo fenomeno ai sentimenti di orgoglio per la propria appartenenza (Tyler e Blader, 2000) che sarebbero elementi chiave dell’autostima collettiva (Luhtanen e Crocker, 1992). Le cause richiamate dagli studenti per giustificare il loro ritardo sono maggiormente collegate a fattori esterni (Ravenna e Roncarati, 2005), in coerenza con quanto rilevato dall’esteso filone di studi sui processi di spiegazione dei successi e dei fallimenti in ambito scolastico (Weiner, 1974; 1986) per preservare l’autostima (Aronson, 1992; Baumeister, 1993).

 

© I predittori della performance accademica  – Laura Foschi